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Dettare il ritmo
24 giu 2015
24 giu 2015
La preview di Cile-Uruguay, il primo quarto di finale di Copa América, che mette di fronte due squadre dalle filosofie calcistiche opposte.
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I padroni di casa contro gli storici guastafeste di qualsiasi padrone di casa della Copa América e non solo (vedi alla voce “Maracanazo”); gli onesti difensori di un’idea di calcio anni ’90 contro i portabandiera del calcio di un futuro non ancora definito. Non ci potrebbe essere contrasto più affascinante di quello offerto dal quarto di finale fra Cile e Uruguay.

Se dal punto di vista tecnico il Cile è superiore, il fatto che debba fare la partita può spostare il vantaggio sia emotivo (nessuno gioca con i nervi dell’avversario come l’Uruguay, e la pazienza non è esattamente una virtù del Cile) che tattico (questo Uruguay, con le sue idiosincrasie e una rosa limitata, può giocare un solo tipo di partita, ma la può giocare bene, ed è proprio quella che sembra offrirgli il Cile) dalla parte degli ospiti.

Squilibrio sperimentale

Sampaoli pare finalmente aver trovato il suo undici, un 4-3-3 che sembra adattarsi meglio di altri moduli alle caratteristiche dei suoi giocatori. La peculiarità del Cile è comunque quella di fare carta straccia di qualsiasi disegno di partenza: Sampaoli è di scuola bielsista, e osserva il gioco di posizione, ma la particolarità è che i giocatori cileni mandano a memoria le posizioni di 2 o addirittura 3 moduli contemporaneamente, da alternare a seconda dei momenti del gioco. Sampaoli ha un debole per le posizioni ibride, gli attaccanti che fanno sia le ali che le punte strette sui centrali, i doppi ruoli (difensori che scalano a centrocampo e viceversa a seconda dei momenti dell’azione) e una quasi totale assenza di punti di riferimento per le difese avversarie.

Questo sperimentalismo tattico così ardito, questa fluidità di movimenti, la filosofia spiccatamente offensiva e la ricerca di ritmi altissimi, contribuiscono a consolidare l’opinione che il Cile giochi bene, ma va detto che non è sempre così. Talvolta resta una squadra più interessante che completamente riuscita.

Ridurre a ritmo alto+organizzazione tattica il “giocare bene” è un fraintendimento tipico del calcio attuale. Si può giocare bene anche a ritmi più bassi, a patto che il ritmo sia tu a controllarlo, e sono solo le scelte compiute in possesso del pallone a dare un senso agli omini e alle freccette che ci divertiamo tanto a disegnare su una lavagna. Col pallone, il Cile è una squadra che a tratti, solo a tratti esalta, come nel secondo tempo con il Messico e nella partita contro la Bolivia; mentre in altri momenti risulta più che mediocre.

La Bolivia è però sembrato un avversario poco probante.

Ancora troppo spesso è una squadra che perde il controllo e gli equilibri, preda di un’ansia nel verticalizzare che allunga eccessivamente le distanze fra i reparti, espone al contropiede e brucia energie preziose.

Gli equilibri precari si manifestano anche nella difficoltà nel trovare il giusto mezzo fra i due estremi: il controllo e l’aggressività. Il Cile ha infatti cominciato contro l’Ecuador con una specie di 3-6-1 piuttosto folto a centrocampo: Isla a destra e Beausejour a sinistra a coprire tutta la fascia, Medel-Jara-Mena nel reparto arretrato, poi a centrocampo Marcelo Díaz regista davanti alla difesa, Aránguiz ad assisterlo ma con possibilità di scalare avanti, e infine Valdivia e Vidal a fluttuare sulla trequarti dietro l’unica punta Alexis Sánchez.

È sembrato nell’occasione un Cile snaturato, pochi rischi dietro ma anche poco mordente davanti, con una punta che svaria, nessuno a occupare l’area e troppi a centrocampo a rallentare i ritmi. Sampaoli nella ripresa rivolta la squadra, togliendo il laterale Beausejour per far entrare una punta, Vargas, affidando al tempo stesso un doppio ruolo a Marcelo Díaz: difensore centrale sinistro a inizio azione (per permettere a Mena sulla sinistra di slittare avanti e fare il terzino d’attacco) ma subito dopo centrocampista in più. Valdivia trequartista e Aránguiz con Vidal in mediana, ma con libertà di mangiarsi il campo fino all’area avversaria per lo juventino, senza gli spazi per sorprendere con gli inserimenti nel centrocampo un po’ ingolfato del primo tempo.

A quel punto è subentrata la follia, perché attaccavano quattro uomini costantemente oltre la linea della palla, uno fra Vidal e Aránguiz si inseriva e la ricerca della verticalizzazione immediata non dava tempo a Marcelo Díaz di scalare avanti e tappare il buco che si creava a centrocampo una volta persa palla. Voragini di cui una squadra un po’ migliore dell’Ecuador avrebbe certamente approfittato.

