
È il 19 Maggio 2000. Il Deportivo La Coruña è da diversi anni nel giro delle squadre più forti di Spagna, e alla vigilia dell’ultima partita di campionato è primo in classifica. Lo insegue una delle protagoniste più blasonate del calcio spagnolo, il Barcellona, ma al Deportivo basterà non perdere contro un’altra squadra catalana, l’Espanyol, per diventare campione di Spagna per la prima volta nella sua storia. Mancano 90 minuti, quindi, ma per i corridoi del Riazor, lo stadio di La Coruña, in Galizia, tornano a circolare vecchie paure.
14 Maggio 1994: si gioca Deportivo La Coruña – Valencia. Il cronometro segna il minuto 88, e Donato Gama da Silva, per tutti semplicemente Donato, siede in panchina, da poco sostituito. Il risultato è sullo 0-0, e la classifica, in quel momento, recita Barcellona primo, Deportivo secondo. I punti sono gli stessi, ma la differenza reti vede in vantaggio il club catalano. Stanno scorrendo gli ultimi minuti della stagione quando Nando, difensore del Depor, viene atterrato in area da Serer. L’arbitro Lopez Nieto fischia ed assegna un calcio di rigore alla squadra di casa. Donato, il tiratore designato, è però in panchina.
Bebeto, protagonista della stagione gallega, forse sovraccaricato dalla tensione del momento, non se la sente di tirare; a prendersi la responsabilità è, quindi, Miroslav Ðukić. Il suo è un tiro dagli undici metri vale, in potenza, un posto nella storia, ma la sua conclusione esce fiacca - così fiacca da sembrare quasi un passaggio che finisce tra le braccia del portiere. Lo 0-0 finale sancisce la vittoria della Liga da parte dei Blaugrana.
Donato Gama da Silva, per tutti semplicemente Donato, nel suo seggiolino in panchina, è disperato, inconsolabile.
Sei anni più tardi, quindi, è più che mai lecito che il Depor conviva con l’incubo di vedersi materializzare lo stesso finale beffardo. Ma è un timore che dura soltanto tre minuti, cioè fino a quando un giocatore in maglia blanquiazul colpisce di testa su un calcio d’angolo battuto dalla sinistra.
Ha attaccato il primo palo con voracità svettando sui difensori con “un terzo tempo” degno di un cestista, segnando il gol del vantaggio. È Donato Gama da Silva: Donato, questa volta in campo invece che in panchina ad osservare passivamente il tragico scorrere degli eventi.
LE ORIGINI
La Galizia è una regione che ricopre la parte più estrema del nord-ovest della Spagna. È una regione suggestiva con le sue vallate fertili e verdeggianti, paesaggi mozzafiato, scogliere e fiordi sull’Oceano Atlantico. Un'icona, in Spagna, di quella che oggi viene chiamata vita lenta - come lenta deve essere la cottura del celebre Pulpo a la gallega. L’attesa è un vero e proprio leitmotiv da queste parti: i galiziani sono abituati ad attendere, anche e soprattutto nel calcio, dove i tifosi del Celta Vigo e del Deportivo de La Coruña hanno dovuto aspettare la fine del secolo per essere davvero competitive a livello nazionale, e togliersi le prime soddisfazioni.
Il percorso che ha portato il Deportivo a questa grande stagione non è però stato tutto rosa e fiori. Nel 1988 è stato sull’orlo di un tracollo: a rischio retrocessione dalla Segunda Division in terza serie e, con un debito di circa 500 milioni di pesetas, si trovava a passeggiare pericolosamente sulla bocca di un precipizio da cui sarebbe stato difficile, se non impossibile, risalire. In quel momento, a salvarne le sorti, si è materializzato Augusto César Lendoiro.
Consigliere municipale di La Coruña per il Partido Popular, corpulento e vulcanico, per certi versi simile a un altro presidente iconico degli anni Novanta del calcio spagnolo, Jesus Gil y Gil (presidente storico dell'Atletico Madrid). A soli quindici anni ha creato una squadra di calcio dilettantistico, l’Ural CF che negli anni ‘60 ha partecipato ai campionati giovanili provinciali. Nel 1972 ha invece fondato il Club Sportivo Liceo La Paz, un club di hockey che in pochi anni ha portato ai vertici spagnoli e mondiali.
