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Harry How/Getty Images
NBA Dario Costa 23 novembre 2018 7'

Derrick Rose è vivo e lotta con noi

L’inizio di stagione ha visto l’ex MVP tornare ad infiammare i cuori dei suoi tanti tifosi, ma la gloria ritrovata potrebbe rivelarsi effimera.

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Anche in un universo come quello dello sport americano, dove le trame sanno regalare spunti inesauribili, esistono storie sulle quali è stato detto e scritto tutto.

 

Parabole come quella di Derrick Rose, poi, concentrano in un lasso di tempo limitato quanto di norma faticherebbe ad essere contenuto nell’arco di una vita intera, tanto che arrivati ad un certo punto sembra impossibile aggiungere altro.

 

Soprattutto perché il punto in cui si è arrivati, dopo essere stati l’MVP più giovane della storia e uomo copertina destinato a dividersi il palcoscenico con LeBron James per i successivi dieci anni, è un luogo ai margini della mappa NBA. Ormai quasi dimenticato nei meandri della periferia a cui le avversità sembravano averlo confinato, però, l’ex prima scelta al Draft 2008 è tornato a sfidare un destino in apparenza già segnato.

 

Orgoglio e rassegnazione

Il destino, in questo caso, sembrava aver avuto la meglio e Rose, ricongiuntosi con il suo antico mentore Thibodeau la scorsa primavera dopo un anno e mezzo speso tra New York, Cleveland e pause sabbatiche, sembrava aver accettato di buon grado un ruolo di secondo piano nel quadro tattico dei T’Wolves. Il sottotitolo calzante alla nuova fase della sua vita non poteva che essere “orgoglio e rassegnazione”.

 

Orgoglio perché, nonostante il fardello di un passato ingombrante da trascinare ogni giorno con sé, Rose si dimostrava fermo nell’intento di non mollare la presa su una carriera comunque avviata verso il declivio, almeno per quelle che erano le entusiasmanti premesse iniziali.

 

Rassegnazione perché, proprio in virtù di quel passato, fare il cambio di Jeff Teague significava abbracciare un presente alquanto mortificante. In maniera tanto fulminea quanto inaspettata, a diradare questa coltre di malinconia è invece arrivata la brezza d’inizio stagione: dopo un’estate trascorsa ad allenarsi in tranquillità, la prima da tempo immemore senza problemi fisici o giudiziari, nella manciata di partite giocate Rose è assurto agli onori delle cronache NBA come non succedeva da almeno un lustro. Il picco sono stati i 50 punti segnati nella sfida contro gli Utah Jazz, career high che ha fatto gridare al miracolo sportivo con tanto di strali da parte di colleghi e addetti ai lavori e lacrime agli occhi per il diretto interessato.

 

Come in una favola, per una notte Rose torna quello che per anni aveva fatto ululare i fedelissimi dello United Center convinti di essere davanti alla reincarnazione di Jordan.

 

Il caso ha voluto che la vittoria contro Rudy Gobert e compagni sia maturata proprio durante la notte di Halloween, coincidenza che in molti hanno inteso collegare alla resurrezione cestistica di un campione dato per morto, e non una volta sola.

 

Ad onor del vero, se di resurrezione si vuole parlare, occorre tener conto dell’apporto che Rose ha fornito alla propria squadra fin dalla palla a due inaugurale. Le statistiche parlano chiaro: per lui questo primo scorcio di stagione regolare rappresenta, sotto tutti i punti di vista, il miglior filotto di prestazioni dai tempi del primo, grave infortunio al ginocchio del 2012. Con 18.9 punti di media, escludendo dall’esame il transfuga Jimmy Butler, è risultato sin qui il secondo miglior marcatore in maglia T’Wolves dietro a Karl-Anthony Towns. E per quanto rimanga innegabile la limitatezza del campione in esame, appare comunque chiaro come il Rose del 2018 abbia optato per uno scambio tra volume di gioco prodotto ed efficienza.

