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(di)
Marco D'Ottavi
Perdere l'amore: Diego
20 dic 2017
20 dic 2017
Per la rubrica dedicata ai giocatori che ci deludono, il fallimento del trequartista brasiliano.
(di)
Marco D'Ottavi
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Illustrazione di Emma Verdet / Getty
(foto) Illustrazione di Emma Verdet / Getty
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Com'è felice il destino dell'incolpevole vestale!

Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata.

Infinita letizia della mente candida!

Accettata ogni preghiera e rinunciato a ogni desiderio.

Non c’è niente che io possa aggiungere al fallimento di Diego Ribas da Cunha, così pacifico e netto da raccontarsi benissimo da sé. Eppure la mia infatuazione per lui - che ancora oggi continuo a ritenere legittima - può essere un monito per tutti quelli convinti che il talento non possa esaurirsi in un pomeriggio di fine estate, né l’amore scomparire senza lasciare traccia alcuna. Diego non è stata una promessa non mantenuta, un talento strozzato. No, Diego è stato uno dei migliori giocatori della sua generazione e poi più niente, all’improvviso e senza un vero motivo. Io, come molti altri, ci sono cascato e questa è la mia storia.PremessaPer capire come mi presi una cotta per Diego bisogna conoscere che tipo di esperienza era seguire il calcio nel 2006, data recente da un punto di vista storico, ma decisamente lontana se applicata alla fruizione dell’intrattenimento sportivo. Nel 2006 Internet si usava principalmente per rimorchiare, le statistiche erano chiuse nei cassetti degli esperti, nessuno approfondiva poi così tanto le cose, soprattutto quelle lontane, e la gente era felice abbastanza da non avere un’opinione su tutto.Nel mio 2006, lo sappiamo tutti, l’Italia vince i mondiali; la squadra per cui tifo viene retrocessa in Serie B, creando in me uno strano sentimento di ri-attaccamento al calcio e - fondamentale ai fini di questa storia - a casa arriva la pay-per-view, aprendo una finestra non banale sul mondo dello sport. Il 2006 è anche l’anno in cui Messi inizia a dominare nella Liga, Liga che domina ancora oggi; l’anno in cui Cristiano Ronaldo per la prima volta va in doppia cifra in Premier League, scoprendo che bella sensazione è fare tanti gol. Nel 2006 la Ligue 1 è il Lione, mentre la Bundesliga è ancora un torneo esotico, così indecifrabile ai miei occhi da poter essere vinto dallo Stoccarda. Io, che sempre nel 2006 ero stato in vacanza a Berlino e me ne ero innamorato come uno giovane e stupido può innamorarsi di Berlino, avevo deciso di concentrare le mie energie sul campionato tedesco, soprattutto su l'Hertha Berlino, soprattutto su Marko Pantelic, attaccante serbo le cui lodi mi erano state intessute da un tedesco ubriaco.La scopertaFu così che una scelta che oggi definiremo hipster, ovvero seguire una squadra sfigata in torneo esotico, mi ha portato invece a credere che il calcio del nuovo millennio potesse avere la faccia aperta e simpatica di un trequartista di nome Diego (voglio dire: il nome ispirava massima fiducia).In quella Bundesliga Diego segnò 13 gol e fornì 14 assist, la miglior rappresentazione simbolica del tipo di giocatore che era. Per me Diego era una roba nuova: un centrocampista offensivo che aveva la capacità di saltare avversari con un uso controintuitivo degli appoggi, che poteva resistere ai contrasti con difensori enormi e trasformare l’azione da difensiva a offensiva come un lampo; capace di finalizzare l’azione grazie ad un tiro potente e preciso che gli permetteva di essere temibile anche da fermo, ma anche in grado di servire l’ultimo passaggio grazie ad una visione di gioco non comune. Ma non solo: Diego contrastava, recuperava palloni, era grazia e forza in un unico pacchetto bello solido. Un trequartista moderno che pescava pienamente da Kakà, che in quel momento era tra i migliori giocatori del mondo. Magari meno elegante del milanista, ma in qualche modo già proiettato nel futuro con quel baricentro basso che da lì a poco Messi avrebbe trasformato nel più grande talento individuale di tutti i tempi.Se avete più o meno la mia età, sapete come funzionava a quei tempi: quando vedevi un calciatore così elettrico, in una squadra relativamente poco blasonata, volevi metterci subito sopra un marchio, per paura che qualcuno potesse poi un giorno rivendicarlo al tuo posto, senza mettersi a fare troppe ricerche. Quello che per ignoranza non sapevo è che Diego però non era uno qualsiasi: era uno dei giocatori più chiacchierati della sua generazione, finito per qualche motivo nel nord della Germania. Con Robinho aveva rotto diversi record di precocità nel Santos, squadra che nel 2002 - neanche maggiorenni - avevano condotto ad un titolo che mancava da 34 anni e ad una finale di Libertadores poi persa. Per dire il Santos è stata anche la squadra di Pelè e Neymar, e io avevo scelto Diego.

