
Di seguito trovate un estratto di "Monaco 1958", il nuovo libro di David Peace, edito dal Saggiatore, sul disastro aereo che nel 1958 distrusse buona parte del Manchester United, traumatizzando a vita i superstiti. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui.
Duncan era in cattive condizioni, in condizioni serie, ma era anche inquieto, molto inquieto, continuava a toccarsi il polso sinistro, a tamburellare sulle lenzuola e le coperte del suo letto d’ospedale, agitandosi e preoccupandosi.
Devi restare fermo, disse sorella Solemnis, che cercava di prendersi cura di Duncan. È importante che tu riposi.
Ma Duncan non poteva riposare, non riusciva a stare fermo. Il mio orologio è sparito. Qualcuno mi ha rubato l’orologio.
Stai calmo, per favore, lo implorò sorella Solemnis. Non avevi nessun orologio al polso quando ti hanno portato qui, perciò qui nessuno ti ha preso l’orologio.
Lei non capisce, è il mio orologio del Real Madrid. È d’oro. Lo devo riavere. Me lo può trovare, per favore?
Farò del mio meglio, disse sorella Solemnis.
Me lo promette, sorella?
Sì, lo prometto, promise sorella Solemnis, ma tu devi promettere a me che starai calmo e riposerai.
Quel sabato, quando Jimmy tornò alle corsie, sorella Solemnis lo fermò. Da una tasca della sua tunica bianca prese un orologio, danneggiato in modo irreparabile, e disse, Signor Murphy, sa se è questo l’orologio che Duncan dice di aver perso? È stato trovato da uno dei soccorritori, ma messo da parte. È l’orologio di Duncan?
Jimmy le prese l’orologio, si rigirò in mano l’orologio, l’orologio maciullato e fracassato, rotto in modo irreparabile, e Jimmy annuì, Sì.
Sorella Solemnis sorrise. Pensa lei a...?
Jimmy annuì di nuovo. Entrò nella corsia dove Duncan giaceva nel letto, gli occhi chiusi. Jimmy si fermò di nuovo davanti al letto, con gli occhi fissi su quel ragazzo distrutto. Aveva il bacino rotto, fratture multiple alle gambe, in particolare la coscia destra molto danneggiata, alcune costole rotte, un polmone collassato e, cosa peggiore in assoluto, i reni gravemente lesi. I dottori speravano che un rene artificiale avrebbe potuto tenere in vita Duncan, ma dubitavano molto che potesse tornare a camminare, figuriamoci a prendere a calci un pallone. Jimmy si chinò di fianco al letto di Duncan. Delicatamente allacciò l’orologio al polso di Duncan.
Le palpebre di Duncan tremolarono, poi gli occhi si aprirono. Guardò Jimmy e sorrise. Ciao, Jimmy.
Ciao, figliolo, disse Jimmy con un sorriso, il miglior sorriso che gli riuscì. Hanno trovato il tuo orologio. Te l’ho messo al polso.
Duncan sorrise di nuovo. È fantastico, Jimmy, grazie, Jimmy. Allora, a che ora è la partita sabato?
Al solito orario, Dunc, le tre.
Duncan richiuse gli occhi. È contro i Wolves, giusto? Devo essere a posto per allora, Jim. Non posso perdermela.
Be’, ti facciamo riposare, figliolo, disse Jimmy, cercando di tenere la voce ferma, di evitare che le parole gli si strozzassero in gola, per dire, Non abbiamo bisogno di te per batterli.
Duncan annuì, gli occhi chiusi, poi sorrise di nuovo e sussurrò, Allora dateci sotto anche per me.
A Manchester quel pomeriggio lo United avrebbe dovuto giocare contro i Wolverhampton Wanderers all’Old Trafford. I Wolves erano in testa alla classifica, ma lo United era campione in carica, campione da due anni di fila, e lo United voleva essere campione di nuovo, fare la tripletta di titoli per eguagliare il record di Huddersfield e Arsenal, e perciò questa avrebbe dovuto essere la partita più importante della stagione, l’occasione per lo United di agganciare i Wolves. Ma la partita era stata annullata, rinviata a chissà quando, se mai si fosse giocata. Ma a Manchester quel pomeriggio la gente indossò comunque le sue sciarpe, le sue sciarpe rosse e bianche, ancora umide, ancora bagnate di lacrime, si radunò nei pub, non per scherzare o cantare, non oggi, nemmeno per bere, per bere davvero, ma semplicemente come faceva di solito, come faceva sempre, e poi andò a prendere il treno, senza spingere per salire, non oggi, il treno silenzioso oggi, e poi scese a Warwick Road, come faceva di solito, come faceva sempre, senza spintonarsi per scendere, nessuno che spingeva, nessuno che spintonava, non oggi, nessuno che diceva neanche mezza parola, arrancando a fatica verso lo stadio, le teste chine, non osando alzare lo sguardo, le mani affondate nelle tasche, camminando in silenzio, verso lo stadio, niente venditori, niente ambulanti, non oggi, oggi nient’altro che silenzio, silenzio e freddo, un freddo maledetto, lo stadio si avvicinava, la gente si toglieva i berretti, i cappelli, poi si fermava, restava là immobile, davanti allo stadio, fuori dai cancelli, alcuni guardando in su, su alle pareti delle tribune, altri con lo sguardo per terra, ai loro piedi, alcuni mormorando preghiere, sussurrando parole, combattendo una battaglia persa contro le lacrime, di nuovo asciugandosi il viso con le sciarpe, accendendosi una sigaretta dietro l’altra, una in bocca e una per ogni mano, strascicando i piedi attorno allo stadio, un giro silenzioso dello stadio silenzioso, poi fermandosi di nuovo, di nuovo a testa china, prima di voltarsi per tornare indietro, alla stazione, al treno, al pub e poi a casa, le case dove i loro cuori non c’erano più, i loro cuori erano qui, per sempre qui, fatti a pezzi, qui per terra, allo stadio, qui all’Old Trafford, di sabato.