 

Il 46.6% dal campo è un dato sensibilmente superiore alla media tenuta in carriera e a quella degli anni d’oro a Chicago, laddove il 47.3% da tre è per distacco il risultato migliore raggiunto in un decennio da professionista. È logico prevedere che entrambi i dati, in particolare quello relativo ai tentativi dalla lunga distanza nei tiri dal palleggio (44.8% su quasi due tentativi a partita, comunque la metà rispetto a quelli che si prende da due punti), siano destinati a calare nel prosieguo della stagione, nondimeno l’incisività di Rose traspare anche dal Net Rating accumulato (+4.1, primo tra i compagni e in controtendenza rispetto al dato complessivo di squadra che dice -4.8 e, soprattutto, al terribile -12.9 quando non è in campo).

 

E ancora più significativa è la differenza tra le statistiche registrate nelle cinque gare in cui è stato schierato in quintetto (29.2 punti con il 61% effettivo dal campo in 37.2 minuti d’utilizzo e uno Usage Rate del 29%) e nelle dieci in cui è partito dalla panchina (13.8 punti con il 47% effettivo dal campo in 26.7 minuti di media e uno Usage del 22%). Soprattutto in contumacia Butler, quindi, Rose si è preso la squadra sulle spalle spesso e volentieri, coprendo i passaggi a vuoto di un Towns sull’orlo di una crisi di nervi e del solito, inconsistente Andrew Wiggins. Il tutto è rappresentato dal suo 24.7% di Usage Rate, il più alto di tutti i T’Wolves, in 30 minuti di utilizzo.

 

The Cloverfield Minnie

Le prestazioni offerte da Rose assumono un peso ancora maggiore se contestualizzate nelle traversie vissute da Minnesota. Come noto, l’avvio della stagione 2017-18 non è stato di certo tra i più semplici e sereni in casa T’Wolves. Durante il lungo periodo in cui squadra e front office sono rimasti ostaggio delle intemperanze di Jimmy Butler in quello che ogni giorno assumeva sempre più i contorni di un sequel della saga di Cloverfield, Rose è forse stato l’unico motivo di gioia per i pochi tifosi accorsi al Target Center.

 

Ora, archiviato il temporaneo sequestro di franchigia grazie allo scambio che ha portato Butler a Philadelphia, la prospettiva che si delinea con la nuova conformazione tattica parrebbe sorridere ancor di più ragazzo del South Side. L’arrivo di Robert Covington e Dario Saric, giocatori di sistema che rispetto a Butler necessitano di tenere molto meno la palla tra le mani, potrebbe infatti aprire ulteriori spazi in attacco e possessi a disposizione. Qualora i due ex-Sixers dovessero ambientarsi con celerità, si creerebbero le premesse affinché la squadra trovi una fluidità di gioco fin qui chimerica, anche durante gli sprazzi migliori della scorsa stagione.

 

In quest’ottica, Rose, da portatore di palla primario oppure da guida della second-unit, si troverebbe nelle condizioni ideali per confermare sul lungo periodo il momento felice vissuto fin qui, perché comunque rimane un giocatore che ha bisogno di minuti e di palleggi per mettersi in ritmo (abitudine che risale fin dai tempi di Chicago). Il vero punto interrogativo, urge ammettere, risiede però in panchina. Tom Thibodeau si trova a capo di un progetto ormai distante da quella che era l’idea originaria e, secondo molti, avviato verso la sua conclusione a prescindere dai risultati che verranno raccolti sul campo.

 

L’amore per il suo pupillo potrebbe ritorcersi contro entrambi, alienando definitivamente le simpatie di compagni e proprietà. Quando si tratterà di Derrick Rose, Coach Thibs dovrà saper distinguere tra il trasporto emotivo, ovvero il vincolo che indiscutibilmente lo lega a un giocatore che ha definito come «Uno dei più forti in circolazione quando sano», e la razionalità, cioè il bene ultimo rappresentato dalla squadra nel suo insieme. Un compito difficile e che in un certo senso non riguarderà solo il coach di Minnesota, o più probabilmente non lo riguarderà affatto a fine anno.

