
Come molti avevano pronosticato, la serie tra Nuggets e Spurs si è confermata come la più equilibrata di un primo turno altrimenti poco bilanciato - e difatti è stata l’unica che si è decisa in gara-7. Alla vigilia uno dei fattori che tanti analisti, noi compresi, hanno preso in considerazione era il differenziale di esperienza in post-season tra i due team: sotto questo aspetto secondo molti le vecchie volpi di San Antonio avevano un vantaggio da sfruttare contro i giovanotti rampanti di Denver. E invece proprio un errore da principianti dei nero-argento ha chiuso la serie.
Aldridge che non fa fallo sfiora l’assurdità di J.R. Smith in gara-1 delle Finals 2018, pur con molto meno in palio. «Ovviamente nessuno mi ha sentito sul parquet, per quello non hanno commesso fallo» ha detto Popovich, e Aldridge ha confermato. Almeno Mills ha abbozzato un tentativo di difesa.
Ovviamente non si può ridurre una gara-7, né tantomeno la serie, a questa singola azione. Ma è esemplificativa di come San Antonio non abbia saputo sfruttare fino in fondo i pochi fattori di vantaggio che aveva nei confronti degli avversari. Che al contrario sono cresciuti partita dopo partita, aggiustando le cose che non andavano o - per dirla meglio - riprendendo confidenza con il proprio basket che tante cose belle aveva prodotto in regular season.

La shotchart di Jamal Murray, che dopo una Gara-1 disastrosa, ha raddrizzato la sua serie fino al floater vincente.
Un esempio su tutti è Jamal Murray. In difficoltà nel duello con Derrick White in gara-1, ha tirato fuori un quarto periodo fantascientifico in gara-2 (21 punti con 8/9 al tiro) per poi ritornare in ambasce nella terza partita. Da lì in poi è stato un crescendo, o meglio un ritorno, alla stagione regolare: la quinta è stata la partita in cui si è fatto sentire di più chiudendo con un ottimo 69.2 di defensive rating e +33 di plus/minus. Alla fine dei conti ha prodotto numeri simili a quelli fatti in regular season, e non era scontato che ci riuscisse.
Questo è un canestro importante soprattutto dal punto di vista mentale. Murray ha sofferto la marcatura di White, ha dovuto aumentare la sua aggressività in campo per potersi prendere i suoi tiri dal palleggio. Qui siamo ad un punto nella serie in cui l’avversario ormai non è più un ostacolo: Murray riceve da Harris in angolo, finta il tiro, parte con la sinistra e nonostante White sia bravo a rimanere con lui e l’equilibrio sia diventato instabile, il canadese tiene botta sicuro di sé. Il circus shot che ne viene fuori è la conseguenza di quanto Jamal sia in armonia con la partita.
Una freccia nel cielo disegnata dalla Blue Arrow.
Prima del non-fallo di Aldridge non bisogna dimenticare che c’era stato il canestro del definitivo +4, forse il più importante nella storia recente dei Nuggets. Il pick and roll con Jokic non aveva portato esiti anche per l’ottima rotazione di Forbes, allora la palla è tornata nuovamente a Murray che ha sfruttato un altro blocco del serbo, Aldridge è rimasto a metà del guado e Murray si è ritrovato due opzioni davanti a sé: o servire Jokic che stava tagliando forte verso il canestro, oppure andare al tiro. Ha scelto la seconda, alzando la parabola per evitare il ritorno del numero 12 neroargento. Tecnica, lettura, mentalità, sicurezza nei propri mezzi: il Murray delle prime tre partite - fatta eccezione per quello del quarto periodo di gara-2 dove ha fatto bambini con baffi e basettoni lunghi - questo canestro non l’avrebbe mai messo.
Dove è cambiata la serie
Altro fattore chiave è stato l’inserimento in quintetto base di Torrey Craig al posto di Will Barton. Il prodotto di South Carolina Upstate, finito in Australia perché in NBA non se l’era filato nessuno, è stata la carta che ha permesso a coach Mike Malone di alzare il tasso fisico della difesa. Entrato in quintetto in gara-4, Craig ha avuto un impatto sulle due vittorie successive che va ben oltre i numeri, per la sua capacità di essere reattivo sui cambi accoppiandosi con guardie e ali senza problemi. Ma soprattutto la sua marcatura personalizzata su DeMar DeRozan ha tolto alla guardia degli Spurs tanti canestri comodi che nelle prime tre gare la difesa Nuggets aveva generosamente concesso. È lui che lo ferma al ferro sul possesso che avrebbe riportato in gara gli Spurs con trenta secondi sul cronometro, segnando la vittoria di Denver più di quanto non farà il lapsus mentale di Aldridge poco dopo.
