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Fabio Severo
Diario dagli Australian Open: saluti e brindisi mancati
01 feb 2016
01 feb 2016
La tensione da partite truccate, malesseri sugli spalti, conferenze stampa filosofiche e un po' di tennis.
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Fabio Severo
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Soltanto arrivati alle semifinali questo Australian Open è riuscito finalmente a far parlare semplicemente di partite vinte o perse, aspettative e delusioni, tornando a sembrare un normale torneo di tennis. Per dieci giorni, dai primi minuti del primo lunedì, l'attenzione di tutti era indirizzata verso altro: il report nato dallo strano connubio tra BBC e Buzzfeed su una presunta rete di partite truccate a beneficio di clan di scommettitori e giocatori, uscito prima ancora che si giocasse il primo punto del torneo, ha costretto le alte sfere del tennis internazionale a presentarsi alla stampa, prima per relativizzare l'entità del presunto scoop e poi per annunciare una nuova indagine interna, per fare luce su eventuali irregolarità.

 

A prescindere dal fatto che nessuno è davvero riuscito a capire se l'articolo, che non ha voluto fare nessun nuovo nome, poggiasse su informazioni davvero compromettenti, il mondo del tennis sembra comunque aver perso un ulteriore velo d'innocenza, e volente o nolente ha instillato un dubbio difficile da estirpare negli occhi di chi guarda. Dopo aver letto tutte quelle interviste a carneadi più o meno squalificati (quei pochi, brutti e cattivi, che in passato sono stati già puniti) o anonimi che continuano a ripetere quanto sia facile per un professionista indirizzare un colpo qualche centimetro al di qua o al di là di una linea, a forza di sentire ripetere che per un qualsiasi spettatore è virtualmente impossibile capire se un tennista sbagli o meno di proposito, come continuare a guardare candidamente lo svolgersi di una partita? Cosa vorrà dire quel dritto sbagliato così grossolanamente? O quel doppio fallo commesso senza che il giocatore manifesti alcun dispiacere per l'errore?

 

Un senso di allarme strisciante ha accompagnato quasi tutto il torneo, come se le partite non potessero più tener lontano il mondo esterno, non potessero più ignorarlo. Almeno quattro incontri sono stati temporaneamente interrotti per incidenti occorsi a spettatori: una donna ha avuto un attacco epilettico, in un'altra partita una spettatrice è caduta lungo le gradinate della Rod Laver Arena, mentre stava giocando Ava Ivanovic. La stessa Ivanovic ha visto il suo incontro successivo interrotto per un altro malore nel pubblico, ma questa volta era il suo allenatore ad aver perso i sensi, Nigel Sears, che in più è il suocero di Andy Murray, che in quel momento stava giocando nello stadio accanto. Il padre di sua moglie insomma, rimasta a casa perché a due settimane dal parto del loro primo figlio; parto che è stata un'altra delle storie del torneo, perché Murray ha più volte detto che se fosse stato prematuro avrebbe abbandonato il torneo in qualsiasi momento, anche alla vigilia di una finale. Poi il giorno dopo il malore dell'allenatore/genero Sears, Sam Groth stava accompagnando in doppio Lleyton Hewitt negli ultimi game della sua carriera, quando anche il loro incontro viene sospeso per un problema negli spalti: un altro malore, un altro spettatore da soccorrere. Chi era questa volta, tra le centinaia, forse migliaia a seguire la partita? La madre di Sam Groth, che per fortuna ha lasciato lo stadio sulle sue gambe. Nelle stesse ore, un folle armato uccideva quattro persone in una scuola del Saskatchewan, in Canada. Accadeva proprio mentre Milos Raonic stava scendendo in campo per giocare il secondo turno, e il suo saluto a fine partita è diventato un messaggio per i suoi connazionali coinvolti nella tragedia.