 


Riciclarsi nel ruolo di spot up shooter potrebbe rappresentare la chiave di volta per un futuro luminoso: al momento sta tirando con il 45.2% su poco meno di due tentativi a partita, di cui tre quarti aperti o completamente aperti – segno che anche le squadre non rispetto ancora il suo tiro in sospensione.

 

Ragione e sentimento

Di fronte al recente, inatteso ritorno di fiamma tra Rose e la dea bendata, è difficile per chiunque rimanere distaccati, a maggior ragione se si considera l’immane carico di sfortuna che ne ha falcidiato la carriera. Anche perché in tutti questi anni, al netto dei parecchi errori commessi dentro e fuori dal campo, l’ex-Bulls ha comunque dimostrato un amore genuino e viscerale nei confronti del gioco. Immaginare il suo domani, quindi, richiede uno sforzo compromissorio tra ragione e sentimento: confidare che quanto visto in queste settimane rappresenti il preludio al ritorno ai vecchi fasti è tanto romantico quanto infondato, perché dopo quattro interventi in cinque anni, due per ogni ginocchio, aspettarsi che Rose possa recuperare quell’esplosività che era il suo marchio di fabbrica significa appellarsi a una temporanea sospensione dell’incredulità.

 

Giocate elettrizzanti, accompagnate dall’immancabile sguardo a metà strada tra timidezza e sociopatia.

 

La NBA, però, non è la WWE, dove le storylines vengono pianificate a tavolino con l’intento di sedurre appassionati e telespettatori. Più realistico è viceversa ipotizzare che una versione “normalizzata” del vecchio Derrick Rose, meno predatore dei ferri avversari e tiratore più affidabile dalla media e lunga distanza, possa trovare quella continuità da tempo smarrita, ritagliandosi così una nuova caratterizzazione sul parquet.

 

Tutto questo nella consapevolezza che l’etichetta di giocatore vintage rimarrà comunque appiccicata alla canotta numero 25, omaggio alla sfortunata leggenda concittadina Benji Wilson. Perché anche nell’ipotesi che recuperi miracolosamente l’antico strapotere atletico, nel frattempo la lega si è popolata di guardie che fanno ciò che faceva lui quando era il migliore di tutti, e ora come ora lo fanno meglio di lui. Al di là dell’aspetto meramente tecnico, va poi sottolineato come Rose, ragazzo e ormai uomo introverso e mercuriale, non si sia costruito una fama da leader in grado di motivare e coinvolgere i compagni, fattore che lo rende poco spendibile per la mansione di veterano/amministratore dello spogliatoio, tanto meno per quella di portavoce verso media e tifosi.

 

A trent’anni da poco compiuti, una stagione senza intoppi sia fisici che comportamentali e un rendimento durevole lo renderebbero ad ogni modo free agent più che appetibile la prossima estate. L’orizzonte temporale dell’impegno con i T’Wolves, a breve scadenza così come a breve scadenza appare il progetto tecnico di cui lui avrebbe dovuto fare parte, lascia intravedere la possibilità di costruirsi un futuro altrove. Non sarà un futuro da protagonista assoluto, specialmente se Rose vorrà mettersi alla prova in una squadra con reali ambizioni da titolo e con meno minuti/possessi a disposizione, ma resta comunque il fatto che questo primo mese di regular season ha fatto capire come Derrick sia ancora vivo e lotti con noi.

 

E poi, in fondo, anche solo riscrivere il finale di una storia che sembrava segnata rappresenterebbe comunque una forma di riscatto encomiabile.

 

 

Tags : derrick roseminnesota timberwolvesnba

Dario Costa è nato trentotto giorni dopo Kobe Bryant. È innamorato e scrive di musica e pallacanestro, spesso mescolate insieme. Ha collaborato con Barracuda Rock Tour e Rivista Ufficiale NBA.

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