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Derrick Rose, umano dopotutto
01 ott 2024
La carriera di Rose come rivendicazione dell'umanità degli atleti.
(articolo)
11 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Press Wire
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Se devo essere onesto, la prima cosa che mi viene in mente pensando a Derrick Rose è una pubblicità. Strano come funziona la memoria, no? Una pubblicità dell’Adidas, per essere precisi. In una Chicago spettrale una voce lontana, la voce del commentatore Kevin Harlan, dice due frasi che tutti ricordano: «holding onto his knee, holding onto his knee and down». Scene dalla città paralizzata si alternano a immagini di Rose in palestra con la telecamera che indugia sul ginocchio, poi di nuovo i tifosi, che sembrano come risvegliarsi da un lungo sonno, poi sulle scarpe con le tre strisce, poi di nuovo Rose che spinge sempre più forte, mentre il ritmo si fa più incalzante. Negli ultimi secondi dello spot lo vediamo comparire dal tunnel di uno United Center gremito, che lo accoglie come il Messia risorto.

Non è la realtà, ma una sua percezione destinata alle vendite. Derrick Rose si era rotto il legamento anteriore del ginocchio sinistro il 28 aprile 2012, nella prima partita della prima serie di playoff contro Philadelphia. A vederlo quel momento terribile, si percepisce proprio qualcosa che cede in Rose dopo aver piantato le gambe a terra, nell’attimo in cui doveva esplodere in una di quelle sue giocate che erano inarrestabili. Dopo quel giorno a Chicago c’è solo l’attesa che ritorni. La campagna di Adidas è martellante, c’è anche l'hashtag, agli albori degli hashtag: #thereturn.

Ma Rose non torna, o almeno non torna quando tutti sperano.

È il primo segno dell’umanità di Rose, inteso come essere umano, con i suoi difetti, le sue paure, i pensieri, i dubbi. Perché prima, e questo è certo, nessuno pensava lo fosse.

From Chicago

Figlio della Chicago più povera, quella di Englewood, quella dove Ben Wilson, considerato nel 1984 il miglior prospetto del Paese, era morto in una sparatoria ancora prima di arrivare in NBA, Rose cresce protetto dalla famiglia, a partire dalla madre Brenda e dai tre fratelli Dwayne, Reggie e Alan, indirizzato unicamente verso il miglior possibile sviluppo del suo talento nel basket. Il racconto delle sue esibizioni a Murray Park, il campetto del quartiere, sono leggendari, e non è difficile credergli.

Rose è veloce, potente, verticale. Quando salta sembra galleggiare, quando parte lascia una scia. «Si sentiva il rumore della sua velocità», dirà di lui Federico Buffa, ed era vero. Al liceo incanta con la Simeon Career Academy, il suo nome inizia a comparire sulle riviste e in TV. Al College sceglie University of Memphis, reclutato da John Calipari. Al primo anno arriva fino alla finale del torneo NCAA, persa solo al supplementare contro Kansas. Subito dopo si dichiara eleggibile al Draft.

A questo punto la storia di Rose prende la piega delle favole. Pur avendo appena l’1,7% di possibilità, la scelta numero uno di quel Draft premia i Chicago Bulls. Il 26 giugno 2008 a New York le cose vanno come devono andare e Rose può indossare il cappellino della squadra della sua città e stringere la mano a David Stern. Un matrimonio perfetto: una città che ha cambiato la sua percezione nel mondo grazie al basket venti anni prima, ora nel basket cerca il riscatto anche per la sua gente più povera e dimenticata. Rose è Chicago, tanto che allo United Center, rompendo l’etichetta, non viene annunciato con l’università di provenienza, ma come from Chicago.

C’è il rischio che i Bulls si siano fatti attrarre dal fattore casa in un Draft pieno di talento potenziale, ma invece la scelta si rivela azzeccatissima. Rose non è solo un’atleta eccezionale, si dimostra da subito un giocatore vero, pronto per competere al piano di sopra. Al termine della stagione regolare vince il Premio di Rookie dell’anno, ma la vera rivelazione arriva alla prima gara di playoff della sua vita. Contro i Boston Celtics campioni in carica, al TD Garden, Rose gioca una partita impressionante. Ha solo vent’anni e la faccia da schiaffi, ma il suo basket è di una maturità impressionante: esce da ogni pick and roll con la soluzione giusta, attacca il ferro quando deve attaccare il ferro, la passa quando la deve passare, si prende i tiri giusti (o almeno, giusti per l’epoca), accelera a suo piacimento per ribaltare il campo. I Bulls vincono quella partita al supplementare, Rose chiude con 36 punti, 11 assist, 4 rimbalzi e 3 stoppate, con 9 su 10 ai liberi e 15 su 22 dal campo, mandando al manicomio uno dei migliori sistemi difensivi della NBA, messo in piedi da Tom Thibodeau, assistente di quella squadra.

Why can't I be MVP of the league?

