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Diario dalla Guadalupa
12 mar 2016
12 mar 2016
Siamo stati alle Antille a guardare la Coppa di Francia.
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Point-à-Pitre

Il 14 Novembre, all’indomani degli attacchi terroristici di Parigi, il calcio francese si è paralizzato. Delle gare del settimo turno della Coppa di Francia in programma non se ne sono disputate che un paio: tra i francesi aleggiava molta paura, e poca voglia di uscire di casa, figuriamoci di andare allo stadio, di giocare.

Novembre è il mese tradizionalmente deputato all’ingresso, nel tabellone della Coppa di Francia, dei club dei DOM-TOM, i Territori e Domini d’Oltre Mare: squadre provenienti da Guadalupa, Martinica, Guyana, Réunion, sfidano avversari più o meno - spesso meno - blasonati della France Métropole, dell'Esagono insomma. Sono convinto che il livello di civiltà di un paese si veda (anche) da come struttura e organizza il proprio sistema calcistico. Mi sembra un ottimo meccanismo di compensazione non solo sportiva, ma anche, per così dire, di welfare dare l'opportunità a chi vive dall’altra parte dell’oceano di far visita ai parenti emigrati in Europa, così come a qualche impiegato delle poste della Loira di viversi una parentesi tropicale o equatoriale, poi in periodi perfetti, non troppo affollati, fuori stagione. Un’esperienza che potranno raccontare ai figli. Oppure, a seconda delle circostanze, che vivranno con angoscia e surreale distacco da qualcosa che ti sta succedendo nel cortile di casa, dall’altra parte del mondo.

Un certo tipo di trasferte.

Nelle Antille l’eco delle deflagrazioni è arrivato smorzato. Nel caldo umido di Morne-à-l’Eau, L’Étoile si è piegato di fronte all’UJA Maccabi di Parigi, un club dilettantistico multiculturale che a dispetto del nome non annovera tra le sue fila solo giocatori di religione ebraica, ma anche cattolici e musulmani.

Mi è sembrato significativo, perché in certe situazioni sovraccarichiamo semanticamente particolari altrimenti irrilevanti, e beffardo fino a risultare fuori luogo che l’ultimo tweet dell’account dell’Étoile fosse un RT dell’umorista antisionista Dieudonné.

Un’ora dopo il calcio d’inizio della partita il mio aereo è atterrato all’aeroporto di Le Raizet a Point-à-Pitre. Nel tragitto in auto per raggiungere Deshaies, Basse-Terre, a un certo punto credevo di aver rotto la cinghia di trasmissione: solo a motore spento ho capito che il cigolio dipendeva dal canto degli uccelli notturni, frammisto al gracidare di raganelle.

Non ricordo se per via dei rumori, del fuso o delle immagini del Bataclan sotto assedio ancora in mente, quella notte non ho chiuso occhio.

Il sole tramonta dietro una nube di cattivi pensieri.

Sainte-Rose

Il Grand Cul de Sac Marin è la riserva marina più grande della Guadalupa. Dall’imbarcadero di Sainte-Rose partono ogni giorno visite guidate, su barchette più o meno comode, che si incuneano nella foresta di mangrovie prima di lanciarsi in mare aperto, fendere acque cristalline con la velleità di attraccare a un atollo e farti vivere il Piccolo Miracolo Caraibico di spiagge bianchissime, palme in controluce, solitudine spensierata.

Luoghi in cui scattare il tipo di foto che poi metterai sullo sfondo del tuo desktop.

L’USR, i giallorossi di Sainte-Rose, erano in testa alla classifica della Division d’Honneur della Guadalupa quando l’ho visitata, e lo sono tutt’ora. Lo stadio si trova proprio dietro l’imbarcadero, in un quartiere formato da un dedalo di viuzze dall’aria turpe e pericolosa. Sui muri di recinzione la vivacità gioiosa dei graffiti sfuma nella minacciosità di riccioli di filo spinato.

Una costante in tutti i campi della Guadalupa.

