L'Ultimo Uomo

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Calcio Alfredo Giacobbe 8 febbraio 2021 8'

Io sono scarso

Il rapporto con il calcio di una persona poco portata.

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1.

Avrò avuto sette o otto anni, ero in macchina sul sedile del passeggero con uno sconosciuto alla guida e non sapevo dove mi stava portando. Quando mi affidarono a lui, i miei genitori me lo presentarono come un amico di famiglia. Suonò strano, a casa nostra non l’avevo mai visto. Me lo sarei ricordato, aveva capelli biondi e crespi che occupavano tutto lo spazio nella sua metà dell’abitacolo. Qualche anno dopo avrei detto alla Carlos Valderrama, ma nel 1985 ancora non sapevo chi fosse “El Pibe” Valderrama. Non ricordo più il suo vero nome e, ogni volta che ripenso a quel giorno, per me ormai è soltanto Carlos. 

 

Carlos era un impiegato, come mio padre, ma nel tempo libero faceva l’allenatore di calcio. Con la sua auto arrivammo ai bordi di un immenso spiazzo di terra gialla, con le righe di gesso sghembe che disegnavano un campo da calcio. Nonostante non avessi mai giocato prima in vita mia, Carlos volle farmi un provino. O meglio, i miei avevano deciso che dovessi averne uno, sapevano quanto mi piaceva il calcio e quanta smania avessi di giocare.

 

Quel giorno non ci fu un vero e proprio allenamento, facemmo solo un riscaldamento blando con il mister che ci chiese di restituirgli il pallone di piatto dopo averci messo in fila indiana. La partita iniziò, i bambini presero a gridare e ad accalcarsi intorno al pallone, un groviglio di gambe, braccia e teste dalle bocche urlanti che si spostavano per il campo senza fermarsi mai. Dai loro piedi si alzava una polvere gialla che ti finiva negli occhi, sarà stato tufo o calcare, ma per quel che ne sapevo poteva essere anche zolfo.

 

All’improvviso la mischia dei bambini si aprì e uno dei giocatori rinviò calciando forte di punta. Il pallone mi colpì in pieno stomaco, fu quello il mio unico tocco sulla palla di tutta la partita, per il resto del tempo vagai per il campo senza sapere cosa fare. Non vedevo l’ora che finisse. Non sentivo la voce di Carlos venire da fuori, voce che credevo coperta dalle grida di chi era dentro, nel campo, con me. Lo cercai con lo sguardo. Mi fissava in silenzio dalla linea laterale, con le braccia conserte, attendeva risposte da me, non potevo pretenderne io da lui.

 

Al rientro in macchina ero furioso, ce l’avevo con il mister per non avermi aiutato, con i miei genitori che non mi avevano protetto. Ce l’avevo con me stesso perché avevo scoperto di non avere le risorse per sopravvivere in un contesto così ostile, e questa sensazione me la sono portata dietro per tutta la vita. Fu la mia prima e unica esperienza su un vero campo da calcio. 

 

Gli altri bambini avevano imparato a giocare in strada e ancora oggi c’è una certa narrazione per la quale la strada era la scuola calcio dei fenomeni. L’ultima generazione di calciatori cresciuta in questo modo sarebbe quella che ha vinto il Mondiale 2006: dei ventitré convocati da Marcello Lippi, otto erano miei coetanei. Contrariamente alla vulgata, molti bambini non avevano alcun posto dove giocare, proprio come me. Ho vissuto in un quartiere di edilizia popolare, una distesa di palazzi tutti uguali venuti su ai margini di un comprensorio industriale, alla periferia occidentale di Napoli. Le strade erano trafficate a ogni ora e non c’erano spazi verdi. Per di più, all’epoca, le periferie erano infestate dalla piaga dell’eroina e la percezione del pericolo dei nostri genitori era fuori scala, in quartieri come quello preferivano tenerci in casa. L’accesso al gioco del calcio non era uguale per tutti, giocare per alcuni era praticamente impossibile.

 

2.

Al liceo cominciai a giocare con continuità, bastavano i dieci, dodici ragazzi che c’erano nella mia classe per formare due squadre per il calcio a cinque. Il campo da calcetto era a pochi passi dalla scuola e da casa, era fatto di una terra nera che da bagnata puzzava di muffa. Che io ricordi in quegli anni abbiamo giocato soltanto lì. Il campo era al di sotto del livello stradale, chiuso dall’altro lato dagli spalti del carcere femminile. C’erano persone che cercavano di far avere a chi era nel carcere notizie della loro famiglia. Gridavano dalla strada sopra le nostre teste.

