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Dennis Bergkamp e l'Inter, lost in translation
19 apr 2018
19 apr 2018
Storia delle incomprensioni fra il fenomeno olandese e il calcio italiano.
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All’esordio nella Coppa UEFA 1993/94 l’Inter si trova sull’1-1 contro il Rapid Bucarest. È reduce dalla prima sconfitta in campionato nella trasferta di Cagliari e il pallone pesa in modo particolare. All’ora di gioco Shalimov riceve palla da Bergomi, si gira e lascia andare un cross verso il centro dell’area di rigore. La zona è quella di Dennis Bergkamp, ma il pallone è arretrato e l’attaccante lo guarda, calcolandone la traiettoria con aria incerta. La maggior parte dei giocatori lo avrebbe stoppato, e invece Bergkamp si coordina per una mezza rovesciata da sogno. Colpisce la palla in modo perfettamente parallelo al terreno, mandandola a lato del portiere, che rimane fermo a guardarla entrare.

Il portiere ridotto a spettatore è uno dei grandi topos della carriera di Dennis Bergkamp. Il momento che restituisce un'immagine alla purezza eterea del suo talento, di una sensibilità tecnica che non sembrava di questa terra.

Bergkamp agita il pugno, salta sul posto, il ciuffo biondo esaltato dall’azzurro marino della maglia dell’Inter. Chiuderà poi la partita con una tripletta, segnata con un pallonetto di prima quando viene lanciato da solo verso il portiere in uscita. Quando uscirà dal campo il Meazza sarà tutto in piedi ad applaudirlo; Bruno Pizzul in telecronaca commenta: «Il giocatore c’è indubbiamente, bisogna trovare il modo di sfruttarne le grandi qualità nel modo migliore». Questa prestazione sembra poter lasciare alle spalle le incomprensioni iniziali fra Bergkamp e l’Inter.

È solo la prima di una serie di grandi prestazioni europee per Bergkamp, che guiderà con 8 gol la squadra fino ad alzare la seconda coppa UEFA della sua storia. In campionato, però, non giocherà mai così. La Serie A ha masticato e rigettato Dennis Bergkamp come un bidone qualsiasi. Diventato lo zimbello dei tifosi, la punch line più efficace della Gialappa’s Band in tv, il suo nome finisce per cambiare il titolo stesso della rubrica della Repubblica dedicata “all’asino della settimana”. Bergkamp diventa un’icona del talento bello e incompiuto, non abbastanza pratico da avere la meglio sulla grande arte difensiva italiana.

L’avventura all’Inter va così male che per un momento Bergkamp pensa persino ad un ritiro anticipato, prima di decidersi ad andare all’Arsenal e diventare uno dei più grandi giocatori della storia della Premier League. Uno dei più entusiasmanti da veder giocare, che sembrava racchiudere un mistero tecnico tutto suo.

In mezzo a una guerra santa

Il fallimento di Bergkamp esprime quello dell’Inter di quegli anni, che provava ad essere all’altezza del Milan a suon di colpi di mercato, ma senza riuscire a scegliere un progetto tecnico coerente. I due anni di Bergkamp in Italia, in effetti, sono molto di più della storia di un giocatore domato dal calcio italiano, sbocciato solo dopo la migrazione in Inghilterra. Sono anche una fotografia della realtà della Serie A dell’epoca, che dopo la rivoluzione sacchiana stava sperimentando tutti i modi e le forme del reflusso. Bergkamp ha dovuto scontrarsi con un vecchio modo di fare e pensare calcio.

Tommaso Pellizzari, sul Corriere della Sera, per fotografare la situazione ha parlato di una guerra di religione. Bergkamp ci si sarebbe ritrovato in mezzo, giocando però nella squadra che in questa guerra aveva scelto il lato per lui più scomodo. Se il Milan è la squadra internazionale che con Sacchi ha abbracciato il calcio moderno , l’Inter è quella ancora legata ad un calcio italiano pre-sacchiano: marcature a uomo o zona mista, libertà offensiva riservata ai singoli più talentuosi che dovevano finalizzare l’azione.

L’Inter aveva provato a replicare il successo di Sacchi attraverso Corrado Orrico, che però aveva fallito nel suo unico anno. A quel punto era arrivato un allenatore vecchia scuola come Osvaldo Bagnoli, che ha portato i nerazzurri al secondo posto in campionato, dietro al Milan. Il presidente dell’Inter, Ernesto Pellegrini, però vuole cambiare l'identità tattica del club, regalandogli una svolta più europea: vuole pressare alto e avere giocatori creativi. Per questo decide di puntare sul giovane talento più puro della nobile scuola dell’Ajax. Bergkamp a 24 anni era arrivato al culmine della sua parabola olandese ed era riconosciuto da tutti come uno dei grandi talenti al mondo. Per dire, era arrivato terzo al Pallone d’Oro 1992 e secondo nel 1993, proprio poche settimane prima dell’ufficialità del suo passaggio all’Inter.