La situazione drammatica in cui versava il Deportivo aveva creato tensioni elettorali: i soci non avevano trovato un accordo su chi dovesse essere il nuovo timoniere, e per ben due volte le tornate elettorali si erano concluse con un nulla di fatto. Contemporaneamente, però, Lendoiro aveva ricevuto pressioni importanti da parte di soci e tifosi, speranzosi che potesse presentare la sua candidatura. In Lendoiro tutti vedevano l’uomo giusto per il club, anche e soprattutto in virtù del ruolo politico che ricopriva. Quando finalmente aveva accettato di candidarsi, le elezioni erano state una pura formalità: dopotutto era l’unico candidato, peraltro sostenuto a furor di popolo.
France Football ha trovato la parola giusta per descrivere quelli che sono gli anni del Depor sotto il suo mandato: “un milagro permanente”, un miracolo permanente. La squadra passa agevolmente, nel giro di due stagioni, dal rischio retrocessione al ritorno in Liga dopo quasi due decenni di assenza. E dopo una prima stagione di assestamento, già dal 1992-93 è nella parte alta della classifica, a giocarsi il titolo con il Barcellona.
In quel maledetto 1994 arriva davvero a un passo. Ma il miracolo non è stato estemporaneo, è stato costruito mattone dopo mattone, anche grazie a una serie di trattative che ancora oggi sembrano impossibili, e che avrebbero costituito il marchio di fabbrica di Lendoiro. Nel 1992, per esempio, Lendoiro vola in Brasile per convincere due talenti già rodati della Seleção – Bebeto e Mauro Silva – a trasferirsi in Galizia. Lo fa in una maniera tutta sua di gestire le trattative, cioè trattando solo a partire dal calar del buio, con cene fissate in orari inimmaginabili e pronte a protrarsi fino a notte fonda, chissà se per puntare allo sfinimento dei partecipanti alla trattativa. Per convincere Bebeto e Mauro Silva, Lendoiro le prova davvero tutte – anche la sottile arte dell’inganno, quando con nonchalance cerca di convincere i calciatori che il clima della Galizia è molto simile a quello del Brasile.
Lendoiro ha sempre subito una fascinazione per il calcio brasiliano. «La parola fútbol si scrive con la B di Brasile», dice a chi gli chiede come sia nato il legame con il paese sudamericano. Nel libro Branquiazul: Historia oral de los años dorados del Dépor di Marcos Gendre c’è un capitolo che si intitola “Brasile, capitale: Coruña”, proprio a sottolineare quanto potente – e costante nel tempo – sarebbe stato quel legame.
Dopo Bebeto e Mauro Silva sarebbero arrivati, nel corso degli anni, Donato Gama da Silva dall’Atletico Madrid nel 1993 e un trequartista dal talento sconfinato che non ha bisogno di presentazioni: Rivaldo. Il trequartista, prelevato dal Palmeiras, incanterà però il Riazor per una sola stagione, quella del 1996/97, prima di trasferirsi in Catalogna, al Camp Nou.
Alle porte della stagione 1997/98, Lendoiro deve affrontare, quindi, la grana di sostituire proprio Rivaldo. La soluzione che ha deciso di abbracciare è una scommessa, come sempre, ma stavolta di più, non foss’altro perché ha messo gli occhi su un talento brasiliano che ha talento da vendere – proprio come Rivaldo – ma pure un carattere irascibile, difficile da gestire. Tanto che il Flamengo, stanco delle sue intemperanze, nel 1993 dopo una rissa sfiorata con il compagno di squadra Renato Gaucho (o Renato Portaluppi, come lo chiamiamo qui in Italia) lo ha ceduto al Guaranì. Le cose però non avevano funzionato nemmeno lì: il Guaranì a sua volta gli aveva rescisso il contratto permettendogli di accasarsi per qualche mese in Giappone, nel 1994, prima di tornare in Brasile per vestire la maglia del Palmeiras. Ed è proprio dal "Verdão" che lo preleva il Depor. Parlo di Djalma Feitosa Dias, cioè Djalminha.
