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Il mistero dei piedi di Maradona
24 mar 2021
24 mar 2021
Tutti guardavano i piedi del Pibe de oro.
(articolo)
11 min
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Notizie dall’estremità del mio corpo: le unghie dei piedi sono guarite. Parlo soprattutto di quelle del secondo dito di entrambi i piedi che, essendo “greci”, sono più lunghe degli alluci. Alla lunga, giocando con scarpini sempre stretti, si erano annerite anche quelle degli alluci, ma non cadevano l’una dopo l’altra come tessere di un domino – come invece facevano quelle del secondo dito, ormai curve come gusci di lumaca. In ogni caso, adesso i miei piedi non mandano più messaggi di dolore mentre mi metto i calzini e a malapena mi ricordo di tagliarmi le unghie quando, dormendo, graffio la mia compagna muovendomi sotto le lenzuola.

Non gioco a calcio/calcetto/calciotto da più di quattro mesi, per via della pandemia, e ho di nuovo i piedi immacolati, o quanto meno passabili. Era già successo nell’aprile 2020, e mi ero illuso fossero guarite per sempre, ma dopo neanche un mese da quando era stato possibile tornare a giocare avevo di nuovo le unghie nere. Come tutte le estati, anche quella passata, quando indossavo i sandali mi vergognavo. Ma si trattava di una vergogna che fa parte di me da troppi anni ormai. Ci tengo, anzi, ad avere i piedi “rotti”.

Le unghie nere sono la fede che porto ai piedi, un simbolo dell’amore per il calcio giocato. Sono anche l’unico segno esteriore di una passione che mi ha consumato da quando a cinque anni ho costretto mia madre a iscrivermi a scuola calcio con un anno di anticipo sul consentito. Quasi rimpiango quelli che “si sono fatti il crociato”, che possono toccarsi le cicatrici verticali sul lato del ginocchio, sfiorarne il rilievo con la punta delle dita, guardarle allo specchio con nostalgia dopo essersi fatti la doccia nella comodità di una casa. Mi togli le unghie nere e della mia storia calcistica non resta niente. I piedi rotti sono la sola cosa che mi lega concretamente ai calciatori che ho ammirato, l’unica prova che abbiamo qualcosa in comune. Se non un talento, quanto meno un amore a cui sacrificarci.

Nasce da questo, credo, quella mia specie di feticismo per i piedi dei calciatori. Per le loro foto, per le loro storie. È lì che si materializza tutto ciò che altrimenti resterebbe intangibile, trascendente. Se non è possibile sapere dove abbia origine il talento, in quale tratto del codice genetico, in quale aneddoto traumatico e/o rivelatorio, almeno sappiamo dove finisce. Nei piedi. E più grande è il calciatore, più grande il mistero contenuto dai suoi piedi. Va da sé, che il mistero più grande di tutti lo contenevano quelli di Diego Armando Maradona.

Asif Kapadia, documentarista autore diDiego Maradona, ha raccontato sul Guardian l’emozione provata quando finalmente, non senza difficoltà, ha potuto incontrare il soggetto/oggetto della sua ricerca. Nella sua casa di Dubai, ai tempi in cui allenava l’Al-Wasl, Maradona stava guardando il Boca in TV, sul divano, in pantaloncini e piedi nudi. Forse sotto l’effetto delle medicine, «era già una persona molto diversa da quella su cui stavo girando il mio documentario», ricorda Kapadia. Eppure, seduto in terra vicino al microfono per non mettersi davanti al microfono, Kapadia non è riuscito a trattenersi dall’impulso di toccargli la caviglia sinistra. «È questa la caviglia che ha infortunato Goikoetxea?», gli ha chiesto. Infastidito, Maradona ha scansato la sua mano, facendo sbattere Kapadia sul microfono. «Provavo la strana sensazione di essere in presenza di qualcuno che dovevo per forza toccare». La scena di Kapadia ha qualcosa di biblico: seduto ai piedi di Maradona sembra il piccolo San Francesco dipinto ai piedi di Cristo sul crocefisso della chiesa Santa Chiara, ad Assisi.

Non era qualcuno, che Kapadia doveva toccare, piuttosto qualcosa. I suoi piedi. Ovviamente ci ho pensato quando, il giorno dei suoi funerali, degli impiegati delle pompe funebri si sono scattati delle foto vicini – in presenza – al suo cadavere: sono sicuro che se avessero potuto, se non avesse significato correre un rischio persino superiore a quello che già stavano correndo, gli avrebbero tolto le scarpe per inquadrargli i piedi. Qualunque fosse il mistero di Maradona, era ancora là, almeno per qualche ora, magari per giorni, finché il processo di deterioramento dei tessuti non fosse cominciato. Non sarebbe poi così strano se sul suo corpo avvenisse un qualche tipo di miracolo, tipo quello che conserva Santa Caterina più o meno intatta in una teca di vetro a Bologna. D’altra parte a Maradona è stata dedicata una chiesa – con tanto di Natale, Pasqua e comandamenti – e nel Bar Nilo di Napoli è conservata una reliquia: un suo capello, lasciato sul poggiatesta di un aereo e raccolto dal proprietario del bar.