È domenica, dobbiamo raggiungere il nostro atollo e quindi parcheggiamo a lato dello stadio proprio mentre l’USR sta per scendere in campo. I tifosi indossano maglie giallorosse, nessuna della squadra locale: ne riconosco una del Galatasaray, una del Malines degli anni ’80, una del Lens a scacchi. Resto un po’ deluso, neppure una della Roma. Sotto gli ombrelloni si vendono accras e zuppe di lambi in fricassea, si bevono ti punch, miscele di sciroppo di zucchero di canna, rum bianco e lime che sono di gran lunga la bevanda ufficiale dell’isola.

Non ci si può sbagliare.

C’è quel tipo di approccio che ti aspetti alle partite di paese, con le palme al posto dei campanili. È l’una e fa un caldo bestia. Provo a convincermi che si giochi a quest’ora per favorire trasmissioni televisive ultramarine. Lucien, più tardi, mi spiegherà che la scelta dell’orario in un certo modo lo decidono gli gnè-gnè, moscerini che calano con l’oscurità a renderti impossibile anche il semplice stare fermo per più di un minuto. «Se si giocasse di sera i tifosi dovrebbero strapparsi la pelle per il prurito», mi dice mentre galleggiamo sulla laguna delle mangrovie. Ridiamo, tra un morso e l’altro a un tronchetto di canna da zucchero.

Lucien ha tre figli: uno di questi, Loic, dice di somigliare a Pogba, e mi chieder<à di scattargli delle foto mentre gioca sulla spiaggia poco distante di La Perle. Prima e dopo di lui non avrei più visto nessuno giocare in spiaggia in Guadalupa.

Le foreste di mangrovia sono inquietanti per le storie nelle quali affondano le radici. Ai tempi della schiavitù ci si rifugiavano i marroni, i neri sfuggiti alla cattività degli zuccherifici. Non riuscivano a passarci più di una notte: i morsi degli insetti li costringevano a tornare mestamente alla loro quotidianità di taglia-e-raccogli, oppure li spingevano a suicidarsi dalla disperazione e dal fastidio. Oggi sono l’habitat perfetto per contrabbandieri di droga ed escursionisti attratti dall’esotismo. Ogni tanto spunta un Albero del Formaggio: secondo una leggenda locale dai suoi rami spiccano il volo i soukounian, uomini addentro alle pratiche ibride di magia nera e animismo africano che si trasformano in uccelli di fuoco e di notte vengono a succhiarti via l’anima. «Ma per tenerli lontani basta accendersi un sigaro», dice Lucien aspirando una vigorosa boccata da una foglia di tabacco arrotolata.

I concetti di vita e morte, in Guadalupa, si fondono in un sincretismo difficile da incasellare nelle categorie occidentali. I cimiteri marini, come questo di Saint François, sono sempre affollati di visitatori, agli angoli delle tombe si allestiscono barbecue, si celebra la gioiosità del trapasso, la continuità dell’esistenza. Il camposanto di Morne-à-l’Eau è uno dei luoghi più visitati dell’isola, ed è patrimonio mondiale dell’UNESCO.

Lucien vive a Morne-à-l’Eau: ogni finesettimana si imbarca sui gommoni in visita al Grand Cul-de-Sac portando con sé frutti tropicali e storielle tradizionali a uso e consumo di turisti francesi attempati. Quando gli racconto che scrivo di calcio sorride. Espira il fumo del sigaro. «Sai che conosco di persona Jocelyn Angloma?», mi dice. Poi mi segna un numero su un foglio nel quale teneva avvolti i suoi maracuja. «Chiamalo e digli che ti ho dato io il suo numero», mi dice.

Les Abymes

Jocelyn Angloma avevo già provato a contattarlo settimane, mesi prima di mettere piede in Guadalupa: credo di avergli scritto per la prima volta, ad un indirizzo che non so neppure se è davvero il suo, subito appena aver deciso che avremmo trascorso là due settimane di vacanza a Novembre. Avrei voluto incontrarlo, visitare il centro sportivo nel quale forma i ragazzi dell’isola, ma non mi ha mai risposto. Ed il numero che mi ha dato Lucien, ecco, quel numero era inesistente.

