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Foto di Miguel Rojo/Getty Images
Calcio Antonio Moschella 10 giugno 2016 6'

Diego Forlán non ha rimpianti

Abbiamo intervistato l’idolo della Nazionale uruguaiana.

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Leggendo il palmarés di Diego Forlán c’è il rischio di perdersi tra i premi, soprattutto individuali, accumulati dal recordman di presenze nella nazionale uruguayana. Su tutti spiccano due titoli di ‘Pichichi’, ossia di capocannoniere della Liga spagnola, ottenuti prima con il Villareal nel 2004-05 e con l’Atletico Madrid nel 2008-09. Riflettendoci bene si tratta di qualcosa di impensabile oggigiorno, dato che dal 2009-10 gli unici a contendersi questo trofeo sono stati Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, con la recentissima eccezione di Luis Suárez, connazionale di Forlán che lo ha superato anche come miglior goleador di sempre della Celeste.

 

A 37 anni appena compiuti colui che fu eletto, tra l’altro, miglior giocatore del mondiale 2010, gioca ancora a calcio, allenandosi con il Peñarol, la sua squadra del cuore con cui ha debuttato solo a fine della carriera, nonostante avesse fatto parte del settore giovanile. Si tratta, come lo definisce lui stesso, di qualcosa di “sorprendente ma stupendo, perché nel calcio tutto torna”.

 

La conversazione con un calciatore che ha girato il mondo sperimentando il calcio argentino, brasiliano, inglese, spagnolo, italiano e addirittura giapponese, avviene tramite una chiamata whatsapp stranamente molto nitida.

 

È il 20 maggio, giorno dopo il suo compleanno, e Forlán risponde tranquillamente dalla sua casa di Montevideo, dove vive con la moglie Paz e il suo primogenito Martín, nato qualche mese fa. E se Martín dovesse seguire la tradizione familiare (il nonno materno e il padre di Diego sono stati calciatori) darebbe continuità a un cognome importantissimo nel paese sudamericano.

 

Questa stagione la stai concludendo lottando per il titolo di campione uruguaiano. E non pensi affatto al ritiro…

Sono tranquillissimo, è un momento felice e rilassato. Mi prendo cura della mia famiglia e mi diverto tantissimo a giocare nel mio Peñarol. Esiste anche la concreta possibilità di vincere il trofeo e questo mi motiva ancora di più a fare bene, anche perché l’anno prossimo potrei difendere i miei colori nella Coppa Libertadores…

 

Cosa significa per te giocare nel Peñarol?

È la mia squadra da sempre. È vero che ho debuttato solo a 36 anni, ma per me la cosa più importante è quella di difendere finalmente questi colori e soprattutto di stare vicino alla mia famiglia, soprattutto a mio padre, che da sempre aspettava questo momento, in quanto tifosissimo del Peñarol e principale fonte di questa passione.

 

Come si è realizzato questo tuo ritorno in patria?

È stato spontaneo, direi quasi naturale. Dopo la fine della mia esperienza in Giappone (al Cerezo Osaka ndr) nell’estate 2015 mi contattò direttamente il presidente del club, con il quale ho un ottimo rapporto perché da sempre amico di mio padre. Ed eccomi qui.

 

A febbraio, contro il Defensor Sporting, hai anche realizzato la tua prima tripletta, poco dopo la nascita del tuo primo figlio. Un hattrick completo: un gol di sinistro, uno di destro e uno di testa!

È stato un momento stupendo, davvero, una cosa che non avrei mai pensato potesse accadere così tardi, una sensazione amplificata dalla nascita di mio figlio. È sempre bello segnare, ma con la maglia del Peñarol è tutta un’altra emozione, sia per il sentimento che io provo per il club sia per i tifosi che qui in Sudamerica sono più passionali che in ogni altra parte del mondo.

 

In Europa le tifoserie sono meno calorose?

Non sempre. Per esempio quella dell’Atletico Madrid fa eccezione! Al Calderón sembra di essere in uno stadio sudamericano.

 

Come si sente il detentore del record di presenze con la Nazionale uruguaiana a tifare per i suoi connazionali da casa, lontano dal campo?

La legge della vita è inflessibile e vale per tutti. Ma tiferò la Celeste con tutto il mio cuore anche da lontano.

 

Per la prima volta si sovrapporranno Coppa America ed Europeo. Troppo calcio?

Non c’è dubbio che si tratta di una concentrazione di partite importanti una dietro l’altra, ma la gente vuole vedere sempre più calcio, sopratutto se di gran livello. Sarà un giugno molto speciale.

 

Hai un favorito per questa edizione della Coppa America?

Le squadre da battere sono l’Argentina e il Brasile, e direi che quest’anno anche gli Stati Uniti possono dire la loro, anche perché sono padroni di casa.

 

Il caso dell’Uruguay è impressionante: un paese con una popolazione di soli 3 milioni, praticamente l’area metropolitana di Milano o Napoli, che vanta quindici Coppe America e due Mondiali.

La proporzione che citi è impressionante. Non saprei neanche spiegarti il perché ma in Uruguay esiste una passione enorme per il calcio. In ogni angolo ci sono potreros (campi sterrati) e i bambini sviluppano un senso del gioco fin da subito.