Chicago perde la serie in gara-7, ma la strada è segnata. La stagione successiva è di assestamento. Rose è rallentato da un infortunio alla caviglia, ma arriva la prima convocazione all’All-Star Game e di nuovo i playoff, dove però i Bulls vengono schiantati abbastanza agevolmente dai Cleveland Cavaliers. E sembra questa la scala gerarchica della NBA, con LeBron James davanti a tutti, a contendersi il posto in cima all’Olimpo con Kobe Bryant. Solo dopo c’è tutto il resto, ma Rose non ci sta, vuole sgomitare, arrivare sopra. A 22 anni, idealmente, non sarebbe il suo momento, ma prima dell’inizio della stagione 2010/11 lancia il guanto di sfida: «Per come la vedo dentro di me: perché non posso essere l'MVP della lega? Perché non posso essere il miglior giocatore della lega? Perché non posso farlo? Lavoro sodo».

Quella che sembra una dichiarazione da ragazzino che non sa stare al suo posto, diventa un annuncio. Con Thibodeau in panchina, arrivato in estate proprio dai Celtics, i Bulls sono rivoluzionati. Difensivamente sono impenetrabili, giocano duro, e poi danno libero sfogo al talento di Rose, più esplosivo e veloce ogni giorno che passa. Quando può attaccare in campo aperto brucia il campo come se fosse lungo la metà. Quando non può va a prendersi i suoi punti attaccando in penetrazione, dentro pitturati chiusi da tre o quattro difensori che sono lì solo per fermarlo. Ma che non ci riescono. Vedere come sposta il pallone in aria, come danza sulla linea di fondo, come inventa parabole impossibili per segnare o schiacciate tonanti diventa lo spettacolo più elettrizzante della NBA.

Se non arriva al ferro prende tiri contestati dal mid-range, che richiedono equilibrio e coordinazione, e che segna con sempre più regolarità, oppure qualche tripla (non è ancora arrivata la rivoluzione del tiro da 3 punti). Quando mettersi in proprio è impossibile, dimostra di essere un ottimo passatore, muovendo le difese dal pick and roll e servendo il rollante o trovando qualche taglio nei pressi del ferro. Come dirà Stacey King, Rose è semplicemente «Too big, too strong, too fast. Too good».

I Bulls chiudono la stagione regolare con il miglior record della lega: 62 vittorie e 20 sconfitte. E se il sistema difensivo creato da Thibodeau è decisivo per creare un contesto di squadra vincente, è Rose a rendere tutto possibile, in una roster che - visto oggi - è difficile credere potesse davvero essere così competitivo (Deng, Noah, Boozer, Kurt Thomas, Brewer i cinque più usati oltre a Rose). Una media di 25 punti, 7,7 assist e 4,1 rimbalzi, con il 45% dal campo, il 33% da tre e l’85% ai liberi gli porta in dote il premio di MVP. A 22 anni è il più giovane di sempre a riceverlo.

A volte le immagini valgono più delle parole: qui praticamente un film di quella stagione, la maggior parte delle giocate che fa sono davvero impensabili. 

Rose si è migliorato in ogni singolo aspetto del gioco, ma soprattutto è riuscito in quanto aveva predetto: piazzarsi lì, nel discorso per il singolo miglior giocatore al mondo. Grazie a lui i Bulls tornano a essere una squadra che può ambire al titolo a 15 anni dall’epoca Jordan. I successivi playoff non fanno altro che confermarlo: la sconfitta in finale di Conference contro gli Heat di LeBron, Wade e Bosh è inevitabile ma molto più contestata di quello che non dica il punteggio (4 a 1). Sembra la nascita di una nuova rivalità: da una parte le luci di Miami, la supponenza dei Big Three, dall’altra lo spirito di rivalsa di Chicago, esaltato dal suo figlio prediletto.

L’umanità di Derrick Rose

Il suo stile spettacolare e futuristico è veramente una perfetta rappresentazione dello spirito del tempo. Il mondo va sempre più veloce e per stargli dietro bisogna essere come Rose: il più veloce, il più forte, il più ambizioso. Se a Chicago è venerato come un Re, anche nel resto del mondo diventa uno dei più amati per il suo gioco spericolato ed elettrizzante, così in contraddizione con il carattere schivo e la faccia sempre arrabbiata. E se il pubblico non può avere la sua velocità o la sua verticalità, ci penseranno delle scarpe. Adidas progetta intorno a Rose le adiZero Rose, sono scarpe ma sembrano piuttosto un computer più potente da avere, o il nuovo smartphone appena uscito che rende obsoleto quello vecchio (non è un caso che siamo negli stessi anni dei primi iPhone). Sono leggere e dal design quasi robotico, realizzate con materiali sintetici e una tecnologia innovativa. Magari non servono a schiacciare così in testa a Dragić, ma insomma: ci vendono l’idea di un futuro ineluttabile.