Anche se si chiama Ravenala Madagascariensis, tutti la conoscono come l’Albero del Viaggiatore. Le foglie incanalano verso il cuore della palma l'acqua piovana: basta scuoterla per avere di che dissetarsi. Una metafora perfetta di buona parte delle chiacchierate che mi sono fatto con le persone che ho incontrato in spiaggia, ai tavoli dei bar, nei patii in riva al mare. Bastava scuoterli un po'.

Angloma è il guadalupegno che ha mantenuto il rapporto più saldo con la sua terra d’origine. Oggi è nello staff tecnico della nazionale, o dovrei forse meglio dire selezione, dell’isola. La Guadalupa non è riconosciuta dalla FIFA: per questo non può partecipare né alle gare di qualificazione per i Mondiali, né alla Confederations Cup. Però, in quanto membro della CONCACAF, può prendere parte alla Caribbean Cup e alla (poco) più prestigiosa Gold Cup.

Nel 2007 Angloma ha guidato i suoi a un insperato terzo posto in Gold Cup. Ma non l’ha fatto dalla panchina, bensì dal campo. Ha potuto indossare la maglia della Guadalupa solo in virtù della stramba regola che obbliga i calciatori ad attendere cinque anni dall’ultima presenza con i Galletti. Nonostante avesse già 41 anni, con la fascia di capitano e un inedito ruolo da centrocampista centrale ha giocato ognuna delle partite disputate dai suoi fino alla semifinale in cui i Gwada Boys sono stati sconfitti di misura dal Messico.

Ovviamente la Guadalupa non è tecnicamente uno stato, perciò la bandiera deve giocoforza essere il tricolore francese. Non c'è nessuna sfumatura politica, nell'esistenza di una Selezione Gwada: la Guadalupa non è, né si sente, come la Catalogna.

Angloma, che ha a sua volta raccolto l’eredità di Marius Trésor, è stato un precursore della presenza antillana nei Bleus. Una dozzina di anni dopo il suo esordio (con la Francia ha giocato le qualificazioni a Euro ’92 ed Euro ’96), nella finale mondiale del 2006, ben cinque calciatori su undici avevano una qualche linea di ascendenza che affondava nel cuore dell’arcipelago: Gallas, Wiltord, Thuram, Henry e Abidal.

Un campo in riva alla spiaggia di Le Souffleur, dove sarebbero potuti crescere - se non si fossero trasferiti in Francia - Lacazette, Biabiany e Capoué.

È fin troppo evidente come lo sport, capintesta il calcio, rappresenti un mezzo di elevazione sociale per chi vive negli angoli più disagiati o reconditi del mondo. Per i giovani delle Antille, l’unica maniera di distinguersi sportivamente, e di conseguenza scalare livelli di gerarchia sociale, è quello di attraversare l’Oceano: nemo propheta in patria, soprattutto quando il concetto di Patria non è limpido e cristallino come le acque del Mar dei Caraibi.

In Guadalupa non ci sono strutture sportive adeguate per la crescita atletica, ma anche tecnica e tattica, dei calciatori, e l’interrogativo è lo stesso che sottende a ogni rapporto postcoloniale: Thuram, allevato calcisticamente in Guadalupa, sarebbe diventato quel Thuram?

Così come i calciatori di origine surinamese con passaporto olandese non possono vestire la maglia della selezione sudamericana, allo stesso modo la Guadalupa non può convocare professionisti che militano in Francia. Meglio: potrebbe, ma i club non permetterebbero mai - fin quando non saranno obbligati - ai propri tesserati di affrontare trasferte lunghissime per disputare match non ufficiali.

È una situazione che il comitato olimpico locale, del quale fa parte anche Ronald Zubar, un passato nell’OM e oggi ai New York Red Bulls, sta cercando di risolvere e regolamentare, mosso dall’ambizione di potersela giocare. Tahiti e Nuova Caledonia, a cavallo tra gli anni ’90 e i primi Zero, l’hanno già fatto, creando un precedente che la FFF non può ignorare.