 

D’altronde diceva Eduardo Galeano che ogni bambino uruguaiano quando nasce dice “Gol!”

Eheh, esatto. Da noi il calcio è vita, è qualcosa di tradizionale così come lo è il mate o l’asado, anche se io tra i due preferisco sempre l’asado (ride). Qui il calcio è ancora patrimonio della gente.

 

Hai giocato in vari campionati, ognuno diverso da loro. Cosa credi di aver imparato?

Ho realizzato un apprendimento completo, graduale, anche nelle esperienze negative o meno fortunate, come ad esempio quella dell’Inter. Ogni momento nella vita di un calciatore è importante e formativo, qualsiasi cosa succeda.

 

Non è strano che i tuoi gol più belli li hai segnato di sinistro?

È vero, sembra una coincidenza ma non lo è. Ho lavorato molto durante la mia formazione da calciatore, anche se sicuramente una componente di bravura innata esiste. La coordinazione invece è qualcosa che si ottiene esercitandosi, sotto questo punto di vista nessuno nasce imparato.

 

Il tuo gol più bello?

Uff, difficile sceglierne uno, davvero. Sicuramente quello con l’Atletico Madrid contro il Barça (nel marzo 2009 ndr) è uno di quelli, insieme anche a quello della semifinale mondiale contro l’Olanda. In effetti, entrambi li ho segnati col sinistro.

 

Sei stato l’ultimo capocannoniere della Liga prima del duopolio Messi-Ronaldo interrotto quest’anno da Suárez. Però tu non giocavi nel Barcellona o nel Real Madrid…

È vero, e sono stato capocannoniere competendo con gente come Eto’o, lo stesso Messi o anche Raúl e Henry. La concorrenza è sempre stata spietata in Spagna e ciò mi rende orgoglioso per quanto ottenuto.

 

Sei contento che a rompere questa lotta  a due sia stato un altro uruguaiano?

Ovviamente! Luis è un grandissimo e ha meritato di vincere questo titolo. Se doveva farlo qualcuno, chi meglio di lui!

 

È Suarez il miglior centravanti del momento?

Sicuramente è tra i migliori, ma non me la sento di dire che è il migliore in senso assoluto. Hai visto cosa ha combinato Higuain quest’anno in Serie A? Credo che questi due siano sullo stesso livello, e non bisogna dimenticarsi di Lewandowski.

 

I 36 gol di Higuain in Italia valgono quanto i 40 gol di Suarez in Spagna?

Non è solamente una questione di gol, si tratta di due centravanti di altissimo livello che hanno avuto la loro migliore stagione di sempre dal punto di vista realizzativo, ma non spiccano solamente per i loro centri. Detto questo, i 36 gol di Higuain sono qualcosa di impressionante, al di là del semplice record statistico.

 

Tu in Italia hai avuto non poche difficoltà.

Per quanto mi riguarda ho avuto problemi soprattutto a livello fisico, con una serie di infortuni che non mi hanno permesso di ambientarmi bene. In generale in Italia si segna di meno, ma alla fine il calcio resta lo stesso sport in qualsiasi angolo del mondo e i gol sono sempre gol e Higuain ha dimostrato che anche lì è possibile arrivare ad alte cifre.

 

Con chi ti sei trovato meglio come compagno d’attacco?

Anche qui è difficile scegliere. Ti posso citare Van Nistelrooy e Solskjaer al Manchester United, Agüero all’Atletico Madrid, José Mari al Villareal, Suarez in nazionale e per ultimo Zalayeta qui al Peñarol.

 

Quale è il più grande rimpianto della tua carriera?

Non ne ho, anche perché il calcio mi ha dato tantissimo. È stato un privilegio essere pagato per giocare a calcio, arrivare così in alto e ricevere tanti riconoscimenti, quindi non posso lamentarmi.

 

Tuttavia quella semifinale contro l’Olanda al mondiale 2010 fu leggermente alterata da alcune decisioni arbitrali discutibili. Credi che in quel caso l’Uruguay abbia pagato una sorta di karma per la rocambolesca qualificazioni ai quarti ai danni del Ghana?

Assolutamente no! Credo che nel calcio gli episodi sono fondamentali e spesso decidono l’andamento di alcune partite. Con il Ghana Suarez pagó uscendo dal campo e lasciandoci in dieci, ma poi alla fine abbiamo vinto. Esistono gli errori arbitrali così come esistono gli errori da parte dei calciatori. È una legge di vita calcistica da sempre.

 

Hai segnato tanti gol importanti, eppure in molti, tra cui anche Alex Ferguson, si ricordano di quel tuo erroraccio in un’amichevole contro la Juve quando vestivi la maglia del Manchester United.

(Ride) Guarda, sto ridendo ancora adesso per quel gol sbagliato incredibilmente, davvero qualcosa di inspiegabile, anche perché in quell’occasione avevo giocato molto bene. Nessuno si ricorda però che nella partita dopo ne feci due al Barcellona. Vedi? Il calcio è così.

 

 

Tags : attaccantidiego forlaninterintervisteuruguay

Antonio Moschella, napoletano classe 1983. Globetrotter, con il cuore a Buenos Aires ma con la testa a Barcellona. La valigia sempre pronta e il taccuino pure.

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