 

Giocavo a calcio come potevo. Avevo difficoltà nel controllare il pallone, quando me lo passavano o quando avanzavo, qualcuno finiva per portarmelo via in pochi istanti. Se vedevo uno spazio per far passare la palla tra due avversari, un secondo dopo aver calciato quello spazio non c’era più, e il pallone se lo prendevano gli altri. Non ho mai capito se fossi lento nel calciare, troppo leggibile nelle mie intenzioni, o se avevo problemi a valutare le distanze e l’ingombro dei corpi. 

 

Finii per starmene al largo sulla destra, cosicché quando attaccavamo avevo la linea laterale a limitarmi, e al massimo potevo restituire la palla a chi me l’aveva data; invece, quando difendevo, ero meno preoccupato se ero saltato, perché tra me e la porta c’era ancora un altro uomo. Mi arrabbiavo per le cose che non riuscivo a fare, e che non riuscivo a imparare neanche ora che ne avevo l’occasione. Ero stupido, cineticamente parlando, il mio corpo non aveva memoria, non imparava dagli sbagli.

 

Andare in campo però mi piaceva, era bello nonostante tutto. Le leggi della probabilità valevano anche per me e ogni tot di partite capitava di imbroccare una scelta giusta, un tiro indirizzato bene verso la porta o una rasoiata che dalla difesa moriva sulla corsa del nostro attaccante lanciato a rete. La fortuna capitava più spesso nei primi quindici minuti di gioco, cioè prima che perdessi completamente il senso della coordinazione del mio corpo.

 

Adoravo il cameratismo degli spogliatoi, al punto che ho più ricordi di quei momenti che di ciò che è accaduto in campo. Dopo le partite, con la guardia abbassata per la stanchezza che avevamo accumulato, parlavamo di tutto quello che non riuscivamo a dirci in altri momenti. Il liceo conteneva tutto il mondo, ogni discorso era autoriferito, ciò che ne restava fuori semplicemente non esisteva. Negli spogliatoi c’era sempre fumo, P. entrava a cambiarsi con la sigaretta accesa che gli penzolava da un lato della bocca e ne accendeva un’altra dopo la doccia, prima di asciugarsi. Una volta giocò i primi minuti del secondo tempo di una partita con la cicca accesa tra le dita. V. seduto su un panchetto si batteva il corpo nudo imitando il suono della sua batteria. G. ormai parlava a rutti. Anche Cobain aveva ruttato all’inizio di “Lounge Act”, perché non poteva farlo lui?

 

Fui sistematicamente escluso dai tornei ufficiali, quando si selezionavano i migliori cinque per ogni classe, e rimasi fuori in una delle nostre amichevoli per far spazio alla ragazza americana di uno dei miei compagni. Di americani ne abitavano tanti nella nostra zona, a Bagnoli c’era la più grande base NATO d’Italia. Se ne stavano per conto loro, i ragazzi in fissa con il football e i grandi con il golf. Non sapevo della passione delle ragazze per il soccer, pensai che l’esclusione fosse la più grande umiliazione della mia vita finché non vidi M. giocare. Saltava l’uomo indifferentemente a destra o a sinistra, aveva una coordinazione naturale che recuperava in un lampo dopo una spallata. Il pallone schioccava come dopo uno sparo quando M. lo calciava in porta. Dopo venti minuti da qualcuno in campo arrivò il segnale di resa: «Mischiamo le squadre». I miei compagni mi avevano salvato, quel giorno era molto peggio essere in campo che fuori. 

 

3.

Giocai ancora e spesso, negli anni universitari e anche dopo. Con i colleghi di studi mettevo le mani avanti: vengo solo per non lasciarvi in nove, ma non so giocare. Gli studenti di ingegneria erano un disastro: più impegno ci mettevano, peggio giocavano. Il calcio per me diventò tutta una farsa, presi a comportarmi da buffone, prendevo in giro me stesso e i miei compagni, provocavo gli avversari fino a spingerli all’errore. Ero insopportabile e non riuscivo a smettere. Svalutavo ogni singola cosa presente sul rettangolo verde, inconsciamente era il solo modo che avessi per riguadagnare io stesso un valore. Dovevo ridicolizzare il calcio e i suoi riti che non mi includevano, soltanto così potevo rimettermi in pari con gli altri.