Ad oggi, il risultato più eclatante della mancanza di una rappresentativa professionistica è il completo scollamento tra il ventre molle della popolazione e un calcio in qualche misura identitario: e non sembra far bene a nessuno. Per strada i ragazzini non indossano la maglia dei Gwada Boys, ma neppure della Francia o di club della Ligue1.

Barcellona, Argentina, Brasile: non ho visto altri colori, agitarsi tra i banchi di sargassi arenati in riva al mare.

Anse-Bertrande

Il versante nord di Grande-Terre è il più ventoso dell’isola: Pointe de la Grande Vigie non è lunare e decadentista come Pointe des Châteaux, ma sembra comunque più una scogliera bretone che un paesaggio caraibico. La spiaggia di La Chapelle è frequentata da surfisti che parlano in patois savoiardo, con i capelli scarmigliati e incrostati di sale. Subito dopo la spiaggia, e a metà strada da Anse-Bertrande, si trova lo Stade Lilian Thuram.

A quanti calciatori in attività è stato intitolato uno stadio?

Thuram è l’immagine più gloriosa dello sport guadalupense di tutti i tempi. In un’intervista si è paragonato a Port d’Enfer. Port d’Enfer è un fiordo, si lambisce percorrendo la provinciale che porta a Pointe de la Grande Vigie, uno degli scenari più surreali dell’isola: immaginate la spiaggia di Furore, nella costiera amalfitana, o un pezzo di Norvegia trasportati ai Caraibi. Un luogo maestoso, annichilente per spirito selvaggio.

«L'unica collera giusta è quella che crea bellezza», aggiunge Thuram. (Quella nella foto è Pointe des Châteaux, il giorno in cui l'ho visitata io Port d'Enfer era piena di sargassi spiaggiati e non bella come m'aspettavo).

Il supplemento del numero 22 de L’Équipe si intitola Ensemble: in copertina c’è una pagina bianca, dietro la quale si scorge il tricolore francese. È il numero uscito la settimana successiva agli attacchi terroristici, e l’illustrazione di copertina credo voglia significare che dietro la tabula rasa di valori può celarsi la rinascita della nazione, del senso d’appartenenza. Che bisogna voltar pagina.

All’interno c’è un’intervista a Thuram. Per alcuni aspetti molto dura. Dice «ognuno deve chiedersi se è ancora capace di dire amo il mio paese! È straordinario che in tutto il mondo, per mostrare la loro solidarietà con la Francia, la gente adesso canti la Marsigliese, colori di blu bianco e rosso le facciate dei monumenti… Troppi francesi non si riconoscono invece nell’inno nazionale e nella bandiera. Non è normale…». Poi racconta cosa gli capita di osservare quando è in giro per le scuole: «Domando chi si sente francese? Come regola generale nessuno alza la mano. Allora mi concentro su alcuni di loro, mi faccio dire da dove vengono: Marocco, Algeria, Mali, Cameroun… Il fulcro è costruire il sentimento che gli permetterà di sentirsi membri della comunità francese. […] Dico sempre ai ragazzi che sta a loro appropriarsi dell’inno nazionale, della bandiera, che appartiene anche a loro. C’è bisogno di ribadire questa fierezza per essere più forti».

Giorni di straniamento, quelli a Basse-Terre. Grande-Terre è diversa: ci sono negozi, ristoranti, hotel gestiti da francesi. Basse-Terre è foresta, il vulcano La Soufriè re, lontananza da tutto: qui il tropicalismo è davvero uno stile di vita, che ti distoglie e risucchia via da ogni pensiero. Connessioni internet instabili, nessun quotidiano. La preoccupazione maggiore: che le braci siano perfette per arrostire il pollo.

Il giorno in cui ero nei pressi di Anse-Bertrande a Wembley si giocava l’amichevole tra Inghilterra e Francia. Nessun televisore l’ha trasmessa. Dalle finestre socchiuse della case affacciate sul mare soltanto qualche ritmo di tamburo africano e molta musica calypso. Nessun risuonare di Marsigliese. Nessuna manifestazione d’appartenenza, ad esclusione di quattro bandierine appoggiate frettolosamente su un monumento ai caduti, nella piazza centrale di Saint-François, dove la sera c’è il mercatino per i turisti.