L'EPIFANIA DJALMINHA
Djalminha è un autentico cortocircuito: è totalmente brasiliano nel suo modo di esprimersi ma radicalmente fuori dagli schemi per tutto il resto. Quanto può essere swag un funambolo brasiliano che va matto per gli Smiths, si ispira a Jason Williams e irride gli avversari in campo?
El Genio, El Mago, O Dios – come lo ribattezzeranno i galiziani – gioca un calcio naïf che rimanda alle partite in strada, dove beffare un avversario con un tunnel, una finta o una nuova giocata può essere più importante di un gol, e ha in dote un bagaglio di finte che successivamente avremmo rivisto soltanto in Ronaldinho e Neymar.
Djalminha usa il tacco in momenti totalmente inaspettati dell’azione. È capace di servire i compagni con una rabona verticale da fermo. È pura genialità. Tuttavia, il carattere è davvero difficile da decifrare: quando deve giocare contro squadre della parte bassa della classifica si allena poco, male, e non vuole scendere in campo, o lo fa come per timbrare un cartellino, senza dare il suo meglio. Più grande è l’importanza, la risonanza e il prestigio del match, maggiore sarà il suo impegno, forse perché come contraltare c’è in palio visibilità, oppure prestigio. Forse è semplicemente fatto così.
È problematico, Djalminha, e perde facilmente la testa. Come quella volta che viene escluso dai convocati per i Mondiali 2002 perché, durante una seduta di allenamento, finisce faccia a faccia con il tecnico del Deportivo, Irureta. Felipe Scolari, il CT del Brasile, qualche tempo prima lo aveva già ammonito: «Ho bisogno di te, ma stai lontano dai guai». A quanto pare, però, a Djalminha non è arrivato forte e chiaro, il messaggio, e quel gesto di riottosità manifesta finisce per costargli definitivamente la convocazione.
LA PERSEVERANZA DI JABO IRURETA
Fare l’allenatore del Deportivo sotto la presidenza Lendoiro non era un mestiere facile. Appena promosso in Liga, aveva dato il benservito al tecnico dell’impresa, Arsenio Iglesias, poi richiamato in corsa nella stagione 1991/92 e in panchina nell’anno della tremenda delusione all’ultima giornata.
Dopo di lui si erano alternati John Toshack, e poi José Manuel Corral – esonerato, sostituito dal brasiliano Carlos Alberto Silva e richiamato dopo quattro mesi. Serviva un tecnico che potesse prendere per mano un gruppo di calciatori abili e dargli una spinta in più da un punto di vista motivazionale. È per questo che all’inizio della stagione 1998/99 Lendoiro decide di consegnare le redini della squadra a Javier Irureta.
Javier, detto "Jabo", non è un tecnico qualsiasi: è appena stato nominato miglior allenatore dell’anno dalla rivista Don Balón e dal quotidiano El País, ma a Lendoiro interessa soprattutto quello che rappresenta, perché fino alla stagione prima è stato l’allenatore del Celta de Vigo, la principale rivale del Depor, che ha contribuito a condurre a una storica qualificazione in Coppa UEFA. Per portarlo a La Coruña Lendoiro si intromette nelle trattative di rinnovo, finendo per condurre Irureta a compiere quello che, a tutti gli effetti, dai tifosi del Celta viene considerato un tradimento sanguinoso.
"Jabo" è un incorruttibile, uno che sostiene di non abbandonare mai i suoi principi, siano essi morali o tattici. Uno diretto, senza deviazioni, quel tipo di persona che in Spagna viene definito “hombre vertical”, una persona “tutta d’un pezzo”.
Irureta è un abitudinario e durante la permanenza in Galizia vive in hotel. Ogni mattina, dopo colazione, legge i quotidiani, poi va a farsi una passeggiata. È una ritualità che in quegli anni si perpetua di giorno in giorno. Una metodicità che si riflette anche in campo. «L’allenamento di "Jabo" era basato sulla ripetizione. Si facevano molti esercizi ripetuti, di costante specializzazione. Ad esempio, facevamo tantissimi esercizi di cross e rimesse», dirà Victor, ala di quel Deportivo. La ripetitività genera costanza, e nella costanza, e nel lavoro, Irureta crede fermamente.