 

Girai i campetti di tutta la provincia, avevo preso la patente, chiedevo l’auto in prestito ai miei. Ormai la terra aveva lasciato spazio all’erba sintetica quasi ovunque e spesso c’era anche del pubblico ad assistere alle partite, perché i circoli avevano inglobato altre attività e capitavano molte più persone. In quelle occasioni diventai ancora più istrionico. Dovevo fare di tutto per distogliere l’attenzione delle persone, non potevo permettermi che notassero quanto in realtà facessi schifo a giocare. Una volta sbucciai malamente un pallone, prese un effetto strano sull’erba e in porta ci entrò lo stesso. Corsi verso la linea laterale e all’indirizzo di nessuno urlai “Ti amo Irina”. Mentre tornavo al mio posto, tre bambini fuori dalla recinzione sputarono nella mia direzione. Mi voltai, avevano sguardi carichi di odio, stavo rovinando la sacralità del loro gioco. Avevano sì e no dieci anni, mentre io all’epoca dovevo averne ventuno. 

 

Credo di non aver mai giocato a calcio in nessun posto d’Italia fuori dalla provincia di Napoli. Ma la miglior partita della mia vita l’ho giocata all’estero. Ero a Austin, Texas, per una trasferta di lavoro e una domenica i miei colleghi organizzarono il più classico dei barbecue all’americana in uno dei parchi pubblici. Festeggiavano l’inizio dell’autunno, nel Texas meridionale d’estate la temperatura media sfiora i quaranta gradi, si sta chiusi in casa e non si vedono gli amici. Il mio gruppo di lavoro era eterogeneo, c’era gente da tutto il mondo e solo tre erano gli americani. Questi giocarono per un po’ a lanciarsi una palla ovale, mentre tutti gli altri li guardavano da lontano in un cerchio largo. La festa decollò veramente quando dal nulla spuntò un pallone da calcio. Un pallone vero, di cuoio duro, con i pentagoni neri. Mi accorsi che in quei mesi mi era mancato il calcio più del caffè. Giocai benissimo perché ero rilassato. Non me ne fregava niente di quelle persone, non le avrei più riviste per il resto della mia vita. Segnai due gol, in uno toccai la palla con il destro per saltare il portiere e la chiusi nella porta vuota di sinistro. Nessuno capì la mia linguaccia alla Del Piero dopo il primo gol; qualcuno sorrise alle mie braccia larghe, alla Drogba, dopo la seconda rete. La Premier League doveva avere tutt’altro appeal rispetto alla Serie A.

 

Il calcio restò così, disimpegnato e goliardico, finché è durato. Ho giocato la mia ultima partita di calcetto, rigorosamente di giovedì e tra colleghi, circa otto anni fa. Durante la partita caddi pesantemente sul polso destro dopo uno sgambetto. Due settimane dopo scoprii di essermelo rotto, e questo mi ha impedito da lì in avanti la pratica del tennis. Era l’unico sport, il tennis, per il quale sembravo vagamente tagliato, o meno impedito che in altri. È stata una scoperta tardiva, intorno ai trent’anni. Mi dicevano che avevo un tempo naturale sulla palla, nel tennis avevo il ritmo che non ho mai trovato su un campo da calcio. Mi feci male d’inverno, non avevo classifica FIT ma in primavera mi sarei iscritto al mio primo torneo. È stato l’ultimo sfregio del calcio giocato.

 

All’inizio declinavo gli inviti per via del dolore al polso, gli amici smisero di chiamarmi. Quando il polso guarì non avvertii nessuno. Giocare a calcio non mi manca, al più sento la mancanza di quello c’era intorno al gioco. Dell’arrivo al campo. Dell’indossare una maglia nuova e del paragonarci a giocatori che ovviamente non ci assomigliavano affatto, solo per ridere dei compagni. Del lasciar asciugare il sudore addosso d’estate prima della doccia. Del desiderare insieme, fuori dagli spogliatoi, che un’altra settimana passi in fretta.

 

 

Tags : calciodiario

Alfredo Giacobbe è nato a Napoli, dove vive e lavora. Ingegnere come Manuel Pellegrini, ha dipinto l’area tecnica attorno al suo divano.

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