Lo Stade Lilian Thuram sembra abbandonato a se stesso. Se butti l’occhio oltre i buoi che pascolano paciosi puoi vedere i cancelli d’ingresso socchiusi: portano la ruggine di quei luoghi in cui nessuno entra da un sacco di tempo, neppure per vedere se casomai è arrivato il momento di potare un po’ l’erba del campo.

Allons enfants de la Patrie. Magari con più verve.

Basse-Terre

La Route de la Traversée taglia in due l’isola di Basse-Terre. Dev’essere per via del suo fascino - quaranta minuti di percorso in perenne penombra, di liane ai bordi dell’asfalto, di cascate maestose - che nessuno si spinge più a sud di Point-Noire. Port-Vieux, Capesterre-Belle-Eau e Basse-Terre non offrono spiagge migliori di quelle del nord dell’isola, solo bananeti a perdita d’occhio. A meno che non ci si voglia arrampicare per tre ore fino alle pendici del vulcano de La Soufrière.

Basse-Terre ha i saliscendi di San Francisco e i colori del quartiere de La Boca a Buenos Aires: in questa cittadina, la capitale della Guadalupa nonostante l’isolamento nel meridione più estremo, ha mosso i primi passi da calciatore semi-professionista Tino Costa, il centrocampista della Fiorentina.

Tra un bananeto e l'altro, vicino Goyave.

«Il dottor Rubén Muñoz, che conosceva la mia famiglia, faceva il medico in Guadalupa ed era presidente di una squadra. Io giocavo a Las Flores ma sognavo di sfondare nel calcio professionistico. Quando mi ha fatto la proposta di spostarmi in Guadalupa gli ho chiesto dove si trovasse, perché non ne avevo la benché minima idea». «Ricordo soprattutto i calci che mi davano. Avevo sedici anni: mi svegliavo alle cinque e mezza, facevo colazione, andavo a correre. Mi arrampicavo su una collina, poi riscendevo, tornavo indietro e mi facevo una doccia. Andavo a scuola, e la sera mi allenavo con la squadra». Oggi il Racing, la squadra di Tino, gioca in Seconda Divisione, ma tutti ricordano quel talento inedito e quasi arrogante a confronto con i ritmi compassati dell’isola.

C’è una stranissima piccola comunità argentina, a Basse-Terre: vicino al porto dal quale partono i traghetti per Les Saints, e dove attraccano le crociere caraibiche, un locale propone l’asado. Il proprietario è stupito del mio accento, parliamo di Tino e mi fa il nome di un certo Lucas Tarabini, uno che con il Bananier di Capesterre-Belle-Eau sembra abbia fatto sfaceli.

Quando torno in hotel cerco più informazioni. Trovo questo video, a quanto pare l’ha caricato Lucas in persona: c’è anche la sua mail privata. Sembra correre a una velocità triplicata rispetto a quella di compagni di squadra e avversari. Fossi stato un gadalupegno di Capesterre, senza internet e tutto immerso nella mia vita in ciabatte fatta di spiagge e pesca notturna, forse l’avrei trovato anch’io fenomenale.

Marie-Galante

Per arrivare a Marie-Galante ci vogliono tre quarti d’ora di traversata: il venerdì sui moli si accalcano persone che lavorano sull’Isola Grande e che tornano dalle loro famiglie sull’Isola Piccola. Li avremmo reincontrati tre giorni dopo, con le borse cariche di vassoi profumosi di colombo, la salsa al curry tipica della Guadalupa, come uno studente fuorisede qualsiasi dopo una visita ai suoi. Quando il vento si mette di bolina l’aliscafo si mette a rollare. Dalle facce nessuno sembra dare troppo peso a quello che a noi sembrano i prodromi di un naufragio imminente.

La spiaggia de La Feuillère è la più bella e ampia di Capesterre. C’è chi occupa un gazebo all’alba, scarica dalla macchina un residuo di bidone di lamiera, prepara la brace. Ai bordi, tra le palme, ci sono intere radure di mancinelle, i cui tronchi sono marcati di rosso: la loro corteccia è altamente velenosa, toccarla può essere addirittura letale. O almeno così dicono. Si può celare tanta pericolosità in qualcosa di così poeticamente bello? Un proverbio antillano dice: «Giudicare il manzaniglio dall’aspetto dei suoi frutti significa morire avvelenati».

