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Fabio Severo
Diario dagli Australian Open: prima settimana
19 gen 2016
19 gen 2016
Il clima australe, la malinconia di Rafa Nadal, la fatica di Francesca Schiavone, la pace di Lleyton Hewitt. Il racconto dei primissimi giorni dello slam più lontano da noi.
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Fabio Severo
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A ricordarci quanto l'Australia sia in realtà distante da noi sia nello spazio che nello spirito ci pensano le condizioni metereologiche, un'imprevedibile catena di eventi come in nessun altro dei templi del tennis mondiale. Soltanto qui si possono perdere 25 gradi di temperatura in una notte, con le qualificazioni dell'Australian Open che durante il primo giorno vengono sospese per il troppo caldo, arrivato a 44 gradi, e in quello successivo vanno a singhiozzo per la pioggia e con il termometro che non arriva ai 19, offrendo quindi già nelle prime 24 ore del primo Slam dell'anno quelle che probabilmente saranno la massima e la minima temperatura di tutta la stagione tennistica outdoor.

 

Nel primo passeggiare tra i campi secondari popolati da pochi spettatori osservo i tanti qualificandi che picchiano già dal palleggio di riscaldamento, molti forse nervosi per il dentro e fuori di una singola partita che deve dare senso al lungo viaggio compiuto fin qui. Si alternano tanti nomi pressoché sconosciuti a diversi più o meno noti: giocatori di alta fascia decaduti, celebrità del circuito minore, teenager sotto osservazione.

 

Incontro Radek Stepanek, classe 1978, dieci anni fa numero 8 del mondo, ora in lenta risalita nei primi cento. Gioca il primo turno di qualificazione all'imbrunire, all'età sua sarà contento. Pochi colpi e vedi la classe del gioco all'antica: volée a tre quarti di campo in controtempo, dritto privo di rotazione, molti rovesci tagliati sotto la palla.

 



L'aria è piena di mosche, che si avventano sui volti degli spettatori e anche dei giocatori.  Stridono a confronto con la pulizia e la cura degli impianti, dove si continua a perfezionare il praticamente già perfetto: anno dopo anno si cambiano i seggiolini, si riverniciano le ringhiere, si aggiungono file, si aggiungono coperture dal sole per gli spalti, si aggiungono tetti retrattili, si aggiungono anche divieti. Ad esempio teoricamente io non potrei fumare con l'accredito al collo, come ho effettivamente firmato su un foglio di accettazione.

 

Le mie credenziali ancora più che in passato promettono molte barriere. Faccio parte della sezione "Broadcast", in sostanza le televisioni, e chiaramente per loro significa che siamo dei mezzi giornalisti.

 

Tutti i problemi logistici che devono affrontare per gestire le orde di reporter affamati di live tennis si riflettono innanzitutto nella riduzione dell'accesso superfluo da riservare al settore televisivo. In fondo facciamo prodotti per telespettatori, e quindi possiamo anche vivere l'evento come se lo fossimo anche noi. Saremo praticamente confinati alla sala delle conferenze stampa. L'ultima volta che sono venuto qui, tre anni fa, c'erano posti per noi anche dentro ai tre

, i campi principali, ora mi dicono che quei posti li vendono, e per noi non è rimasto più nulla, salvo dare un'occhiata alla Hisense Arena, il secondo campo per capienza spettatori, da dietro i vetri di una cabina per le telecronache. Inoltre ai rappresentanti della stampa vera e propria danno un sacco nero pieno di regalini, dove c'è anche una bottiglia di Canadian Club Dry, un misto di whiskey e ginger ale, dal nome chiaramente fuori luogo.

 

Punto dall'invidia e dalle tribolazioni in cui periodicamente incappo per accedere a eventi di questo tipo, mi chiedo come fanno tutti questi cinquantenni ben vestiti venuti da tante parti del mondo, sempre con un placido sorriso sulle labbra e un orologio dall'aria costosa al polso, mi chiedo davvero come fanno a continuare a fare questo mestiere così impoverito, e ancora in questo modo così agiato. Come se i loro contratti, quelli sì degni di questo nome, fossero il dono ricevuto in una dimensione parallela, il cui varco si è chiuso immediatamente alle loro spalle. A me dall'organizzazione dicono che non posso avere alcun desk per lavorare (sbagliando, accecati dalla repulsione per la qualifica televisiva), a loro invece chiedono se preferiscono star seduti accanto a tizio o a caio.

 

Subito fuori dalla sala stampa guardo il ristorante dei giocatori attraverso una vetrata, dove resto impalato a ammirare gli atleti e la loro selva di morbide felpe azzurre o gialle con cappuccio, su cui svettano carnagioni dolcemente abbronzate, molti occhi chiari e capigliature vaporose fresche di shampoo e asciugatura.