 

Poi l'arrivo degli ultimi turni sembra mettere tutto a posto, si smette di parlare di cospirazioni, si smette di avere malori, non si hanno notizie di parti prematuri. Dopo un cortese quanto serrato mendicare con l'ufficio diritti TV arriva qualche biglietto anche per noi, spesso uno in due da dividere. Comincio con la prima semifinale tra Serena Williams e Agnieszka Radwanska: il tetto chiuso toglie un po' di eleganza all'occasione, sarà la fattura industriale, che ricorda un corrugato da capannone, o forse la semplice mancanza di cielo. Si sentono cantare degli uccelli, rimasti dentro lo stadio dopo la chiusura del tetto. L'incontro si apre con Radwanska già pronta a servire e Serena ancora seduta alle prese con bevande e accessori, una cosa che fa spesso. Poi però attacca su ogni risposta, a prevenire la trama di tocchi e angoli della piccola ma geniale avversaria. Ci sono ancora tantissimi posti vuoti, non capirò mai la pigrizia del pubblico tennistico che continua a entrare a partita iniziata, anche in una semifinale Slam. Purtroppo è 5-0 per Serena in 17 minuti, come se fossero giocatrici di categorie distantissime tra loro. Il 6-0 arriva in 21 minuti. Il secondo set dura qualche minuto e game in più, ma la superiorità di Serena è tale che Radwanska non ha rimpianti. «Non sono neanche arrabbiata, è lei che ha giocato troppo bene».

 

L'apertura del tetto a fine partita è stupenda, la lama di luce che si allarga lentamente sul campo. A seguire c'è Johanna Konta contro Angelique Kerber. Konta è una delle grandi sorprese del torneo, la prima britannica a arrivare a una semifinale Slam in più di trent'anni, e un altro esempio di maturazione tardiva, ormai fenomeno sempre più frequente: arrivata a 24 anni, all'improvviso ha cominciato a raggiungere risultati mai sfiorati prima. Un anno fa, qui, era uscita al primo turno delle qualificazioni, ora entrerà nelle prime trenta. Osservo la preparazione enfatica del suo servizio: piedi molto dietro alla linea di fondo, fa rimbalzare la palla con gesto teatrale, mentre l'altro braccio tiene la racchetta rivolta verso il basso, con il gomito molto sollevato. Sembra un soldatino in posa con spada e scudo. Nella farraginosità della sua battuta c'è tutta la disciplina ossessiva dell'esecuzione che occupa così tanto della vita dei tennisti. È affascinante essere testimoni di quel momento in cui i giocatori riescono a esprimersi pienamente, massimizzando le loro risorse. Da 0-3 contro Kerber, che è alla sua terza semifinale Slam Konta va 4-3. Perderà 7-5 il primo e 6-2 il secondo, ma dal modo in cui si applica per ogni colpo, come pensa il suo gioco e non perde mai di vista l'importanza della pulizia del gesto, non scomparirà di nuovo.

 

Kerber, la vincitrice di quella semifinale, arriverà poi a vincere il torneo, battendo Serena Williams in tre set nella finale, che di gran lunga è stata la più bella partita di tutto il torneo, maschile e femminile. È vero che Serena non è stata dominante al servizio come di consueto. È anche vero che a rete in più di un'occasione è stata carente, ma quello che conta è ciò che le due sono riuscite a creare insieme, quel livello di agonismo e di qualità dei colpi che fa perdere la percezione di chi sia vincitore e chi sconfitto, che diventano due parti altrettanto necessarie della bellezza dell'evento che hanno prodotto. La conferenza stampa dopo aver perso la finale è il primo momento in cui Serena non è ostile con la stampa, la scia di quel sorriso che subito dopo la sconfitta aveva già sul volto. La qualità del confronto a volte può essere tale da svuotare la mente dell'atleta da ogni residuo di sentire negativo, la pienezza dei gesti tale da impedire pensieri astratti, quale che sia il risultato. «In questa sala tutti si aspettano che io vinca ogni partita, ogni giorno della mia vita», è il suo commento alle varie richieste di analisi della sconfitta.

 

All'ingresso di Roger Federer e Novak Djokovic per la prima delle semifinali maschili lo speaker elenca tutti i 17 Slam di Federer uno a uno ("Australian Open 2004, 2006, 2007, 2010, Roland Garros 2009, Wimbledon 2003", etc), mentre invece quando passa a Djokovic, che pure è il numero 1 del mondo e ne ha anche di meno da dover menzionare, fa soltanto il riassunto ("cinque Australian Open tra il 2008 e il 2015", e così via). Dopo 54 minuti e 6-1, 6-2 a favore di Djokovic, di quell'incontro restano soltanto alcuni punti incredibili che Federer è stato costretto a giocare, oltre all'imbattibilità di Djokovic, che concede il terzo set ma controlla il quarto e va in finale. Dopo la partita il vincitore dirà di sé che sente di aver raggiunto «un altro livello».

