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Digerire il biscotto
25 giu 2015
25 giu 2015
L'Under-21 di Di Biagio aveva tutte le qualità per andare avanti nell'Europeo. Ma si è messa da sola in condizione di uscire dal girone, anche vincendo contro la squadra migliore tra le rivali.
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Che per noi sia un'ingiustizia il fatto che si siano effettivamente qualificate le due squadre che si erano messe in condizione di passare più facilmente il girone la dice lunga sulla considerazione che l’opinione pubblica italiana ha per tutto ciò che è al di là del risultato finale di una partita di calcio. In semifinale giocheranno le due squadre in teoria meno attrezzate tecnicamente del girone, Svezia e Portogallo: di certo non erano entrambe le più forti, ma è passato chi aveva le idee più chiare; ed è paradossale parlare di ingiustizia perché è esattamente quest’ingiustizia (poter colmare un eventuale gap tecnico con tattica, strategia e programmazione, anche un po' di fortuna) a rendere il calcio uno sport unico.

 

Queste osservazioni dovrebbero essere ancora più valide in un mondo come quello del calcio giovanile, dove la priorità dovrebbe essere la crescita individuale (tecnica, tattica, psicologica, fisica) e l’apprendimento di idee di gioco, piuttosto che il risultato in sé. Voglio dire: quanto avrebbe contato per noi vincere l'Europeo U-21, qual è il reale valore sportivo di competizioni come il Mondiale U-20?

 

Lo dico perché ho l'impressione che l’Italia di Di Biagio si sia fatta risucchiare dal vortice di nomi di giocatori in panchina, di richieste più o meno velate della stampa, del gioco a noi tanto caro del “come fa a non giocare X”, finendo in un limbo da cui è uscita quando ormai era troppo tardi. È tautologico dire oggi che all’Italia sarebbe bastato vincere contro un Portogallo non irresistibile (ma più forte di quello che i risultati possano far pensare, con giocatori già formati ad alto livello, William Carvalho, Bernando Silva, Sergio Oliveira) o, sopratutto questo è il rimpianto, almeno pareggiare con una Svezia ridotta in dieci uomini, per evitare il tanto temuto “biscotto”. Ma andiamo con ordine.

 



Per tutta la fase di qualificazione all’Europeo Di Biagio plasma l’Italia su un 4-2-4 molto offensivo. Nella prima uscita ufficiale contro il Belgio, meno di due anni fa, gli azzurri si presentano in campo così: Bardi; Sabelli, Bianchetti, Di Lorenzo, Liviero; Baselli, Battocchio, Molina, Piscitella; Gatto, Belotti.

 

Nonostante la squadra venga nel tempo integrata con quelli che poi diventeranno giocatori chiave (i vari Rugani, Romagnoli, Viviani, Zappacosta, Berardi, e così via), i princìpi rimangono sostanzialmente gli stessi: quelli di una squadra lanciata continuamente verso la porta avversaria. In fase offensiva, la tendenza naturale a entrare dentro il campo di due finte ali come Berardi e Battocchio liberava lo spazio all’avanzata dei terzini, mentre i due attaccanti si sfalsavano per rompere la linea difensiva avversaria, con Belotti di solito a cercare la profondità. Anche la fase di non possesso era diretta ad arrivare il prima possibile in porta, con cinque giocatori in pressing alto (i due attaccanti, le due ali e uno dei due centrocampisti centrali) a bloccare i punti nevralgici della costruzione dal basso della squadra avversaria (difensori centrali, terzini ed eventuale regista).

 

Era un assetto spregiudicato, che aveva dimostrato determinati difetti strutturali (asincronia nel pressing tra centrocampo e difesa, sofferenza nelle transizioni difensive, centrocampo spesso in inferiorità), ma che aveva comunque prodotto i suoi risultati: l’Italia arrivò prima nel suo girone davanti al Belgio e alla Serbia di Mitrovic e Markovic, e riuscì poi a vincere i play-off.

 



 

Di Biagio, però, ha iniziato a mettere in discussione quanto fatto già in alcune amichevoli precedenti all’Europeo, cercando di riposizionare la squadra su un più equilibrato 4-3-3. L’obiettivo non era solo quello di limitare i difetti citati in precedenza, ma anche di dare sfogo alla grande abbondanza a centrocampo, dove a spartirsi le maglie da titolari c’erano Baselli, Benassi, Viviani, Cataldi, Sturaro e Crisetig. Inoltre, togliere un attaccante per aggiungere una mezzala poteva apparire funzionale, anche alla luce del grave infortunio di Bernardeschi, probabilmente la più credibile delle opzioni da affiancare a Belotti. La sperimentazione del 4-3-3 nella fase preparatoria al torneo è stata sufficiente perché Di Biagio lo ripresentasse alla prima partita ufficiale contro la Svezia, ma forse era troppo presto per cambiare così profondamente tutto il lavoro fatto fino a quel momento.