 




Nella selva dei nomi oscuri dei tanti gregari in campo vado in cerca di atleti con qualche storia da raccontare. Scelgo allora la giapponese Mayo Hibi, 19 anni, la cui particolarità sta nel giocare il rovescio con una mano sola, ormai una stravaganza soprattutto nel tennis femminile. Per quanto bello a vedersi, il suo colpo mi sembra lento nella preparazione, al limite più adatto alla terra battuta, lo slice poco efficace, con traiettorie non abbastanza basse e tese. Si trova spesso costretta a giocare dei controbalzi con apertura contratta a causa del ritardo con cui prepara l'impatto con la pallina: giocato da lei il rovescio monomane appare come un anacronismo suicida, come parole che non trovano corrispondenza nella lingua parlata oggi.

 



Diverso è il discorso per Francesca Schiavone, che qui si trova a dover giocare le qualificazioni per la prima volta da Wimbledon 2000, essendo ormai scesa al numero 115. Il suo rovescio a una mano le ha dato un Roland Garros nel 2010, ma da tempo Francesca fatica a vincere partite, e l'anno scorso ha compiuto 35 anni. Entrare nel tabellone principale a Melbourne per lei significherebbe eguagliare il record femminile di 62 Slam consecutivi detenuto da Ai Sugiyama, altra giapponese che poco più di dieci anni fa è arrivata al numero otto del mondo in singolare e al numero uno in doppio. Sopra c'è soltanto il record dei 65 Slam di Roger Federer, contando l'Australian Open che si accinge a disputare.

 

In vantaggio 5-4 nel primo set contro An-Sophie Mestach, una ventunenne belga quaranta posizioni sotto di lei, Francesca manca tre set point e poi perde il servizio, e sono già passati ben 53 minuti di gioco. L'avversaria poi grazia Francesca perdendo il servizio da 40-0, intimorita da due o tre dei suoi rovesci perfetti, che la inducono a altrettanti errori, permettendo a Francesca di servire ancora per il set. Qui però manca un altro set point, e finisce per perdere di nuovo il servizio per una (facile) volée mandata a rete. Arrivate al tie break, i margini stretti del gioco decisivo nuociono più alla giovane avversaria che ai molti anni di esperienza di Francesca, che finalmente chiude al sesto set point, sotto le prime gocce dell'ennesima pioggerella di questa giornata autunnale in piena estate. «Andiamo!», urla Francesca dopo i 72 minuti di gioco necessari a vincere il primo dei sei set che le servono per accedere al tabellone principale. «Sì, cazzo, sì!», ribadisce un'amica dal suo angolo. Le gocce di pioggia aumentano, il giudice appollaiato scruta il cielo da sotto la sua tettoia. Piove troppo, bisogna fermarsi. Un po' di riposo per Francesca.

 



Cerco un bagno e vengo indirizzato nei sotterranei della Margaret Court Arena, dove incrocio Caroline Wozniacki che fa stretching in una specie di parcheggio, Carla Suárez Navarro che passeggia con il suo allenatore e in fondo a un lungo corridoio intravedo Rafael Nadal che si allena in campo, il rumore dei colpi lontani che mi arriva con un suono ovattato che ricorda il riverbero di una grotta. Una visione che è un'oasi di pace e concentrazione al riparo dai teloni ancora sparsi dappertutto, i campi secondari in balia degli spettatori che vanno e vengono, il viavai di carrelli carichi di pacchi e i chioschi ancora da allestire.

 

Io stesso non credevo di avere accesso a un luogo tanto speciale, dato il mio status così limitato, ma la guardia mi dice: «Hai il pass, puoi andare». Si vede che non conosce bene i colori degli accrediti. Più tardi in conferenza stampa Nadal appare malinconico, impercettibilmente passato a seconda linea tra i più forti dopo un 2015 deludente. Non gli chiedono cosa si aspetta dal torneo, fanno piuttosto domande su cosa farà a fine carriera, qualcuno gli chiede ricordi dei primi tempi da giocatore, di quando ha dovuto imparare l'inglese e se abbia faticato con l'idioma straniero. «Prima mi divertivo di più», risponde Nadal dolcemente. «Non mi importava di quello che dicevo, usavo le poche parole che avevo».

 

Alla ripresa dopo la pioggia Schiavone va subito 2-0, ma è un'illusione, l'avversaria recupera il break e la partita procede tirata. Molti scambi lunghi, molti errori, molti game ai vantaggi: a 1:50 minuti di gioco siamo solo 3-3 nel secondo set. Dopo 2:09 sono un set pari, con Mestach che vince il secondo 6-4. Quanta energia già spesa per Francesca. Ma il terzo a sorpresa va via veloce, la campionessa riceve in dono il rapido crollo dell'avversaria e va 5-0, che prontamente diventa un rotondo 6-0 sotto lo scroscio di una nuova pioggia sul servizio di Mestach, subito prima che la pioggia fermi il gioco su tutti gli altri campi. Ci sono volute 2 ore e 34 minuti solo per passare al turno successivo.

