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Maradona, iconoclasta
30 nov 2020
30 nov 2020
Non possiamo separare l'uomo dal calciatore per rendere omaggio a Maradona.
(articolo)
8 min
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Alla storia resteranno le sue contraddizioni, unite e resistenti a ogni operazione chirurgica post-mortem. Quelli che nelle ore successive alla terribile notizia hanno condiviso sue foto gloriose e romantiche, e quelli che invece ci hanno tenuto a ricordare tutti i suoi errori e difetti, in fondo vorrebbero la stessa cosa. Non c’è grande differenza tra Pep Guardiola, uno dei più grandi allenatori di questi anni, apostolo della bellezza nel calcio, che lo omaggia citando uno striscione visto in Argentina: «Non importa cosa hai fatto nella tua vita, importa quello che hai fatto nelle nostre»; e Peter Shilton, portiere dell’Inghilterra durante il Mondiale ‘86, a cui ha segnato i suoi due gol più famosi – che incidentalmente sono anche due dei gol più famosi della storia del calcio – che sul Daily Mail si lamenta di non aver mai ricevuto le sue scuse per il primo, segnato come tutti sanno con la mano, e anzi ci tiene a ricordare che «sarà stato anche un grande, ma purtroppo non aveva sportività». Entrambi vorrebbero, i Guardiola e gli Shilton, separare l’uomo dalle sue gesta sportive. Far sparire l’essere vivente, terreno, in nome del suo talento divino, calato dall’alto; o viceversa: dimenticare quello che è stato “in campo” per via di quello che ha fatto “fuori”. Ma sarebbe come provare a staccare un’ombra dal corpo che la proietta passandogli un taglierino intorno alle scarpe.

Diego Armando Maradona ha avuto un arresto cardiaco pochi giorni dopo aver compiuto sessant’anni, al tempo stesso troppo giovane per morire e già sopravvissuto ad almeno un altro paio di morti. Una notizia scioccante e improvvisa che aspettavamo di ricevere da un momento all’altro da almeno vent’anni. Tempo fa Maradona ha detto a una tv argentina: «Ho 53 anni e vado per i 78, perché la mia vita non è stata normale». Come dobbiamo ricordarlo, chi dobbiamo ricordare? L’eterno bambino dai riccioli di cioccolata o il lupo cattivo che l’ha inghiottito, con in testa un mucchio di filo spinato e uno strato di grasso in costante espansione? Il calciatore più forte del mondo, quello che sembrava volare sull’ombra spettrale, ragnesca, dell’impianto sonoro dell’Azteca e passare attraverso i giocatori inglesi per segnare il secondo gol di quei leggendari quarti di finale; o l’uomo sciatto e truce che con un maglione dalla fantasia geometrica anni ‘80, la barba di tre giorni e un orecchino al lobo sinistro, viene infilato in una macchina della polizia argentina appena cinque anni dopo? Quello che idolatrava Che Guevara con un’intensità adolescenziale, fino a portarne la faccia tatuata sulla spalla, e che metteva la sua di faccia (molto più tatuata di quella del Che) in favore dei più poveri, per i maltrattati e i rivoluzionari; o quello che si faceva le foto con i camorristi (presenza comunque inevitabile, va detto), faceva affari con le multinazionali e gli sceicchi, maltrattava le donne e non riconosceva i figli? Quello ingenuo che si lamenta della corruzione e che dà dell’ipocrita a Papa Giovanni II, o quello paraculo che se non ci arriva con la testa ci mette la mano? Ha ragione chi, come Guardiola, tiene conto solo della felicità che Maradona ha portato nelle vite di milioni persone, tra cui quelle che nelle ore successive alla morte hanno preso d’assalto Casa Rosada, a Buenos Aires, dove era tenuto il suo feretro; oppure hanno ragione i tanti che considerano imperdonabili i peccati di Maradona?

Proprio poche settimane fa, in una delle sue ultimissime interviste – a France Football che lo premiava con un Pallone d’Oro “alla carriera”, come risarcimento per il fatto che fino al 1995 i calciatori non europei non potevano vincerlo, e lui chissà quanti ne avrebbe vinti – Maradona ha detto che il suo sogno sarebbe stato «segnare un altro gol all’Inghilterra, stavolta con la mano destra». Non aveva, lui, quel tono giustificatorio di chi oggi parlando del suo immenso talento calcistico ci tiene ad aggiungere che andava al di là, o che sia esistito nonostante, i suoi vizi e il suo carattere. Nell’estate del 1991, su Repubblica, Gianni Minà gli chiedeva: «Come spiegherai questa storia alle tue figlie?». E Maradona rispondeva: «Molto semplicemente. Dirò che papà non è perfetto, non è un santo, che ha sbagliato anche lui, che era il più bravo a giocare al pallone, ma che questo non lo ha salvato ad un certo momento dall’infelicità, dopo tanta allegria. Così ha cercato una stupida fuga dalla realtà». Maradona non si sarà mai scusato con Shilton ma in quella stessa intervista diceva: «Confesso la mia incapacità, la mia fragilità, anche se la mia presunzione, il mio orgoglio mi facevano apparire diverso».