Parte da così lontano la sua storia, prima di diventare la storia di come io ci rimasi fregato, che Diego fa in tempo a fallire una prima volta, al Porto. In una squadra che l’anno prima aveva miracolosamente vinto la Champions League, finendo poi per essere smembrata, l’avevano preso per sostituire Deco. Della sua esperienza in Portogallo rimane davvero poco, zero di quello che mi ha spinto a considerarlo una cosa meravigliosa. Diego gioca, ma non lascia il segno, non trova mai il feeling, né con l’allenatore, né con i tifosi. Se il campionato portoghese viene considerato un buon cuscinetto per i giovani brasiliani, Diego a soli 19 anni non può sostituire Deco. I due, pur condividendo nazione di nascita e ruolo, sono giocatori completamente diversi, che necessitano di due idee di calcio completamente diverse. Diego in più ha un carattere particolare, ha bisogno di sentire la fiducia intorno a lui per rendere al meglio, fiducia che trova a Brema, con il Werder che lo paga solo 6 milioni di euro e lui che il primo anno vince il premio di miglior giocatore della Bundesliga e diventa l’idolo dei tifosi.Raccogliendo informazioni per ricostruire le origini della mia delusione mi sono accorto quanto il processo che mi ha portato ad innamorarmi di Diego fosse fasullo, una distorsione della realtà. Il Werder Brema innanzitutto non è una squadra di scappati di casa come ricordavo ma una presenza fissa in Champions League. Nell’edizione 2006/07 pareggia per 1 a 1 col Barcellona (grazie ad un gol all’ultimo minuto del subentrato Messi) e batte il Chelsea, finendo poi per arrivare in semifinale di Coppa Uefa. Eppure io mi ricordo di lui come un deus-ex-machina, che nobilitava la sua squadra grigia con prestazioni profetiche contro squadre dai nomi anni ‘80 come il Bochum, l’Arminia Bielefeld o l’Alemannia Aachen, a cui segna un incredibile gol da dietro centrocampo. Mi ricordo di lui per gli highlights delle partite tedesche che guardavo compulsivamente su Sky, per la facilità con cui saltava mediocri difensori in Bundesliga.

Nel campionato tedesco Diego è una macchina: in tre stagioni segna 13, 13 e 12 gol, tiene numeri simili con gli assist, dando in qualche modo l’idea di essere un trequartista programmatico, in cui al talento viene abbinata la matematica e nulla viene lasciato al caso. La terza stagione al Werder ne segna la consacrazione: se la squadra arranca in campionato e finisce decima, Diego brilla di luce propria. Ai gol in campionato aggiunge altre sette reti nelle competizioni europee che servono a trascinare i tedeschi in finale di Coppa Uefa. Come se già conoscesse il suo futuro segna al Milan e ben quattro volte all’Udinese, tra cui un gol bellissimo, a giro, alla Del Piero, un gol che sembra un messaggio personale per me.Noto meno i frequenti cartellini gialli, che gli impediranno anche di giocare la finale di Coppa Uefa del 2008, ne la tendenza a nascondersi quando le cose non vanno bene. Come sempre nelle storie d’amore appena iniziate, mi soffermavo sulle luci per ignorare le ombre, ma non ero l’unico. L’incontroArriva poi il momento in cui i flussi si incrociano, il giocatore per cui stravedo va a giocare per la squadra per cui faccio il tifo, che evidentemente vede in lui quello che ci vedo io. Diego e la Juventus si trovano, si sposano: una, nobile decaduta e decadente, l’altro, trequartista in rapida ascesa. Sembra l’incontro ideale: la serie A è terra di giocatori dal talento simile a quello di Diego, la Juventus è la squadra che quel talento l’ha sempre coltivato nel modo migliore. Anche le tempistiche sembrano perfette: i bianconeri vengono da un terzo ed un secondo posto, due ottimi piazzamenti per chi arriva dalla Serie B, ma non per una squadra abituata alla vittoria. Soprattutto erano risultati arrivati con una squadra in piena ricostruzione, senza grande talento se non nei giocatori rimasti dalla gestione precedente. Diego diventa il grande colpo intorno al quale ricostruire una narrazione vincente e convincente.

Le aspettative sono altissime: Vialli dice che «Diego è tra i tre calciatori under 25 più forti del Mondo, vale quanto Messi e Ronaldo. Gli anni in Germania l’hanno rafforzato e anche grazie a lui l’attacco della Juve si presenta al livello dei mi

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