Ma il mistero dei piedi di Maradona era forte già quando era in vita. Nel servizio Rai di Juventus-Napoli del marzo 1990 si vede Maradona camminare con la maglia che gli copre i pantaloncini, ha le cosce grasse, il colletto alzato, e si sente il suono dei suoi tacchetti rimbombare nel corridoio. I suoi piedi tozzi sembrano dei panini all’olio. Con la straordinarietà di quegli anni, l’inviato Giampiero Galeazzi arriva fino a dentro il campo, dove mentre le squadre vengono presentate al pubblico chiede all’attaccante della Juventus, Totò Schillaci: «Senti ho visto che hai guardato Maradona e gli hai guardato i piedi». «No gli ho guardato il numero delle scarpe, c’ha il piede piccolino». La voce fuori campo che confeziona il servizio commenta: «Tutti, anche l’arbitro Longhi a osservare i piedi di Maradona. Ma che ci avranno mai….».

Un talento come quello di Maradona genera domande senza risposte. Non basta quello che conosciamo, per spiegarlo. Ci vuole qualcosa in più. Adrián Michelena, su Enganche, ha ricostruito la leggenda dei piedi del D10S. A quanto pare il piccolo Diego è nato con un osso aggiuntivo su entrambi i colli dei suoi piedi: se ne accorse Sergio García, suo compagno in Nazionale Under-20, ai tempi del Mondiale giapponese (vinto) del 1979, che vedendo Maradona coi piedi fasciati e molto cotone gli chiese il perché: «Ho un piccolo problemino». Secondo García quell’osso rendeva più complicato colpire il pallone rispetto a un piede “normale”, un po’ come colpire la palla con il ginocchio invece che con la coscia. Lo storico preparatore atletico di Maradona, Fernando Signorini, ha confermato a Michelena che «il piede di Diego era un po’ più alto», anche se secondo lui non era né un vantaggio né uno svantaggio. «Diego non può essere spiegato. Perché vuoi spiegare tutto?».

Signorini ricorda anche che dopo la famosa entrata di Andoni Goikoetxea, nel 1983, la caviglia sinistra di Diego non era più la stessa. Anche se il medico che lo curò non gli fece tenere il gesso a lungo, la sua mobilità era ridotta, si fece curare da un medico americano ma il danno era irreparabile. Maradona non poteva più ruotare la caviglia quanto faceva prima, ha dovuto lavorare sull’«intera sequenza biomeccanica» e addirittura imparare da capo a calciare le punizioni, fermandosi dopo gli allenamenti e modificando il movimento del proprio piede. Se il corpo di Maradona ha assorbito i suoi eccessi, i piedi hanno portato i segni del suo martirio. Il gonfiore di Italia ‘90 è ormai celebre (al punto che esiste anche una falsa foto) e a quanto racconta il giornalista argentino Guillermo Blanco, al momento di toglierli, la testa di uno dei chiodi che aveva nella caviglia si ruppe.

Ancora oggi, quel chiodo dovrebbe essere nella caviglia di Maradona, sopravvissuto al suo talento e alla sua autodistruzione.

Il gonfiore della caviglia di Maradona a Italia ‘90 è ormai celebre, ma solo dopo la sua morte Lothar Matthäus ha raccontato al Süddeutsche Zeitung una storia relativa a quel Mondiale, che tira in ballo la fascinazione che i piedi del dieci argentino avevano anche su di lui, il dieci tedesco. Nel 1988, in occasione di un’amichevole tra Francia e Resto del Mondo giocata a Nancy in onore dell’addio di Platini, Maradona aveva dimenticato gli scarpini e Matthäus gli ha prestato un paio dei suoi. A fine partita ha notato che Maradona aveva cambiato l’allacciatura, saltando un buco su due in diagonale, e ha deciso di lasciarli così. Matthäus ha usato quello stesso paio di scarpe esclusivamente per le partite con la nazionale, né in campionato né tanto meno in allenamento, rovinandoli al punto che proprio durante la finale tra Germania e Argentina del Mondiale italiano gli si è staccata la suola. Con un paio di scarpini nuovi meno comodi, e forse anche per ragioni del tutto irrazionali, scaramantiche, metafisiche, Matthäus – che nel 1986 aveva perso un’altra finale contro l’Argentina di Maradona, dicendosi soddisfatto di arrivare secondo dietro a quella squadra – non se l’è sentita di tirare il rigore che ha deciso la partita, a cinque minuti dalla fine, lasciandolo a Brehme. Matthäus dice di conservare ancora quegli scarpini, ed è chiaro che gli assegna un potere speciale, che gli viene semplicemente dal fatto di essere stati indossati - una sola volta - dai piedi di Maradona.