Le occasioni non sono mancate all’Ecuador.

Contro il Messico Sampaoli ci riprova con la difesa a 3, ma Vidal avanza a destra in attacco, mentre Vargas gioca in una strana posizione, metà tornante sinistro metà seconda punta (in questo caso il terzo difensore a sinistra, Albornoz al posto di Mena, passa a fare il terzino), a disegnare un modulo asimmetrico con Isla esterno puro a destra e, sul lato opposto, Valdivia un po’ mezzala un po’ trequartista. Altro cambio nella ripresa, Vargas stabilmente avanti e tre punte vere anche se senza posizioni fisse, con continui scambi di ruolo sulla trequarti, specialmente fra Valdivia e Vidal. Infine, il 4-3-3 con la Bolivia, che sembra il punto di approdo più logico, con Vidal nuovamente mezzala a tutti gli effetti (con Díaz inamovibile davanti alla difesa e Aránguiz mezzala sinistra), difesa a 4 Isla-Medel-Jara-Beausejour e attacco dal disegno variabile a seconda che gli esterni Vargas e Alexis stringano o Valdivia faccia un passo indietro.

Appoggio e profondità

In quest’altalena l’importante restano i principi di gioco. Il Cile basa il suo attacco su una serie di movimenti contrari volti a generare gli spazi per inserimenti a sorpresa: quindi l’attaccante che viene incontro e il centrocampista che attacca lo spazio, la punta che taglia verso l’esterno e l’esterno che incrocia centralmente, e così via. Fondamentale che i ritmi, nella trasmissione del pallone e nei movimenti, siano sempre molto alti.

Esistono una serie di giocatori chiave nello svolgere rispettivamente la funzione di appoggio e di sfogo in profondità che questo sistema richiede. Díaz a inizio azione, Valdivia sulla trequarti, ma più di tutti Alexis Sánchez, elemento determinante, nel bene e nel male.

Il giocatore dell’Arsenal rispecchia fedelmente pregi e difetti di questo Cile. La sua iperattività è insostituibile, e la capacità di appoggiare spalle alla porta, farsi metri su metri palla al piede oppure senza palla, dettando un movimento in profondità lunghissimo che porta via difensori è ciò su cui prevalentemente fa leva il Cile per creare spazi per gli inserimenti (molto più che sui movimenti continui ma piuttosto corti di Vargas), soprattutto con Alexis che prende palla largo a sinistra e detta l’inserimento a Vidal, Aránguiz e Valdivia.

Lo sfogo più pericoloso in profondità è, manco a dirlo, Vidal, ma ci ha messo un po’ a trovare la posizione giusta, nonostante i 3 gol che ne fanno il capocannoniere della Copa América finora. L’importante con lo juventino è lasciargli lo spazio da attaccare: nella prima partita con l’Ecuador, da trequartista troppo vicino all’attacco in un centrocampo molto folto, era sembrato avere pochi margini per esprimersi al meglio, ora gradualmente trova le misure. Più che la posizione in sé, un falso problema per un giocatore universale come lui, il punto è la relazione con i giocatori che nel Cile toccano più palla e guidano gli attacchi, cioè Alexis e Valdivia. Separare un po’ Vidal da questi, e fargli attaccare il lato opposto a quello in cui Alexis e Valdivia si scambiano palla attirando la difesa avversaria, può aumentare l’effetto-sorpresa dello juventino. Probabilmente era questo l’effetto cercato da Sampaoli contro il Messico, con Valdivia e Alexis sul lato sinistro e Vidal ala destra. Vidal deve essere il giocatore decisivo, ma non deve essere per forza al centro di ogni azione.

Lo spettacolare 3 a 3 contro il Messico.

Perché il gioco offensivo del Cile incida è importante che la difesa avversaria si senta minacciata alle spalle, e dubitando se accorciare in avanti o scappare dietro, lasci campo alle folate degli incursori cileni. Il Cile non si fa pregare a verticalizzare lungo alle spalle della difesa, e quindi se si va a pressare alto, bisogna essere sicuri di coprire su chi sta effettuando il lancio, cosa non riuscita all’Ecuador nei primi 20 minuti e invece messa bene in pratica dal Messico nel primo tempo.

Ma non è una strategia né consigliabile né praticabile per l’Uruguay, che si affida a difensori piuttosto bravi a muoversi nell’ultimo quarto di campo, non certo con la difesa molto alta.

La rigidità dell’Uruguay

Il sistema di Tabárez è anni Novanta perché piuttosto rigido, esattamente all’opposto di quello di Sampaoli: non ci sono falsi esterni, centravanti o doppi ruoli. I giocatori stanno esattamente dove li vedete nella grafica. A costo di perdere qualsiasi imprevedibilità nei movimenti offensivi, si mantiene inalterato il blocco.