L’acquisto di Bergkamp era stato ultimato già nel febbraio del 1993 per 15 miliardi di lire. Con lui è arrivato anche il compagno di squadra Wim Jonk con i soldi della cessione di Matthias Sammer al Dortmund, per un totale quindi di 25 miliardi versati all’Ajax. Da Amsterdam si parla di cifre diverse (42 miliardi per entrambi), ma è il presidente Pellegrini stesso in conferenza stampa che per primo aveva parlato di 25 miliardi. In ogni caso, tra cartellino e stipendio lordo di entrambi i giocatori, l’Inter arriva a pagare un totale di 60 miliardi nei tre anni di contratto previsti. C’è chi dice che Bergkamp abbia scelto l’Inter perché è stata l’unica squadra ad accettare di prendere anche Jonk con lui, ma è proprio il giocatore che da Amsterdam smentisce l’ipotesi. Come riporta La Repubblicanell’articolo di presentazione: «Non c'è stata nessuna pressione da parte mia, è stata una decisione presa autonomamente dall'Inter: comunque ritengo che, insieme, il nostro gioco si valorizzi ancora di più». Sempre Bergkamp aveva poi confermato di aver scelto l’Inter rispetto alla grande concorrenza europea: «L’Inter non è una seconda scelta. Posso confermare di aver avuto contatti con la Juventus, il Barcellona e il Real Madrid: ma da alcuni mesi ero arrivato alla decisione che il gioco dell'Inter è quello che più si avvicina alle mie caratteristiche. E poi stimo molto Bagnoli».

Le parole di Bergkamp possono stonare, ma nascondono in realtà una questione più profonda, soprattutto quando nomina il Barcellona. Nella sua biografia scritta con David Winner, Stillness and Speed: My Story (da cui provengono i virgolettati non diversamente specificati del pezzo) emerge come la decisione di Bergkamp sia stata meno ponderata di quanto possa sembrare: «Penso ci sia stato un filo che ha legato la mia vita, quello di aver preso tante grandi decisioni basandomi sulle sensazioni, sull’istinto. E questa è stata una di quelle».

Bergkamp, con il trasferimento già deciso da mesi, inizia a studiare l’italiano per corrispondenza. Viene da viene da 122 gol in 239 partite con l’Ajax, dove in 7 anni è diventato l’erede di Van Basten e il più promettente talento olandese della nuova generazione. Cruyff lo voleva al Barcellona: «Io sapevo che Johann mi voleva lì. Mi faceva allusioni al riguardo, ma non me l’ha mai detto direttamente, quindi io ho pensato che visto che non me lo chiedeva…». Cruyff era il plenipotenziario della migliore versione del Barcellona mai vista, il “Dream Team”, e aveva anche lasciato libero uno dei quattro slot per stranieri disponibili in rosa proprio per Bergkamp (gli altri tre erano Romario, Koeman e Stoichkov).

Bergkamp era stato l’ultimo dei figli prediletti di Cruyff, che ne aveva assistito alla crescita quando allenava l’Ajax e lo aveva poi fatto esordire in prima squadra. Una figura paterna, rispetto a cui Bergkamp ha poi esercitato il più classico dei meccanismi di rifiuto: «Pensavo: posso andare per l’opzione confortevole del Milan, o del Barcellona, o posso creare la mia avventura. Volevo fare qualcosa di nuovo, andare dove nessuno dall’Ajax era stato».

Bergkamp era un ragazzo ambizioso: «Per tanto tempo il mio cuore era fermo sull’Italia perché era assolutamente il miglior paese calcistico all’epoca». L’Inter lo sistema fuori da Milano in una casa sul lago di Annone, dove si trasferisce con la moglie. Nel garage della casa c’era una vecchia Ferrari, il proprietario, con cui Bergkamp aveva rapidamente stretto amicizia, gliela offre in regalo, a patto che segni almeno venti gol. L’anno prima ne aveva segnati 25 e accetta volentieri la scommessa. Dopo dirà con amarezza: «All’Ajax sapevi di avere 5 occasioni da gol a partita. All’Inter se eri fortunato ne avevi una».

Bergkamp non avrà mai quella Ferrari.