 



 

Quella partita avrebbe dovuto far scattare più di un campanello d’allarme, al di là del cinismo del risultato finale. Il nuovo assetto aveva innanzitutto distrutto il sistema di recupero del pallone, uno dei punti forti dell’Italia di Di Biagio, con un’Italia incredibilmente bassa che tentava un pressing quasi esclusivamente individuale, solo a partire dalla metà campo. Anche la fase offensiva veniva impoverita notevolmente, con la naturale tendenza di Belotti a occupare gli spazi non bilanciata da opportune incursioni alle sue spalle da parte delle mezzali. La manovra italiana si riduceva così a far viaggiare il pallone in maniera sterile da una parte all’altra del campo in modo da mandare i terzini al cross oppure alle iniziative personali di Berardi (molte volte evanescenti).

 

Nonostante ciò, il tecnico ha dato l’impressione di voler dare la responsabilità della sconfitta ai propri giocatori, cambiando nella successiva sfida contro il Portogallo ben quattro titolari. La furia rivoluzionaria di Di Biagio ha avuto almeno la fortuna, o il merito, di inserire due mezzali abilissime nell’interpretazione dei movimenti senza palla: Cataldi e Benassi, donando rinnovata creatività alla manovra offensiva italiana. Il copione, però, è rimasto sostanzialmente lo stesso: è finita con un pareggio striminzito, nonostante il giudizio ai punti sarebbe andato sicuramente a favore degli azzurri.

 



Nella partita decisiva di ieri Di Biagio è tornato alle origini del 4-2-4: in attacco Trotta affiancava Belotti; in mezzo al campo la coppia Crisetig-Cataldi; sulle fasce, inamovibili, Berardi e Benassi.

 

L’Italia si è dimostrata subito a suo agio nell’assetto che era stato pazientemente costruito nei mesi precedenti. Fin dai primi minuti gli azzurri hanno messo in grave difficoltà la costruzione bassa dell’Inghilterra, con un pressing alto e intenso portato dai quattro uomini offensivi (encomiabile l’atteggiamento di Belotti e Trotta) che andavano a sovrapporsi alla difesa avversaria, più uno dei due centrocampisti centrali (di solito Crisetig) che in fase di non possesso andava a disturbare l’impostazione di Chalobah. La temibile coppia d’attacco inglese, Ings-Kane, faticava a ricevere rifornimenti puliti, con l’attaccante del Tottenham che molte volte si ritrovava costretto a estraniarsi dalla linea d’attacco pur di trovare il possesso.

 



 

Certo non è un gioco privo di rischi, e non è un caso che l’Italia abbia mostrato gli stessi difetti della fase di qualificazione: il pressing alto non sempre veniva accompagnato dalla salita della difesa, lasciando spazio agli inserimenti tra le linee dei trequartisti avversari (particolarmente pericoloso Redmond), che potevano puntare la difesa italiana faccia alla porta.

 

Il tutto veniva peggiorato dagli sfiancanti movimenti a elastico di Kane, che ha più volte messo da solo in difficoltà l’intera retroguardia azzurra. In questo senso, l’ottima prestazione di Bardi (escluso il gioco con i piedi) ha permesso all’Italia di tenere il risultato in equilibrio prima del letale uno-due del primo tempo.

 

Tutto sommato, però, l’adozione del modulo più familiare ha permesso all’Italia di ritrovare alcune delle sue caratteristiche peculiari. I primi due goal nascono da alcuni automatismi offensivi tipici della prima Italia di Di Biagio: nel primo, Berardi rientra dentro al campo per poi premiare il taglio in profondità di Belotti con un assist geniale; nel secondo, invece, è l’inserimento di Benassi a venire premiato dopo la splendida transizione offensiva guidata da Crisetig. In tutte e due le azioni si vedono i terzini andare a occupare lo spazio liberato dai movimenti delle due ali.

 



 

Di Biagio ha avuto la dimostrazione tardiva che, volendo, avrebbe potuto applicare le sue idee anche con i nuovi uomini a disposizione. La sostituzione della coppia Viviani-Baselli, titolare durante la fase di qualificazione, con quella Cataldi-Crisetig ha donato al centrocampo maggiore dinamicità sia in fase offensiva che difensiva, rendendo l’intera squadra meno vulnerabile alle transizione avversarie. Anche l’inserimento di Benassi ha permesso all’attacco di avere un giocatore complementare rispetto a Berardi, che invece, come Battocchio, vuole il pallone sui piedi per puntare il terzino avversario.

 

L’eliminazione dell’Italia U-21 in questo Europeo mi ha ricordato molto quella di circa un anno fa della Nazionale maggiore al Mondiale brasiliano. Anche in quel caso, le buone idee iniziali vennero sotterrate dalla pressione dell’opinione pubblica e dei media, sempre inclini a mettere gli uomini prima delle idee di gioco. Anche in quel caso, a passare furono le squadre meno dotate tecnicamente e, anche in quel caso, l’Inghilterra arrivò ultima.

 

Il fatto che gli stessi identici errori siano stati ripetuti a solo un anno di distanza a livello giovanile conferma l’impressione che in Italia, forse, la Nazionale di calcio è un affare troppo nazional-popolare da non poter essere lasciato a una programmazione seria. E che il successo o il fallimento dipendano sostanzialmente dalla buona o dalla cattiva sorte. Additare il “biscotto” tra Svezia e Portogallo non è altro che guardare il metaforico dito che indica la luna.

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