Jeunesse Sportive Capesterrienne.

Là dove finiscono le mancinelle iniziano le mura del centro della JSC. Durante la settimana gli spogliatoi, le docce, le sale ricreazione sono a disposizione dell’Amical FC, la squadra locale, che si allena a Marie-Galante ma gioca le partite casalinghe a Les Abymes, sull’isola grande. Dalle stanze dell’albergo attiguo si riesce a vedere all’interno dello stadio. Chiedo al barista di prepararmi un planteur, rum e succo di guava. Ha lunghi dreadlock. Ci mette un tempo infinito. Quando me lo porta, l’allenamento è già terminato.

C’è un’immagine in Walks in Rome, una guida di Roma scritta da Augustus J.C. Hare sul finire del diciannovesimo secolo, che mi è rimasta impressa. C’è un gruppetto di turisti americani in visita alla Città Eterna: entrano galoppando all’interno del Colosseo, che marmisti e lavoratori della pietra stanno depredando. Gli americani si fermano, ne chiamano uno a loro, gli sussurrano «State facendo un ottimo lavoro: vedrete che quando sarà finito sarà stupendo».

Lo stadio di Marie-Galante è intitolato a José Bade: è così malmesso che non si capisce se sia in fase di abbandono, o di costruzione.

Amical FC, palme sferzate dal vento, il solito immancabile filo spinato.

La famiglia Bade è tipo la più potente di questa piccola isola, e ha una storia che somiglia a l’epopea dei Buendía di Cent'anni di solitudine. Ludovic Bade, il capostipite, è stato sindaco di Marie-Galante per trentasei anni a cavallo tra le due guerre: era figlio di lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero che rifornivano una delle cento rumerie dell’isola. Oggi ne rimangono soltanto due. La sua casa bianca, a due piani, proprio di fronte alla chiesa del paese, è ancora la più bella. Jose è uno dei figli di Ludovic. Laureato in farmacia, ha fondato negli anni ’70 il primo club ciclistico di Marie-Galante: il ciclismo è ancora oggi lo sport più praticato, in Guadalupa, dopo il calcio.

Uno dei fratelli di Jose si chiamava Jacques, ed è stato compagno di squadra di Johan Cruyff, anche se solo per un giorno.

Jacques si era trasferito abbastanza giovane da Marie-Galante a Tolosa per studiare medicina. Just Fontaine lo aveva notato e lo aveva ingaggiato per il PSG, facendolo esordire tra i professionisti nel 1973 che già aveva 28 anni. Era in campo il giorno in cui in un’amichevole giocata a Lisbona i parigini avevano avuto tra le loro fila, come ospite d’onore, il campione olandese.

La famiglia Bade è stata duramente colpita da una serie di lutti che hanno a che fare con la strada: sono morti in incidenti Joel, fratello di Jose e Jacques; la moglie di Jose; un figlio di Paul, un altro dei fratelli. L’ingresso dello Stade Jose Bade si trova in prossimità di una brutta curva a gomito: la sera, mentre leggo un libro di Chamoisneau lottando contro i morsi dei moscerini, sento moto e auto sfrecciare e frenare con gran stridore di gomme proprio all’altezza dei cancelli. Mi viene voglia di ordinare un rum vieux. Ovviamente, non arriverà mai.

Saint François.

Il direttore dell’hotel mi ha chiesto se poteva sedersi al mio tavolo, a colazione. Poi ha guardato per un attimo la cameriera creola sparire dietro il bancone del bar. Il tono si è fatto più confidenziale. «È impossibile lavorare con questi qua: che danni fa il Tropico! Sono pigri, lenti, svogliati: e se li riprendi subito che ti attaccano, misiè, è finita l'era dei beké, ti dicono». I beké erano i capetti delle piantagioni di canne da zucchero. Misié è la maniera di rivolgersi ai bianchi, una storpiatura creola di monsieur.