I risultati sono lampanti: in un anno porta il Deportivo dalla dodicesima posizione al sesto posto, che vale la qualificazione alla Coppa UEFA, guidando la squadra in una stagione – quella del 1998/99 – che è peraltro soltanto un antipasto di quello che sarà l’anno successivo, il più importante per il calcio gallego.
Alla vigilia della stagione 1999/2000 Lendoiro vince l’ennesima scommessa del suo calciomercato, questa volta volando relativamente vicino. Preleva dal Tenerife appena retrocesso l’attaccante olandese Roy Makaay. L’esperienza canarina per Makaay era stata positiva in termini di reti realizzate ma deludente dal punto di vista dei risultati calcistici. Il suo arrivo inizialmente desta più preoccupazioni che entusiasmo. I tifosi si chiedono se sarà in grado di ambientarsi, di competere ad alti livelli. Roy, le risposte, le dà sul campo. Al suo esordio assoluto con la nuova maglia realizza, infatti, una tripletta. Makaay è un attaccante completo, perfetto per il 4-2-3-1 verticale di Irureta: abile senza palla, cinico davanti al portiere e dotato di un tempismo di rara efficacia.
Finirà la prima stagione al Deportivo da leader tecnico, segnando 22 reti e risultando determinante per la conquista del titolo. In Spagna iniziano a chiamarlo "El Pistolero". Qualche anno dopo, al Bayern Monaco, diventerà "Das Phantom", il fantasma, per la capacità di “comparire” sempre al momento giusto nel posto giusto. Due soprannomi tanto antitetici quanto iconici.
UNA MACCHINA QUASI PERFETTA
Il Deportivo messo in campo da Irureta è una squadra straordinariamente equilibrata. "Jabo" utilizza un 4-2-3-1 che diventa per necessità un 4-4-2 in fase di non possesso. Le due linee da quattro sono compatte, corte, difficili da penetrare. Difensivamente Irureta chiede compattezza alla squadra: si perde palla? Si scatta immediatamente all’indietro.
Mauro Silva è il filtro di centrocampo. Sulle ali Fran e Victor si scambiano spesso posizione aumentando e riducendo l’ampiezza di gioco. Il primo è un’ala rapida, dal grande bagaglio tecnico e con un buon senso del gol. Il secondo è uno dei più grandi giocatori della storia galiziana. È il capitano della squadra. Unico per classe, leadership e fedeltà. Indosserà, per tutta la carriera, la sola maglia del Deportivo diventandone un totem. Djalminha, invece, è il vero regista offensivo, libero di svariare sulla trequarti e di seguire le sue anarchiche geometrie.
In attacco, Makaay finalizza, pressa, detta i tempi di uscita. È un maestro del gioco senza palla, con i suoi movimenti è una costante spina nel fianco per i difensori che devono marcarlo prestando attenzione ai contemporanei inserimenti dei centrocampisti.
Il Deportivo parte molto forte in Liga: nelle prime 10 partite ne perde soltanto due, pareggia con il Real Madrid e vince 2-1 contro il Barcelona grazie ad una doppietta di Makaay. Il 21 novembre, dopo la poderosa vittoria contro il Siviglia per 5-2, il Depor guadagna la vetta della classifica: una posizione che non cederà più per tutto il campionato.
Tra gennaio e febbraio qualcosa si inceppa, però. Il Depor perde ben quattro partite, pareggia fuori casa con l’Espanyol e arriva alla sfida casalinga contro il Real Madrid con un pizzico meno di convinzione.
La gara casalinga contro il Real, a febbraio, è quindi un banco di prova di quelli importanti. La squadra di Irureta, però, non trema: dopo solo sei minuti passa in vantaggio con un colpo di testa del solito Makaay, e pochi minuti dopo raddoppia con una punizione deliziosa di Djalminha. I "blancos" sono tramortiti, e non serve a niente il gol di Morientes che sembra riaprire la partita. Lo tsunami che si riversa sul Real – finirà 5-2 per il Depor – non solo decreta una delle sconfitte più umilianti della storia dei "blancos", ma è l’attestazione di come i galiziani abbiano saputo ridurre il gap con le superpotenze del calcio spagnolo, presentandosi ora davvero come un candidato al titolo credibile.