Albert sentiva Billy Whelan che gli sussurrava, gli diceva, Se questa è la fine, Scanny, allora sono pronto...
Albert aprì gli occhi. Era in un letto d’ospedale, la testa ingessata, la mano di sua moglie in una mano, un telefono nell’altra. Stava gridando al telefono, Pronto, pronto? C’è nessuno? Sto cercando i miei amici. Devo uscire di qui, ma non trovo i miei amici. Un’infermiera gli strappò delicatamente di mano il telefono mentre sua moglie gli accarezzò dolcemente la spalla, il braccio, e disse, Stai bene, amore, andrà tutto bene. Guarda, ci sono qui Dennis e Ray, e laggiù Bobby e Kenny. Perché non fai un saluto a Bobby, caro? Albert provò ad alzare la mano, il braccio, ma la mano, il braccio erano di pietra e non si muovevano, e Albert richiuse gli occhi, di nuovo al buio, di nuovo tutto buio finché sentì passare qualcuno, quel qualcuno dire, Albert Scanlon non giocherà a calcio mai più, e Albert aprì gli occhi. Si guardò attorno, vide i ragazzi nei loro letti, ancora nei loro letti, ma poi ecco arrivare Jimmy Murphy, entrò nella corsia, arrivò da lui e Jimmy disse, Ciao, figliolo, ciao. Felice di vederti, figliolo, e con gli occhi aperti, tanto per cambiare. Molto bene. Allora come ti senti, figliolo?
Ma Albert scosse la testa, cercò di non piangere ma iniziò a piangere, e Jimmy gli prese la mano e gliela tenne e disse, Cosa c’è, figliolo? Che c’è che non va?
Ho appena sentito qualcuno dire che non giocherò più.
Be’, queste sono stronzate, figliolo, disse Jimmy. Vere e proprie stronzate. Chi è stato a dirtelo?
Albert scosse di nuovo la testa. Non lo so, Jimmy, qualcuno che passava. Non ho visto.
Be’, questo perché non era nessuno, figliolo, disse Jimmy. Ecco chi era, figliolo. Perché tu stai bene. I dottori dicono che tra poco tornerai a giocare.
E Albert guardò Jimmy e sorrise e disse, Davvero, Jimmy? Ne sei proprio sicuro?
Hai la mia parola, disse Jimmy, te lo prometto, figliolo, tornerai a giocare tra pochissimo.
Alle tre di quel sabato pomeriggio Stan Cullis, allenatore dei Wolverhampton Wanderers, il suo staff e i giocatori si radunarono sul campo del Molineux e rimasero in piedi in silenzio, in onore degli uomini con i quali avrebbero dovuto giocare quel pomeriggio, e in ogni stadio del paese, e anche in altri paesi, in migliaia e migliaia restarono in piedi in silenzio, le teste senza cappello, chini in preghiera e riflessione, oppure cantarono insieme, a migliaia, Abide with me, le fasce nere sul braccio di ogni giocatore, la neve, la neve fitta sopra molti dei campi, le bandiere dei club appese a mezz’asta nel grigiore invernale, o la pioggia battente che sferzava il White Hart Lane dove Geoffrey Green sedeva in tribuna stampa, a seguire la partita del Tottenham contro il Manchester City, rendendosi conto quando l’arbitro diede il fischio d’inizio, quando le squadre ripresero il gioco, che andare avanti, per quanto dolorosamente, era l’unica strada possibile, sforzandosi di raggiungere quello che veniva ammirato così profondamente nei campioni feriti, osservando il Tottenham e il City fare del loro meglio nell’orribile fango da fattoria, ma ancora le ombre di quelle sagome familiari, ora improvvisamente e tragicamente perdute, balenavano e danzavano, sfrecciavano qua e là, sul campo, nella mente, sì nella mente, ma a volte sembrò a Geoff anche alla vista, in bella vista davanti ai suoi occhi, proprio davanti agli occhi, vedeva Danny Blanchflower giocare nel suo solito modo ostinato mentre suo fratello Jackie giaceva tra i feriti in un ospedale tedesco, Danny forse felice della quiete del campo di gioco, lontano dai rumori della tragedia, ma quando Brooks lasciò Barnes e Warhurst a scivolare nel fango, tutto quel che Geoff riuscì a vedere, riuscì davvero a vedere, fu quella fluida trama di gioco della settimana scorsa, appena una settimana fa, quando Colman e Morgans avevano mandato Tommy Taylor a segnare il quinto gol dello United e il suo secondo della giornata, l’ultimo gol della sua vita, e quando i giocatori incrostati di fango uscirono affaticati dal campo di gioco al White Hart Lane tutto quel che Geoffrey Green riuscì a vedere, che chiunque altro riuscì a vedere furono quei giocatori del Manchester United che uscivano sottobraccio da quel campo di Highbury la settimana scorsa, vestiti di bianco, di profetico, spettrale bianco.