Ma come sempre questa Denver non può prescindere da Nikola Jokic. All’esordio nei playoff, il lungo serbo ha chiuso con 23.1 punti, 12.1 rimbalzi e 9.1 assist di media, più due triple doppie e una prestazione da 43 punti in gara-6. Un dominio ogni tanto limitato dalla difesa Spurs - meglio Jakob Poeltl di Aldridge su di lui - ma sostanzialmente inarrestabile, azione dopo azione dopo azione.
Godiamoci un concentrato di Jokicitudine. Tre momenti su tutti: a 0:22 il segnale che avrebbe messo qualunque cosa; a 1:26 esempio della connection con Murray alla quale la difesa Spurs si è dovuta fatalmente arrendersi; a 1:47 l’occasione per ribadire che non è il centro dei vostri padri.
Costretto a giocare l’intero quarto periodo, “The Joker” ha risposto con le solite letture raffinate in attacco, servendo i suoi esterni con precisi passaggi dietro la difesa o passaggi consegnati sempre in movimento. Ma soprattutto è stato presente ed efficace anche in difesa, contestando bene al ferro e gestendo i rimbalzi anche grazie all’indispensabile aiuto di un chirurgico Paul Millsap.
La serie con Portland porterà Denver ad affrontare situazioni diverse, soprattutto in difesa con i Blazers che quasi certamente avranno tra le opzioni primarie quella di forzare il cambio difensivo portando il corpaccione di Jokic contro la rapidità d’esecuzione di Damian Lillard e C.J. McCollum. Ciò che la serie contro gli Spurs deve aver insegnato ai Nuggets è che l’energia sul parquet non può calare, altrimenti i ragazzi di Malone si ritroverebbero a giocare a ritmi troppo bassi perfino per il loro sistema di passaggi e movimenti.
Cosa non ha funzionato per gli Spurs
I nodi di San Antonio, a lungo tenuti nascosti dalla brillantezza del loro coaching staff, alla fine sono venuti al pettine. Un attacco che ha le sue punte in DeRozan e Aldridge è un attacco portato ad intasarsi, a non trovare spazi tanto facilmente, e soprattutto a essere prevedibile. I due All-Star degli Spurs sono giocatori che amano calpestare le stesse zone, pur con un set di movimenti molto diverso, e questo inevitabilmente porta a un vicolo cieco. In regular season in qualche modo gli Spurs hanno trovato un modo per farli fruttare sfruttando l’esecuzione e la continuità di gioco, ma nei playoff era necessario tirare fuori tutta una nidiata di conigli dal cilindro per essere produttivi contro una difesa andata via via abituandosi alle iniziative dei neroargento. Derrick White ci ha provato e in parte ci è pure riuscito, ma poi la mossa di coach Malone di mettergli Harris e non Murray sulle sue tracce lo ha disinnescato. La panchina degli Spurs ha dato un contributo significativo specialmente in gara-6, ma poi è venuta meno nel momento del Win or Go Home. In larghi tratti della serie, poi, coach Popovich ha ballato tra un quintetto che gli dava tantissimo in attacco e quasi niente in difesa, e un altro quintetto che aveva l’effetto opposto.
Soprattutto, c’era bisogno che DeRozan non si presentasse in versione gemello scarso come successo negli anni a Toronto. E invece il numero 10 è stato a tratti irritante, intestardendosi in scelte che solo nella sua fantasia potevano portare a cose buone. Ha tentato una sola tripla in sette partite (e già questo potrebbe bastare a spiegare molte cose), ma c’è un altro dato eloquente: ai sesti playoff in carriera DeRozan ha chiuso ancora una volta con un Net Rating negativo. A 30 anni bisogna prendere atto di trovarci di fronte a un giocatore di altissimo livello che è tale fino a quando non si comincia a fare sul serio. Nonostante ciò i texani ripartiranno da lui, da Aldridge, da White, dal recupero di Dejounte Murray e magari da altri giocatori da pescare nel sottobosco e sviluppare, perché al momento non c’è un piano B che prometta soluzioni migliori. Aver centrato i playoff per il 22° anno consecutivo rimane un successo enorme, ma viene difficile immaginare che questo gruppo possa andare oltre il primo turno dei playoff anche negli anni a venire.
Data per morta troppo presto, Denver invece ha dimostrato di essere maturata in fretta e sulle spalle dei suoi giovani talenti ha finalmente sfatato il tabù playoff. La squadra del Colorado infatti non vinceva una serie dal lontano 2009, quando Carmelo Anthony e J.R. Smith la condussero fino in finale di Conference contro i Lakers di Kobe Bryant. Ora ai 1.600 metri d’altezza del Pepsi Center il panorama è un po’ diverso, ma si può tornare a respirare a pieni polmoni.