Muslera in porta, linea a 4 difensiva con Maxi Pereira a destra (capitano e garanzia assoluta), i due centrali dell’Atlético Madrid Giménez e Godín (in grande spolvero), Alvaro Pereira a sinistra (squalificato però per questo quarto); davanti alla difesa insostituibile Arévalo Ríos, analfabeta del palleggio ma di grande carisma e solidità, poi accanto a lui Álvaro González; esterni Carlos Sánchez a destra e Diego Rolán a sinistra (prima alternativa il consumato “Cebolla” Rodríguez); e dalla trequarti in su assetto che può variare a seconda che si giochi con una o due punte, quindi o Abel Hernández accanto a Cavani oppure Lodeiro sulla trequarti.

Improbabile che l’Uruguay contro il Cile proponga due punte come con il Paraguay, perché la chiave di una partita in cui il pallone verrà ceduto volentieri all’avversario sarà spezzare il ritmo cileno. Per farlo occorrerà intasare la trequarti e non concedere la profondità. Quindi anzitutto linea di difesa molto bassa, per non lasciare la possibilità agli attaccanti cileni di dettare la verticalizzazione, distrarre attenzioni e creare spazio per gli inserimenti di Vidal & co. Poi se possibile tre giocatori in mezzo al campo.

Rallentare il ritmo

L’intenzione è rallentare il ritmo di gioco di Alexis Sánchez, giocatore con parecchi limiti nel controllo di palla ma, nel contesto del gioco cileno, capace di convertire questi errori di misura in paradossali vantaggi per i suoi compagni, se al controllo sbagliato e alle respinte dalla difesa avversaria (così messa sotto pressione dal continuo movimento di Alexis) si accompagnano gli attacchi frenetici dei compagni dalla seconda linea sulle seconde palle, in una dinamica di gioco anche confusa ma comunque fluida. Se invece la linea di difesa la tieni molto dietro, non abbocchi ai movimenti di Alexis, e presidi la trequarti con due-tre mediani che aspettano senza scoprire la seconda linea alle incursioni avversarie, Alexis è costretto a retrocedere e impegnarsi in fraseggi sottoritmo o in iniziative palla al piede laboriose, dove a prevalere sono i suoi limiti tecnici, come ai tempi del Barça.

Se crei un contesto sfavorevole ad Alexis, che è il giocatore a cui il Cile àncora la maggior parte delle iniziative offensive, dovresti limitare anche Vidal, che perde la rampa di lancio ideale per le sue incursioni. Se questa parte del piano funziona, una volta negata la profondità al Cile, rimane come unica opzione il cross dalle fasce, che è dove l’Uruguay gode di un vantaggio assoluto, per le qualità di Godín e Giménez e la bassa statura media dei cileni.

Anche contro il Paraguay la Celeste ha sfruttato la propria forza aerea.

Si parla a questo proposito di un possibile passaggio di Tabárez ai tre centrali (inserendo anche l’ottimo Coates, altro giocatore assai prestante), ma il contesto suggerirebbe di cercare l’uomo in più non in difesa ma piuttosto a centrocampo. Il Cile infatti gioca senza attaccanti fissi davanti, attacca solo gli spazi, tre difensori centrali non si sa chi marcherebbero e godrebbero di uno svantaggio di partenza contro qualsiasi giocatore cileno che si smarcasse a sorpresa dalla seconda linea. Meglio quindi negare al Cile gli spazi per questa sorpresa, meglio un centrocampista in più. Il problema è che la rosa dell’Uruguay offre poco, difficile trovare un terzo centrocampista plausibile: Lodeiro è un rifinitore che fa a pugni con l’idea di gioco di questa squadra, potrebbe rivelarsi più plausibile persino adattare in mediana un difensore.

Altro problema è che la controproposta offensiva è ai limiti dell’inesistente: assente Suárez, Cavani non deve più sacrificarsi ma può fare il leader offensivo, ruolo in cui sta deludendo. Zero gol e attorno a lui pochissima cosa: Rolán più partendo da sinistra che da destra ha una buona scioltezza palla al piede, ma vede pochissimo la porta. Anche con il Cile che inevitabilmente regalerà spazi per il contropiede, le armi per fare male sono pochissime (a meno che Tabárez non si giochi il giovane De Arrascaeta, di cui si dicono meraviglie). In caso di formazione con tre mediani, si potrebbe pensare a un attaccante adattato alla fascia (magari Abel Hernández) invece che un centrocampista puro come Carlos Sánchez a destra. Alla fine però l’unica strategia plausibile per l’Uruguay è far passare il tempo, far uscire di senno il Cile e sperare in un calcio piazzato favorevole (la sfida è sbilanciatissima anche nell’area del Cile, occhio). Sanno fare solo questo, ma lo fanno come nessun altro.

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