Non so se dare la colpa alla nebbia o alla mia memoria, ma non credo che il Derby di Milano abbia sempre avuto la stessa luce. Se chiudo gli occhi, ad esempio, lo rivedo luminosissimo. Le immagini di Ronaldo che disegna pallonetti in torsione sopra i due metri di Sebastiano Rossi, di Abbiati che ferma Kallon a due passi dalla finale di Champions, di Adriano che all’ultimo secondo svetta sulla testa di Vieri e decide la partita, scorrono tutte avvolte da una luce abbagliante, che colora l’erba di un verde acceso ed esalta le tinte nerazzurre e rossonere delle magliette.
Se invece provo ad addentrarmi in quel periodo di profonda decadenza in cui ai gol di El Shaarawy e Ménez rispondevano quelli di Schelotto e Obi, quando i Derby finivano quasi sempre con un pareggio, e quasi sempre quel pareggio non serviva a niente perché le due squadre erano incastrate a metà classifica, le luci si offuscano e i colori dello stadio si spengono. L’oscurità avvolge persino le divise, dove il nero soffoca ogni gradazione, come è accaduto all’Inter nel 2014/2015 e al Milan due anni dopo. È il modo in cui gli stilisti provavano a denunciare la notte buia in cui le due squadre erano sprofondate. Forse è questo, quello che si intende, quando si dice che sono le stelle a illuminare le partite.
La crisi del calcio milanese, iniziata quasi un decennio fa e non ancora completamente alle spalle, rappresenta in grossa sintesi il fallimento di un certo modello imprenditoriale fondato sulla figura patronale, sulle grandi famiglie dell’industria italiana che avevano fatto del campionato il loro torneo aziendale, e delle squadre il loro giocattolo. Divertentissimo, va detto, anche per il grande pubblico. Il paradosso è che proprio Inter e Milan, tanto nei gloriosi anni Novanta quanto nell’illusorio colpo di coda al termine degli anni Duemila, hanno dato un contributo fondamentale alla diffusione del calcio in tutto il mondo, e di conseguenza anche a quella crescita esponenziale del mercato che poi non sono state capaci di fronteggiare.
Foto di Miguel Medina / Getty Images
Camminando verso lo stadio, osservo i tifosi che si riversano nel fiume di persone che conduce ai cancelli di San Siro. Vorrei capire dalle maglie che indossano se sono ancorati al passato o affezionati al presente, ma a Milano è improvvisamente arrivato il freddo e le maglie restano nascoste sotto i giubbotti. I pochi coraggiosi, però, portano sulla schiena i nomi dei protagonisti dei nostri giorni: un Perisic, un Nainggolan, un Icardi, un Suso, un Higuaín, qualche nome di persona, stampato comunque sulle maglie di quest’anno. Tutta la città è proiettata nel futuro. Persino i food trucker - noto con stupore - hanno rimosso i tubi al neon e adesso scrivono il menù con il gesso sulle lavagnette, servendo in completo da chef.
Con l’avvento delle proprietà straniere - l’Inter con un progetto più solido e strutturato, il Milan con un percorso più opaco e indecifrabile - anche le squadre di Milano hanno volto finalmente lo sguardo al futuro, e possono permettersi di coltivare l’aspettativa di un ritorno in Europa dalla porta principale. Dopo sette anni di assenza, con l’espansione del numero di squadre qualificate e l’ingaggio di Luciano Spalletti, l’Inter ci è finalmente riuscita, e si è presentata al Derby sulla scia dell’entusiasmo generato dalle vittorie contro Tottenham e PSV. Il Milan ha invece affidato la panchina all’idolo di casa Gennaro Gattuso, che però non ha mai trovato un assetto tattico davvero convincente per una rosa ancora da definire, impreziosita da alcuni dei migliori prospetti del calcio italiano (Donnarumma, Romagnoli, Caldara, Cutrone) e soprattutto da Higuaín, uno dei migliori giocatori del campionato.
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La partita è stata un’esatta rappresentazione del periodo di transizione in cui galleggiano le due squadre, lontane da quell’inferno fatto di acquisti scriteriati e allenatori inadeguati, ma altrettanto distanti dal tornare “a riveder le stelle”, come citava anche la brillante campagna abbonamenti dell’Inter dopo il ritorno in Champions. È stata una partita per larghi tratti noiosa, spezzata dai falli e dalle imprecisioni, con qualche spunto interessante soffocato dalla fretta o dalle attenzioni dei difensori.
Per 92 minuti è rimasta bloccata sullo zero a zero, un risultato figlio di scelte tattiche (degli allenatori) e tecniche (dei giocatori) poco coraggiose, di troppi errori negli ultimi trenta metri, e della stanchezza che è calata inesorabile sul campo con l’avanzare dei minuti. Questo finché Vecino non ha ricevuto il pallone isolato sulla fascia e ha fatto quello che è mancato all’Inter per tutta la partita, usare l’istinto, correre un rischio, crossare a occhi chiusi di spalle alla porta, fidarsi del movimento di un compagno senza aspettare che la difesa del Milan avesse il tempo di ricomporsi.
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Per sua fortuna quel compagno era Icardi, un attaccante che quando si tratta di attaccare lo spazio e di cogliere impreparate le difese non ha rivali nel mondo, e tantomeno nell’area di rigore del Milan, in cui ha sempre dimostrato una certa familiarità. Il contro-movimento con cui ha fatto perdere l’equilibrio a Musacchio rimane il gesto tecnico più bello di una partita dominata invece dalle prodezze difensive, dalle scivolate di Brozovic e di Rodríguez (fondamentale un intervento proprio su Icardi nel primo tempo), dai disimpegni di Romagnoli, dalle spallate di Skriniar e di De Vrij.
Sono tornate le stelle, insomma, ma non sono ancora all’altezza di un grande spettacolo tecnico, né della cornice in cui il Derby si è giocato: 78.275 tifosi, oltre 5 milioni di euro di incasso e coreografie monumentali. Inter e Milan, e in particolar modo gli attacchi di Inter e Milan, devono ritrovare quella velocità, quella leggerezza, quella sicurezza, che derivano dal sentirsi una grande squadra. Il percorso è ancora lungo, ma il peggio è passato. All’uscita dallo stadio, un gruppo di tifosi dell’Inter intona cori e salta assieme a Ivan Zamorano, pescato in mezzo alla folla. È più facile ricordare il passato, quando si è felici del presente.
Questo articolo uscirà in lingua giapponese sul prossimo numero di World Soccer Digest