E magari così è persino troppo semplice, ma se la canonizzazione e la condanna eterna sono due lati della stessa medaglia, Maradona va raccontato fuori dalla solita battaglia tra bene e male. Ricordarne solo una parte, anche se fosse quella migliore, significherebbe non rendere onore all’uomo nella sua complessità, farlo a pezzi per il comodo della nostra morale. L’ambivalenza di Maradona, d’altra parte, è sempre stata presente, i suoi demoni co-presenti al talento, al punto che tutti sapevano della sua dipendenza già prima che risultasse positivo al doping e venisse accusato di spaccio. Un paio d’anni prima che i problemi con la giustizia distruggessero Maradona in quanto sportivo, e qualche altro prima che quelli di salute iniziassero a trasformarlo irreparabilmente, Gianni Brera descriveva «la sua faccia grassa e triste con un immancabile principio di groppo in gola», e la sua espressione inconsolabile: «la piega amara della bocca testimonia l' angoscia di molte generazioni umiliate dagli uomini e mortificate dalla fame». Un anno fa, invece, Brian Phillips ha scritto che i due gol segnati all’Inghilterra nell’86 dovrebbero sembrarci in contrasto tra loro, «incompatibili, mentre sentiamo che vengano dallo stesso luogo profondo». Quel luogo profondo era Diego Armando Maradona.

Rory Smith, nel suo coccodrillo sul New York Times, ha scritto che è proprio il fatto che «quella bellezza sia emersa da un simile tumulto ha fatto sì che significasse qualcosa di più; gli ha dato una risonanza che si è spinta persino oltre le sue smisurate capacità». Maradona stesso non ha mai nascosto la sua ambivalenza – come avrebbe potuto? – misurandola semmai con il resto, e verrebbe da pensare che se molte persone lo ricordano così disponibile, così caritatevole, così umano, è perché Maradona stesso cercasse di riscattarsi preventivamente. Quando si lamenta del trattamento ricevuto dalle forze dell’ordine (l'appuntamento con giornali e tv al momento dell'arresto, le manette inutili) non lo fa dichiarandosi innocente, gridando al complotto, ma dicendo: «Meritavo un po’ di rispetto. Un rispetto piccolo così. Perché io avevo dato un pochettino di allegria alla gente». Il suo ex-compagno di squadra, oggi grande interprete della scrittura sportiva, Jorge Valdano, lo ha descritto alla perfezione: «La felicità che sentiva in campo diventava solidarietà, lo faceva essere coraggioso, talentuoso fino all’esibizionismo, competitivo come un uomo che stava morendo di fame». E aggiunge che «i suoi molti eccessi erano un attacco al suo calcio». Una cosa simile a quella scritta da Brera, in un articolo diverso da quello citato poco sopra: «Quelle ricorrenti evasioni erano accuse e insieme rimpianti». Sono le contraddizioni di Maradona ad aver attratto e ispirato i migliori scrittori della nostra epoca, oltre agli stadi gli andrebbero dedicate delle biblioteche. Martin Amis ha scritto di lui: «Si dice che dentro ogni uomo grasso si nasconda un uomo magro che cerca di uscire. Nel caso di Maradona viene da pensare che ci sia un uomo ancora più grasso che cerca di entrare».

Una volta ha sparato con un fucile ad aria compressa contro dei giornalisti impiccioni; per anni ha negato l’esistenza del proprio figlio perché frutto di una storia che considerava senza importanza; mentre era a Cuba a disintossicarsi ha avuto tre figli da due donne diverse, anche questi riconosciuti quasi vent’anni dopo; la sua ex-moglie lo ha accusato di violenza; un’altra ex lo ha filmato ubriaco mentre la schiaffeggia; una giornalista russa di essere stata molestata. Una volta, in vacanza in Croazia, ha insultato uno sconosciuto scambiandolo per il proprio genero. Si è ridotto a una caricatura di se stesso, se fosse stato un bambino avremmo chiesto di affidarlo a un’altra famiglia. Si è reso ridicolo più volte in diretta tv, ha fatto il gesto dell'ombrello al fisco italiano (che su di lui ha costruito un incubo kafkiano) e si è commosso cenando con Salt Bae, non si contano le sue dichiarazioni vaneggianti, ha fatto di tutto per mostrarsi non all’altezza di se stesso. È stato un lungo e straziante addio e adesso è impossibile ignorare la complessità che Maradona si porta dietro. È stato un uomo vitale, gioioso, toccato dalla grazia divina; è stato un uomo violento e autodistruttivo, un iconoclasta in lotta contro il culto della sua stessa immagine. Si cita spesso la sua frase: «Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci», ma Maradona dava l’impressione piuttosto che se fosse stato a un matrimonio con un abito bianco sarebbe andato a cercare una pozzanghera per rotolarcisi dentro e tornare in tempo per il brindisi.

Il suo talento, quello che è riuscito a farci, non sono una giustificazione sufficiente per gli errori e le ferite che può aver causato a chi gli stava vicino. Così come non lo sono la solidarietà, la disponibilità per la gente, o il fatto che la camorra fosse una presenza inevitabile in quegli anni. Ma chi ha amato Maradona lo ha fatto nelle contraddizioni, piuttosto che nonostante esse. E forse è dimostrato meglio di qualsiasi altra cosa dall’aneddoto squallido e macabro dei dipendenti dell’agenzia funebre che si fotografano con la sua salma: che importa che è morto, è Maradona! Chi vorrebbe inchiodare la sua memoria agli errori compiuti rifiuta la complessità che Maradona si è sempre portato dietro e che non ha impedito, a chi lo ha fatto, di amarlo. Al tempo stesso, però, chi vuole aggirare i suoi tormenti, ricordare solo il Maradona che gioca felice e saltare a piedi pari all’imbarazzo di quello che ingrassa fino quasi a liquefarsi, non rende onore al suo dolore, alla sofferenza che c’era dietro ogni momento felice che Maradona ha strappato alla vita. Diego Armando Maradona era uno solo, e irripetibile proprio per l’insieme di tutte queste cose.

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