 

L'invecchiamento delle vecchie glorie del tennis australiano, sempre presenti al torneo, è come potremmo immaginarci l'apparizione di un ricordo in carne e ossa. Invecchiano come nei film: sotto c'è sempre lo stesso volto, il corpo è magro come all'epoca dei loro trionfi, in più ci sono soltanto le rughe da nonno buono e i capelli bianchi. Come quando incrocio Tony Roche, che cammina placido tra i campi con l'asciugamano bianco attorno al collo. La sensazione si accentua ulteriormente alla presentazione della Laver Cup, un mini-torneo esibizione lanciato dal manager di Federer, Tony Godsick, e con la benedizione del suo protetto, ovviamente.

 

Circondato da burocrati e CEO, l'uomo a cui l'evento è intitolato, Rod Laver ovvero colui che ha vinto i quattro Slam ben due volte nella stessa stagione, è l'unico senza fogli davanti, l'unico che non parla nel giro di interventi di introduzione della conferenza stampa. Si parla di "montepremi importanti", i vari personaggi si alternano sulle varie domande premettendosi l'un l'altro "Se posso rispondere...". Il manager di Federer siede al tavolo dei conferenzieri con il suo volto appena rotondo, la pelle liscia e la calvizie incipiente curata da parrucchieri ben pagati. È un uomo senza età, che avrà la fortuna o la disgrazia di apparire uguale per tutto il quarto di secolo che andrà dai 40, che ha appena superato, fino ai 65 o giù di lì, prima che la vecchiaia vera e propria cambierà il linguaggio del suo corpo.

 

Vengono fatte domande a cui ancora nessuno sa bene come rispondere, si ascoltano diversi "È quello che speriamo", viene fatta l'obbligatoria promessa che il torneo si terrà anche in Australia, anche se non sanno spiegare perché e come la stampa dovrebbe venire da tutto il mondo a coprire un evento che dura soltanto un weekend e non dà punti in classifica. Poi finalmente i giornalisti possono approfittare di Laver e farlo parlare dei tennisti di oggi, del torneo in corso. Federer vincerà un altro Slam? "It's a big stretch", dice Laver, che si può tranquillamente tradurre con "ce ne vuole".

 

Dopo aver perso in semifinale in cinque set contro Andy Murray, la voce di Milos Raonic in conferenza stampa è spezzata, le risposte brevissime, gli occhi bassi. Fa comunque autocritica per aver spaccato la racchetta al primo break subito nel quinto set. «Non è da me, ma a volte quello che provi è troppo per tenerlo dentro».

 

Raonic ha giocato un torneo esemplare, dando l'impressione per la prima volta di poter davvero essere tra i primi del mondo. Nella semifinale è stato tradito da un problema muscolare a una gamba, che non gli ha permesso di giocare al massimo il quarto e quinto set. Al di là dell'infortunio, osservandolo giocare, si percepiscono nettamente i confini ancora macchinosi tra i diversi colpi che sceglie di usare. Permane in lui una sorta di rigida settorialità tecnica, come se il suo gioco fosse frutto di un assemblaggio ancora approssimativo di vari elementi, un tennista composto da diversi pezzi tra i quali ancora si percepiscono delle ruvide giunture; Murray a confronto è un insieme di sedimenti indistinti, mineralizzati insieme da anni di gioco ad altissimo livello. Magari sembra che stia solo correndo alla disperata per recuperare una palla corta, ma in quel movimento in apparenza disordinato si nasconde un colpo vincente, dall'esecuzione perfetta. E lo stesso vale per le cose che dicono in conferenza stampa: Murray pronuncia ogni suo pensiero preceduto da un mugugno di fatica, come se tollerasse a malapena il dover parlare con la stampa. Ma misteriosamente riesce a comunicare, a ritagliare concetti con un'economia di parole che confina con l'autismo, mentre Raonic risponde a ogni domanda come se stesse facendo un esame all'università. Un giorno gli è stato anche chiesto cosa pensasse della mostra su Ai Weiwei e Andy Warhol che aveva appena visitato nel centro di Melbourne:

 

«Penso che a prescindere da qualsiasi iterazione su Warhol che possiamo conoscere o meno, la sua vita è stata comunque nel tempo definita a causa della sua tragica morte, mentre la storia di Weiwei si sta scrivendo adesso, e cambia di continuo». Mai un tennista nella storia aveva usato la parola "iterazione", prima di Milos.