Come le sue scarpe Rose infatti sembra debba evolvere per sempre, diventare la macchina perfetta, una versione umana della tecnologia che fa sempre più parte delle nostre vite. Ed è per questo che dopo la rottura del crociato bisogna rilanciare, pensare a un infortunio non come al prezzo umano di uno sforzo inumano, ma come a un riassemblaggio. Adidas allora convince il pubblico che Rose non sta recuperando da un infortunio doloroso e traumatico, ma si sta aggiornando, per diventare addirittura una versione migliorata di se stesso.

In questo scenario Rose deve combattere con la sua paura, questa sì umana. Dovrebbe tornare a gennaio, ma non torna. Si allena coi compagni, ha il via libera dei medici, ma la data di rientro resta un mistero. Perché Rose non torna? È la domanda che aleggia senza risposta. L’energia nervosa dell’attesa diventa rabbia, frustrazione: arrivano i meme, le battute, le cattiverie. Se non torna vuol dire che, forse, non tiene abbastanza a Chicago, oppure che è troppo soft, inteso mentalmente oltre che fisicamente. Anche la dirigenza lo scarica, dicendo che Rose tornerà quando si sentirà pronto a tornare.

Rose decide di saltare tutta la stagione, tornerà alla successiva. I Bulls arrivano al secondo turno dei playoff, eliminati ancora una volta da Miami. Con Rose sarebbe andata diversamente? Perché non è arrivato in aiuto dei suoi compagni? La città mormora e Adidas corre ai ripari con una nuova pubblicità. Sono trenta secondi di pura retorica, in cui la voce fuori campo di Rose recita questo mantra: «Lascia che ti dica una cosa. Se ti togliessero i soldi, la fama, i riflettori; se ti togliessero lo stile di vita e tutto ciò che ne deriva; se ti togliessero i flash, cosa ti rimarrebbe? Tutto».

Quello che Chicago ritrova è un giocatore arrugginito, meno esplosivo, meno preciso. Perché non è la sua versione migliorata come avevano promesso? È solo questione di tempo, è la speranza. Ma dopo 10 partite Rose si rompe di nuovo. Questa volta è il menisco dell’altro ginocchio che si rompe. Rose potrebbe scegliere una terapia conservativa e tornare dopo qualche mese, con i Bulls che sono sempre una contender, ma decide di operarsi per preservare la salute del suo ginocchio. Il teatrino stucchevole del primo infortunio si ripete. Quando torna Rose? Questa volta è addirittura lui a mostrarsi in stampelle e dire che, forse, tornerà per il playoff, non come l’altra volta che ha lasciato i suoi compagni soli. Ma Rose non torna neanche questa volta.

È a questo punto, possiamo dire, che la storia di Rose cambia totalmente parabola. Se la tecnologia non funziona, la tecnologia cambia: c’è sempre un modello migliore da qualche altra parte. Rose diventa rapidamente un what if, visto con pena dal pubblico più lontano e con rimpianto da quello più vicino. Chicago gli chiede di tornare a essere quella palla di cannone lanciata verso il canestro, o almeno di provarci. Cosa importa se ha avuto due infortuni molto pesanti, se ha iniziato a dubitare del proprio corpo e del proprio talento? Rose è pagato milioni di dollari, i tifosi lo hanno venerato: lui deve lasciare tutto sul campo a costo di rovinarsi la vita fuori. Rose però si ribella a questa versione superomistica del suo ruolo: cerca di diventare un giocatore diverso, per sopravvivere deve attaccare meno come un kamikaze e ragionare di più. Quando sente il suo corpo dargli qualche segnale di cedimento, salta partite, in una versione ante-litteram del load management. Diventa praticamente l’opposto di quello che Adidas ha provato a vendere. Il basket è tutto? No: lo dice lui stesso, in una dichiarazione che diventerà un boomerang: «Quello che la gente non capisce è che quando sto fuori, io non penso solo a questa stagione. Io penso sul lungo periodo. Penso a quando avrò finito la mia carriera. Non voglio ritrovarmi dolorante alle riunioni o alla laurea di mio figlio per qualcosa che ho fatto in passato».

Sono parole che lo allontanano dall’amore incondizionato che Chicago gli aveva riservato, ma che lo riavvicinano a se stesso. La carriera di Rose dopo quel giorno, durata altri 10 anni, è un inno al carattere, alla volontà, alla capacità di adattamento. Col tempo ha trovato anche il riscatto nell’affetto della gente, non più quello luccicante ma che pretende che si dà al nuovo prototipo tecnologico, ma quello riservato e intimo del rispetto per l'uomo. Ovunque ha giocato, che lo abbia fatto bene o male, Rose ha conquistato tifosi e compagni, mai una volta è sembrato guardarsi indietro con rancore, pensare a quello che poteva essere e non è stato.


Solo una volta Rose ha vacillato, dopo aver segnato 50 punti in una notte magica del 2018. Con le lacrime agli occhi deve aver pensato a tutte le promesse, le attese, le aspettative. Se era triste o felice era difficile da capire. Sicuramente era umano.

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