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La distanza tra Cleveland e Golden State
16 gen 2018
16 gen 2018
L'ultimo incontro tra le due finaliste ha ribadito ancora una volta quanta strada abbiano da fare i Cavaliers.
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Da quando LeBron James è tornato a Cleveland, gennaio è sempre stato un mese complicato per i Cavaliers: negli ultimi anni le scoppole si sono concentrateo soprattutto in questo lasso di tempo, tra cui una contro Golden State in casa due anni fa che portò al cambio di guida tecnica da David Blatt a Tyronn Lue. Anche questo inizio di 2018 ha rispecchiato la tradizione: non si arriverà all’esonero del coach, ma certamente i temi di discussione e i dubbi sui vicecampioni in carica non mancano.

Una delle curiosità che ha accompagnato lo scambio agostano con i Celtics era legata a come i Cavs avrebbero lavorato per “nascondere” le difficoltà difensive di Thomas. Le recenti prestazioni contro Minnesota, Toronto e Indiana hanno ribaltato la questione, nel senso che il problema primario per Cleveland ora come ora non è sopravvivere con “IT” in campo, ma proprio semplicemente difendere nei 48 minuti. Contro due squadre da playoff come T’Wolves e Raptors, il primo tempo è stato un compendio di quello che non va: mancanza di comunicazione, poca per non dire scarsa reattività a rimbalzo e sulle palle vaganti, raddoppi e aiuti sbagliati per tempistica e spaziature. I dati però dicono che la differenza vera la fa l’attacco: nelle ultime 10 partite prima di stanotte, il Defensive Rating è oscillato dai 110.7 nelle due vittorie al 112.9 nelle otto sconfitte, mentre l’Offensive Rating è passato dai 121.2 dei successi al 98.5 delle battute d’arresto. In sintesi: Cleveland difende male sempre, e solo un attacco atomico può salvarli da sconfitta certa.

Con queste premesse sfidare i Golden State Warriors reduci da 12 vittorie consecutive in trasferta è come combattere il Demogorgone di Stranger Things con una fionda e senza sassi. Ma poi c’è il vecchio adagio dello sport secondo il quale sfidare “la Grande Squadra” dà motivazioni extra fino a coprire lacune e difetti - ed in effetti è quello che è accaduto ai Cavs questa notte per almeno tre quarti. Trentasei minuti di buon basket però non bastano per vincere, perché quegli altri sono semplicemente più lunghi, più forti, più solidi e più in forma.

A proposito di motivazioni: il quintetto degli Warriors è stato presentato alla Quicken Loans Arena con in sottofondo la marcia imperiale di Star Wars e sugli schermi una Morte Nera gialloblu che piano piano si distrugge. Se poi il concetto non fosse stato chiaro è passato anche questo roll. Ma la domanda sorge spontanea: quanto avrà caricato Golden State in una scala da 9 a 10?

Che fosse una partita diversa dalle altre era già chiaro prima della palla a due e il primo quarto di LeBron è stato ulteriormente esemplificativo: il Re ha chiuso i primi 12 minuti con 16 punti e 6/8 al tiro, attaccando costantemente qualsiasi avversario gli si parasse davanti e cercando di mettere in ritmo i propri compagni. La partenza sprint dei Cavs e del loro leader ha lasciato però imperturbabili gli Warriors ed è già qui che è girata la partita: più che l’Impero, Golden State è Luke Skywalker che si toglie la polvere dalle spalle come risposta alla potenza di fuoco di Kylo Ren.

L’intesa Thomas-James promette bene: qui azione spettacolare con il contributo sostanziale di J.R. Smith che blocca Klay Thompson.

L’inizio difensivo dei Cavs è stato pregno di buona volontà, ma quello è Curry e va tenuto sotto controllo ogni singolo dannato momento.

Kevin Love qui va troppo pigro sul pick and roll Durant-Bell e lascia spazio in abbondanza per il passaggio al lungo che ha una prateria davanti, anche perché la difesa è troppo preoccupata di Curry e Thompson per abbozzare una chiusura.

In una partita ad alto punteggio di solito vince non chi fa un punto in più ma chi costringe l’avversario a farne uno in meno. E nel secondo tempo è stata la difesa dei campioni in carica a fare la differenza. Più attenzione ai dettagli, alle linee di passaggio, alle uscite dai blocchi e ai tiri concessi agli avversari, forzando il più possibile gli isolamenti e i tiri dalla media: Golden State è stata implacabile dopo un primo tempo in cui ha concesso il 56.5% al tiro, tenendo Cleveland al 35.4%. Così ha avuto anche più possibilità di segnare in contropiede - 13 punti nella ripresa, 7 prima dell’intervallo - e di mettersi nel proprio ritmo nella metà campo altrui. I Cavs sono rimasti ancorati al punteggio finchè hanno avuto la forza di attaccare il ferro: 62 punti nel pitturato sono un bottino ragguardevole, specie se messo in confronto con partite passate (a Natale furono solo 20), ma alla fine le energie erano ridotte al lumicino e tutte le conclusioni “di comodo” (i tiri da due fuori dal pitturato) sono state sbagliate. Il 68.1 di Offensive Rating nel quarto periodo è emblematico di come da una parte Cleveland non ne avesse più - ha sbagliato 15 dei primi 16 tiri - e dall’altra Golden State fosse in totale controllo della situazione, facendo il parziale perfino con Curry e Durant in panchina pur non dilagando mai nel punteggio.

Inizio terzo quarto. Green ha appena stoppato Crowder recuperando metri su metri in un amen. Sull’azione successiva Thomas tenta la scampagnata in area, ma Durant gli oscura la visuale. Da qui è tutta un’altra storia, la solita.

Oltre all’atteggiamento difensivo c’è anche un altro fattore che in questo momento distanzia Warriors e Cavaliers in maniera abissale. Se per questi ultimi LeBron James è l’unico che riesce a garantire continuità offensiva durante la gara - dato che Thomas è fisiologicamente indietro e si vede, Love si spegne più di quanto si accenda e Dwyane Wade fa quel che può -, Golden State ha una varietà di soluzioni che impressiona ogni volta che li si vede giocare. Stanotte il primo quarto è stato di Klay Thompson, con 3 su 5 dall’arco; il secondo ha visto sprazzi geniali di Curry; il terzo è stato il palcoscenico di un sublime Kevin Durant; nel quarto la panchina ha contribuito a chiudere i conti. Nulla di nuovo sotto il sole, intendiamoci: ma non deve essere dato per scontato l’incredibile modo in cui questa squadra riesce sempre a giocare il proprio basket quando conta. Una supremazia mentale prima ancora che tecnica e tattica con pochi eguali nella storia dell’NBA.

La notizia non è che gli Warriors producano questo canestro, ma che TNT si sorprenda ancora.

Nel giorno dedicato a Martin Luther King abbiamo dunque avuto la conferma, se proprio ce ne fosse bisogno, che i favoriti per il titolo NBA abitano ad Oakland e che per batterli non basta presentarli come quelli cattivi né creargli problemi con l’acqua calda nelle docce. Cleveland dovrà, come negli ultimi tre anni, ritrovare forza e concentrazione per superare il terribile gennaio. Ma dovrà farlo rapidamente se vuole essere minimamente competitiva a giugno: Golden State è lontana e ad Est ci sono squadre fameliche pronte a prendere lo scalpo di LeBron James e compagni.

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