Questa era la mia amaca preferita, all'interno del resort. Sdraiato su quest'amaca ho visto la Roma affondare in casa contro l'Atalanta, senza per questo rovinarmi il pomeriggio.

Il sito ufficiale della Division d’Honneur viene aggiornato poco e male. Lo consulto per capire se c’è qualche partita in calendario che posso andare a vedere prima di tornare in Europa: ci sarebbe Juventus St. Anne-Le Gauloise, ma è in calendario per le 13.00 a Sainte Anne, e anche se da Saint François sono solo 15 chilometri la provinciale è sempre congestionata, possono volerci anche un’ora, un’ora e mezza. Decidiamo di concederci uno degli ultimi bagni a Raisins Clairs.

Lo stadio di Saint François è poco distante: dalla spiaggia si può vedere la tribuna centrale, ed è gremita. Incuriosito mi avvicino, e l’addetto della sicurezza mi dice che «Sì, misié, stanno giocando la Juventus e Le Gauloise». Sono le tre. «Ma su internet avevo letto che…». Fa una smorfia come a volermi far capire che sa, misié, cosa vuole che ne sappia internet. Non ho il biglietto ma ho una macchina fotografica e una buona storia da vendermi: «Sono uno scrittore italiano, sto preparando un reportage sul calcio in Guadalupa». Due minuti dopo sono dentro, in quella che a giudicare dalla telecamera montata sul cavalletto e un ragazzo che sibila qualcosa dentro a un microfono ogni dieci minuti potrebbe essere la tribuna stampa.

Un'istantanea da Juventus St. Anne-Le Gauloise, 0-0.

I giocatori che militano nella Division d’Honneur sono, se paragonassimo il calcio al processo di produzione del rum, le melasse delle canne da zucchero: i rifiuti del processo di trinciatura, le parti meno nobili. Dal succo di melassa si ottiene un rum di qualità inferiore: quello agricolo, invece, il più rinomato, quello dalla minor resa, proviene dalla distillazione del succo di canna in purezza. Il succo in purezza, seguendo la linea metaforica, sarebbero i giovani di 13 o 14 anni arruolati nel C.R.E.P.S., il Centro Regionale d’Educazione Fisica e Sportiva. Sono la crème della scena calcistica locale: i più promettenti, quelli con più margine di carriera. Dal C.R.E.P.S. escono, ogni anno, una decina di ragazzi che insieme ai loro corrispettivi martinicani viaggiano fino a Clairfontaine per giocare nella Coppa nazionale di categoria. È qui che osservatori, agenti e faccendieri vengono a cercare i prossimi campioni di domani.

Alcune società di Ligue1 si stanno organizzando per creare delle liaison dirette con il CREPS o direttamente con i settori giovanili di squadre locali; come ad esempio il Caen, che ha istituzionalizzato una collaborazione con il Red Star di Pointe-à-Pitre.

La partita in sé è noiosa: i momenti più eccitanti sono quelli in cui i due temporali che si intravvedono sopraggiungere dalla foto si riversano sul campo. I calciatori hanno un’età indefinita, nessuno sembra avere meno di venticinque anni. Sono pigri, lenti, svogliati come la cameriera delle colazioni. Mi soffermo per un lunghi istanti su una punta indolente della Juventus: ha lunghi dreadlock, come quelli del barista di Marie-Galante. Un giorno, mentre ero in piscina e indossavo un paio di pantaloncini della Roma, si è avvicinato e tutto raggiante mi ha detto, la familiarità racchiusa in due sillabe, «Totti!». Quei pantaloncini me li sono dimenticati là, a Marie-Galante: li usavo come pigiama. Mi sono immaginato il momento in cui la cameriera li ha trovati, e magari glieli ha portati, regalati. Chissà quanto sarà stato felice.

Dopo Marie-Galante siamo rimasti per un’altra settimana in Guadalupa. Ho scritto una mail all’hotel; non tanto perché sperassi me li spedissero, ma per capire se è là che devo immaginarmeli, beati loro.

Sono tornato da tre mesi. Nessuno mi ha ancora risposto. Ma immagino sia normale, coi tempi del Tropico.

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