 

Il prepartita della finale maschile consiste in giochi di luce e nell'esibizione di un gruppo di cantanti lirici. Il trofeo a lato del campo riposa su una colonnina di plexiglass, mentre scorrono video di Djokovic che enuncia massime su come scegliere di vivere la propria vita.

 

"And the players are on their way", viene poi annunciato.

 

Primo game: Djokovic tiene il servizio dopo 5 minuti e una palla break annullata. Subito tutti a chiedersi se non sia più il dominatore della semifinale contro Federer, ma dopo 30 minuti il punteggio è 6-1 per lui, con Murray che ha vinto il primo gioco che era già sotto 0-5. Quando si esce per fare una pausa e poi si aspetta di poter rientrare sulle scale che portano nello stadio, su una parete uno schermo manda la partita con un segnale video in ritardo di almeno cinque secondi su quello che sta accadendo a soli venti metri di distanza, e così si capisce l'esito dei punti dal suono della folla, prima di vedere la fine dello scambio sullo schermo. E forse è il modo più adeguato di leggere l'andamento di questa finale, visto il rapporto di forze insormontabile che sta guidando il risultato.

 

La partita, la finale, il torneo intero si chiudono con un tie break disastroso giocato da Murray nel terzo set: due doppi falli, un dritto a rete, poi un ace e una prima vincente di Djokovic portano sul 5-1, che con un dritto in corridoio di Murray diventa 6-1. Un ace di Murray per il 6-2, un dritto a uscire di Djokovic che finisce fuori per il 6-3, poi Novak serve un ace al centro per il 7-3 definitivo. Una ragazza prende al volo la maglietta sudata lanciata da Djokovic dopo la vittoria, si abbraccia con l'amica, poi la stringe al viso.

 

«Il futuro papà Andy Murray ne ha passate tante durante questo torneo», viene detto all'inizio della cerimonia di premiazione. Poi è il turno del manager della Kia, lo sponsor principale, che parla un inglese penoso.«Sono state due settimane difficili per me», dice Murray, prima che gli si rompa la voce ringraziando la moglie incinta a casa, prossima al parto. Djokovic poi alza finalmente la coppa, con l'assegno da più di tre milioni di dollari che spunta dal bordo del trofeo. «Vi auguro un parto felice e sano», dice rivolto a Murray, come se fosse un messaggio di auguri prestampato.

 

Murray arriva in conferenza stampa all'improvviso, deve correre via a prendere un aereo nemmeno dopo due ore. Gli tocca parlare avendo sullo sfondo della sala la tavolata di calici pronti per omaggiare il suo avversario. Djokovic nel frattempo si emoziona per la folla serbo-australiana radunata sotto di lui mentre fa le interviste con i network. «Certo non andiamo a cena insieme», dice di lui e di Murray, la solita frase che i top players usano per spiegare il loro rapporto, così lontani e così vicini nella vita quotidiana. E poi tutti i consueti concetti da enunciare obbligatoriamente , in ordine variabile: vincere questa finale per poter "fare la storia", aver avuto avversari "tra i migliori del mondo", la gratitudine per aver giocato di fronte alle "leggende di questo sport", non importa se stia parlando di giocatori che hanno smesso tre o trenta o cinquanta anni fa. Sono tutte leggende, così si è deciso di chiamarli.

 

In sala stampa ci servono i calici di champagne troppo presto, dobbiamo prendere appunti mentre Djokovic parla e allora li poggiamo a terra. Ne provano a dare uno anche a lui, ma Novak rifiuta mentre la ragazza col calice sta ancora scendendo le scale verso di lui. «No thanks, I'm fine». La faccenda dei calici all'addio di Lleyton Hewitt era stata orchestrata bene, anche con Kerber il giorno prima, ma con Djokovic non è cosa. Ci parla dell'impegno non soltanto verso una disciplina professionale, ma rivolto a coltivare un vero e proprio modo di esistere. «Se c'è qualcosa che non va sotto la superficie, poi quella cosa ti si ritorcerà contro», ci dice. Stiamo tutti lì con questo champagne che si sta svaporando e scaldando, non brinderemo mai. Lui intanto riflette sulla sua condizione di primo indiscusso, e sulla necessità di continuare a pretendere il massimo da sé. Ci regala una metafora: «Il lupo che risale la collina ha sempre più fame di quello che se ne sta sulla cima». Qualsiasi cosa voglia dire. Poi passa a parlare con la stampa serba, e finalmente me ne posso andare.

 
 

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