 



Vado a vedere Kimiko Date-Krumm, la quarantacinquenne ancora in carriera che è tappa obbligata di qualsiasi pellegrinaggio sentimentale attraverso il tennis minore. Dopo aver perso il primo set, vince il secondo al tie break, poi manca una palla per andare 5-3 nel terzo, perde infine 6-4 tra i "come on" dell'avversaria, la francese Amandine Hesse, imbufalita per aver corso il rischio di venire sconfitta da una giocatrice vent'anni e passa più vecchia di lei, insomma una che potrebbe essere sua madre. Una volta ho giocato contro un avversario 30 anni più vecchio di me e non ho visto palla, ed è una cosa che ti acceca. La partita si conclude su uno dei mirabili dritti ultrapiatti di Kimiko che sbatte contro il nastro e ricade indietro nella sua metà campo. Non poteva che finire così. La rivedrò mai più giocare?

 



All'entrata della Margaret Court Arena è in corso il sorteggio dei tabelloni del main draw. Una platea di giornalisti è ordinatamente seduta di fronte allo schermo dove vengono a disporsi gli accoppiamenti dei 64 incontri di primo turno per ciascuno dei tornei di singolare, femminile e maschile. Due voci eleganti commentano in diretta la distribuzione dei nomi come se si trattasse di un quadro geopolitico, analizzando gli addensamenti critici, i pericoli all'orizzonte per i diversi contendenti, le incognite e le mine vaganti. Al momento del sorteggio l'intero tabellone appare come una costellazione che esiste tutta insieme, e lì per lì non ci si rende conto di come quasi tutti quei nomi saranno presto di nuovo dimenticati, scomparsi in un attimo.

 

Ai piedi della scalinata sopra cui si svolge il sorteggio un nutrito gruppo di fan e fotografi avvolge educatamente Novak Djokovic, che con pazienza firma autografi e chiacchiera con i tifosi. Ride alle loro battute, chiede di dove sono, ringrazia. Da così vicino è quasi soltanto un ragazzo, al massimo un giovane uomo, e tralasciando i due figuri con auricolari pronti a scortarlo via, gli unici segni che rivelano il suo essere l'attuale padrone del tennis maschile sono la magrezza estremamente tesa e il velo di foschia e di stanchezza atavica che si intuisce dietro la gentilezza un po' robotica dei suoi occhi, appena asimmetrici. Poco dopo incrocio Benoit Paire, l'estroso francese che sale e scende a fisarmonica nella classifica. Indossa cappellino al rovescio, maglione rosso a trecce molto stretto e pantaloni grigio topo a sigaretta, e da come è vestito credo di capire perché il suo talento non si tradurrà mai in vittorie di un certo peso.

 



«Immobile, immobile!!», grida Francesca Schiavone mentre vede erodersi il prezioso vantaggio accumulato all'inizio del secondo set contro Virginie Razzano, nel secondo turno delle sue faticosissime qualificazioni. La francese ha vinto il primo 6-1, ma nel secondo Schiavone è stata a un punto dall'andare 4-0, poco dopo le è toccato salvare una palla break, con una bella volée di rovescio. Ma poi un'arcigna giudice di linea le chiama fallo di piede su una seconda di servizio ed è altra palla break per Razzano, che stavolta realizza.

 

Francesca va a sedersi al cambio campo con un sorriso amaro. «Che devo fare?», chiede al proprio angolo dopo che Razzano la aggancia sul 3-3 da 0-3, giocando sempre più profondo. Tanti asciugamani chiesti ai raccattapalle tra un punto e l'altro solo per riprendere fiato, ma alla fine riesce a vincere il secondo 6-4. «Dai!!», urla ancora. Si gioca da soltanto 1:19, c'è ancora fiato da poter usare.

 

Ma il terzo set precipita, dall'1-1 Schiavone perde 5 giochi di fila. Prima di rimanere immobile sull'ultimo dritto incrociato di Razzano, Francesca tira un rovescio a tutto braccio che resta dentro di nulla, l'immagine perfetta della continua alternanza di brillantezza e colpi faticati che è il suo gioco attuale. Niente record eguagliato, si ferma a 61. Chissà quanto continuerà ancora a giocare, quest'anno a giugno compirà 36 anni. Forse per questo le avrebbe fatto piacere sapere che Stepanek è invece riuscito a passare, diventando così il più anziano qualificato a uno Slam dal 1984.

 



Lascia invece di certo in questo torneo Lleyton Hewitt, l'ultimo numero uno australiano. Coetaneo di Federer a 34 anni, campione precocissimo: il più giovane numero uno di sempre, a soli vent'anni. Questo sarà il suo ventesimo Australian Open, Federer ne ha giocati solo 17, e senza mai saltarne uno. Durante l'ultima conferenza stampa prima del torneo appare come un uomo finalmente in pace, maturo e educatamente triste, con i suoi tre figli seduti di lato che lo guardano parlare ai giornalisti.

 

L'anzianità atletica l'ha reso amato da un pubblico che in gioventù ha mal tollerato il suo iper-agonismo sbruffone, e da qualche anno lui stesso in campo appariva più gentile, aiutato dal mantello di eroe ferito, dati i continui infortuni della fine della sua carriera. Ai giornalisti dice che una delle cose che gli mancherà di più sarà l'allenamento quotidiano, lo sforzo costante di alzarsi e andare a correre, andare in palestra, stare ore sul campo.

 

«The hard work that no one sees», lo chiama, «il duro lavoro che non vede nessuno».

 

 

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