Le foto che preferisco sono quelle in cui in cui Maradona, e i suoi piedi, sono giovani, e sani, e forti. Ogni volta che vedo una sua foto, il mio sguardo scivola immediatamente e automaticamente verso il basso. Il fotografo avrà inquadrato bene i suoi piedi? E non riesco a non chiedermi perché esistessero sue immagini tagliate all’altezza delle cosce, o del ginocchio: che senso aveva, come si poteva separare Maradona dai suoi piedi? Nel corso degli anni ho raccolto una piccola collezione digitale, e come tutti i collezionisti ho sviluppato delle preferenze irrazionali. Quella in cui scende dal letto fingendo di stiracchiarsi, coi piedi lunghi protesi in avanti e le dita corte leggermente arrossate. Quella in cui ha le cuffie sulle orecchie, i piedi stanno vicino a un giradischi e con la mano si tiene la caviglia sinistra: ha la faccia da bambino ma se gli guardi solo i piedi sembrano già quelli di un uomo. Quella famosissima in cui ha la maglia del Boca e in pantofole controlla un pallone giallo e blu. Quella con la figlia piccola che raccoglie un fiore, Maradona ha un paio di Puma da ginnastica grigie, slacciate e larghe per alleviare l’agonia, e i suoi piedi sembrano ridicolmente piccoli, quasi ne mancasse un pezzo.

Il fatto che i piedi di Maradona fossero piccolissimi e privi di grazia, che come il resto del suo corpo sembrassero volersi allargare, rompere gli argini e crescere del doppio o del triplo, non fa che aumentare il loro fascino. Da soli, simboleggiano il suo riscatto: sono piedi cresciuti nel fango, deformati dalle botte, dai tacchetti dei piedi avversari, ma che hanno resistito, non hanno perso la loro ispirazione. Ma è così per tutti i piedi dei calciatori. Persino oggi che la tecnologia degli scarpini si è evoluta, e sono coperti da squame sintetiche, da pelli metalliche o sgargianti, i piedi dei calciatori conservano il segreto dei loro sacrifici.

Le storie dei calciatori infortunati ai piedi, la caviglia di Batistuta che lo fa zoppicare a cinquant’anni, il tendine di Santi Cazorla mangiato da batteri che lo costringono a undici operazioni, sono strazianti per questo. Sono punizioni divine, contrappassi che sembrano avere un senso morale, una ragione personale – come il protagonista di Sound of Metal, batterista metal che perde l’udito da un giorno all’altro: è un attacco all’identità più intima di quegli uomini, non al cuore ma a quello che lo fa lo battere. Sono incidenti di percorso, cose che capitano, che costringono a una totale ricostruzione di sé stessi. Al tempo stesso ci dicono quello che già sappiamo: che tutti gli sport a livello agonistico, o anche solo praticati ossessivamente, sono insalubri, malsani, autodistruttivi.

Tutti gli sport deformano il corpo: i lottatori e i rugbisti hanno le orecchie a cavolfiore, i pugili il naso a zigzag e la gobba sulla schiena, l’arrampicata rende le mani dure come la pietra e le dita piatte come spatole, i piedi dei tennisti sono un unico enorme callo (per non parlare di Nadal che aveva un braccio più grande dell'altro da ragazzo e poi si è distrutto il ginocchio sinistro per il modo in cui giocava) e le bende sulle loro mani coprono piaghe da santi, il basket allunga i corpi verso l’alto come ombre al tramonto, il ciclismo brucia i corpi fino a renderli leggeri e spigolosi (in un articolo del 1949, pubblicato sulla Gazzetta delloSport, Gianni Brera descriveva il corpo di Fausto Coppi come fosse il telaio di una bicicletta: «Il torace, per una anomalia che è invece funzionale e a tutta prima non ti spieghi, via via che scende, ingrandisce, lo sterno pare carenato come negli uccelli»), i nuotatori sembrano degli alieni, con le spalle troppo larghe e la testa che per contrasto pare un’arancia posata su un tavolo.

Senza calcio, in questi mesi, una parte di me e di tutti quelli che non praticano sport a livello amatoriale o dilettantistico è stata messa in stand-by. Siamo stati costretti a re-inventare quella parte di noi che ci spingeva a metterci alla prova, in discussione, in difficoltà, seppur giocando, ogni settimana. Quella parte di noi che ci deformava i piedi io l’ho sostituita facendomi crescere i capelli come ai tempi del liceo: ho bisogno di qualcosa che mi ricordi chi sono stato, che mi aiuti a riconoscere me stesso. Ma non basta. Mi guardo i piedi, e non li riconosco. Certo ho quel dito – il secondo del piede destro – che ho rotto calciando una caviglia in area di rigore, ma visto di sfuggita non si vede neanche che è storto.

Quando vado in spiaggia con le unghie nere, o cadute, e un po’ mi vergogno, guardo i piedi degli altri padri in spiaggia: tutte persone rispettabili senza unghie nere, senza dita storte. So che un paio di piedi con le unghie curato è più gradevole di un paio di piedi con le unghie curve e gialle come quelle delle mummie, ma che darei per non arrivare a quest’estate ed essere anche io solo un altro quarantenne con le unghie dei piedi in ordine.

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