E poi quella è la partita di Djalminha, quella cioè in cui il brasiliano assurge a calciatore di culto. Già al minuto 6 del primo tempo, "El Mago" addomestica un pallone spazzato via su calcio d’angolo e inizia a puntare verso la porta. Lo fronteggiano ben tre difensori. Djalminha li guarda, li sfida. Un secondo dopo, con un movimento tanto aggraziato quanto fulmineo, si fa passare la palla sopra la testa con il tacco. La palla supera la linea difensiva e finisce tra i piedi di Victor che si fa ribattere il tiro. «Madre mia, madre mia» urla il commentatore. È una giocata che passerà alla storia come la “lambretta”. Indimenticabile.
Tra marzo e aprile, però, arrivano tre sconfitte – tutte significative: al Camp Nou con il Barcelona in corsa per il titolo, a Vallecas con il Rayo e a Vigo con il Celta nel derby galiziano. La leadership del Deportivo inizia a mostrare qualche crepa.
Anni dopo Augusto Lendoiro dirà: «Andai solo una volta nello spogliatoio. Quando stavo vedendo che si stava ripetendo quello che era successo l’anno del rigore di Djukic. A cinque giornate dalla fine della stagione 1999/00 ho detto ai giocatori che eravamo ancora primi, con un calendario migliore, che eravamo più forti e che se avessimo perso, sarebbe stata soltanto colpa nostra».
In nessuna delle quattro giornate successive, però, il Deportivo riuscirà a mettere a segno il match point, rimandando la decisione sulla vittoria del titolo all’ultima giornata. E i precedenti non sono incoraggianti, perché l’ultima gara si svolgerà al Riazor.
IL FINALE
E quindi siamo di nuovo lì, al Riazor, ed è nuovamente il 19 maggio del 2000, solo che ora Donato Gama da Silva, per tutti semplicemente Donato, ha da poco portato in vantaggio il Deportivo, e l’umore è alle stelle. Donato ha 38 anni e per quella maglia ha addirittura cambiato ruolo, reinventandosi difensore centrale dopo una carriera da centrocampista. Sa benissimo che quello che sta sferragliando sui binari è l’ultimo treno, per lui e per la squadra. Quel “milagro permanente” non può davvero durare per sempre, prima o poi dovrà scontrarsi con la forza delle big, ma l’impresa che si sta per compiere – qualcosa di unico per la Galizia – è lì, ed è reale. Donato, Lendoiro, i tifosi del Depor attendono questo momento da quel 1994. Nessuno avrebbe mai scommesso su una nuova possibilità di vedere il Deportivo Campione di Spagna, e invece eccoli, a un passo dalla gloria.
Al 34' Manuel Pablo riceve il pallone sulla fascia destra. Conduce palla sulla marea di papelitos – i piccoli pezzi di carta che, soprattutto nel calcio argentino, vengono lanciati dagli spalti – che ricoprono il terreno in quella parte di campo. Dà un’occhiata dentro e fa partire il cross. Quello che, contemporaneamente, succede in area è da manuale dell’attaccante: Makaay vede la progressione del compagno, finge di andare incontro forte, poi, di botto, ha come un’esitazione. È un attimo di stasi così fluida da essere appena percepibile guardando l’azione. È con quel rallentamento che Makaay disorienta il difensore prendendo il vantaggio necessario ad attaccare forte il primo palo. La palla gli arriva tra i piedi, incrocia, gol. È il ventiduesimo della stagione. Quello più pesante. Al fischio finale il Deportivo ha vinto la prima Liga della sua storia.
Nei momenti successivi, quelli di euforia, magari no. Però c’è da scommettere che qualche giorno dopo, a mente fredda, ai tifosi, al presidente Lendoiro, ai giocatori, possa essere tornato alla mente un editoriale letto all’indomani della disfatta più imponente della loro storia, quella del 1994. Era stato pubblicato da El País e diceva: "...quelli del Barcelona convivono con la tensione della vittoria. Quelli del Deportivo non sono abituati a queste situazioni estreme, non hanno la maturità dei campioni e alcuni possono rispondere negativamente alla tensione…". La firma di quella dichiarazione era di Javier "Jabo" Irureta.
L’uomo che aveva dato al Depor la consapevolezza, la capacità di gestire situazioni estreme, la maturità dei campioni.