Dopo l’arrivo dei due olandesi, in aggiunta agli italiani Festa, Paganin e Dell’Anno per altri 24 miliardi, l’Inter era considerata la favorita per il titolo dopo anni di supremazia del Milan. Pellegrini è un presidente ambizioso che vuole, almeno a parole, giocare un calcio moderno. La fantasia si scontra però con la realtà: la rosa dell’Inter è fatta per un altro tipo di calcio. Per riassumere la situazione meglio ci sono le parole di Wim Jonk: «Se l’Inter ha speso così tanti soldi per due giocatori, sicuramente avranno un'idea, uno scopo, un piano. Ma non c’era alcun piano».

Giocare su un’isola

Osvaldo Bagnoli è un allenatore a cui piace un calcio verticale, era solito dire ai suoi giocatori che meno passaggi servivano per arrivare in porta, meglio era. Il suo ideale era di massimo quattro passaggi. Ai suoi portieri consigliava prima di tutto di vedere se la punta era libera al momento del rilancio. Parliamo quindi di un calcio totalmente diverso rispetto a quello in cui si è formato Bergkamp, dove con Van Gaal giocava vertice alto del rombo di centrocampo del 3-4-3. Un sistema dove può giocare fronte alla porta con almeno due opzioni di passaggio davanti. In una formazione brava a sfruttare sia l’ampiezza che la profondità, costruendogli attorno lo spazio dove poter operare muovendosi liberamente. All’Inter arriva in un contesto tattico in cui gli viene data altrettanta libertà di movimento, ma gli viene chiesto di farlo come seconda punta. Bergkamp ha quindi un solo giocatore davanti e la necessità di giocare spalle alla porta se vuole associarsi con gli altri compagni. L’unico che sembra capirne le esigenze è Jonk, ma non è abbastanza per metterlo a suo agio.

Nell’ultimo campionato che si gioca con i due punti in palio a vittoria, nella prima giornata l’Inter vince contro la Reggiana grazie a due gol estemporanei: una conclusione da una trentina di metri di Jonk al 15’ e un diagonale vincente di Schillaci su un lancio dal centrocampo. Nell’Inter a cui manca Ruben Sosa, ancora in Uruguay, la coppia d’attacco è formata da Bergkamp e Schillaci.

Amedeo Goria a 90°minuto parla di un Inter che si prende i suoi due punticini, ma a cui manca l’idea vincente e il cambio di passo dalla trequarti in su. Bergkamp si fa vedere solo con tre conclusioni da fuori, mentre il suo gioco spalle alla porta viene contrastato tranquillamente dalla Reggiana. A un certo punto, sulla trequarti, si prende una pausa per favorire il movimento di Schillaci, che però si infila in mezzo a due avversari e toglie la linea di passaggio; a quel punto l’olandese prova un pallonetto velleitario da fermo. Goria dice: «Bergkamp per ora si fa più intuire che applaudire, ma è un campione sicuro e con la sua prevedibile esplosione abbinata ad una migliore intesa con lo zelante Schillaci, non potrà che segnare e far segnare».

Bergkamp segna il suo primo gol alla terza giornata, contro la Cremonese. L’Inter arrivava da un pareggio contro il Foggia di Zeman e Osvaldo Bagnoli già non vuole più parlare con la stampa. Gli fanno sempre la stessa domanda e non ne può più: bisogna aspettarsi un’Inter dalla solita mentalità operaia, quella di Schillaci e Manicone, o quella ariosa e offensiva promessa dal presidente Pellegrini e dai due olandesi? Le prime due giornate non hanno sciolto i dubbi: a risolvere le partite era stato Schillaci e i due olandesi si notano più che altro per la loro solitudine.

Bergkamp segna con un tiro dalla distanza potente che entra in porta preciso a fil di palo, con Turci immobile a guardarlo entrare in porta. Bergkamp si inventa un tiro nel deserto tecnico, dopo una conduzione in diagonale dal centro della trequarti.

Nel resto della partita partecipa al gioco più come rifinitore, con Schillaci che si prende tutte le luci segnando il gol della vittoria e prendendo anche una traversa da fuori area. Il gran numero di tiri da fuori eseguiti dall’Inter dovrebbe far pensare Bagnoli, che al momento raccoglie frutti solo grazie ai due attaccanti. La vera brutta notizia è però che Nicola Berti si rompe il crociato: un infortunio che lo tiene fuori quasi tutta la stagione. Un’assenza pesantissima viste le doti di incursore del centrocampista, uniche in una formazione dal centrocampo bloccato.

Ancora oggi Bergkamp descrive quella situazione tattica con incredulità: «Mi guardo indietro e i miei difensori e i centrocampisti che non sono saliti stanno bloccati nella nostra metà campo. C’è un’enorme spazio tra le linee ed è uno spazio vuoto. E mi uccide. E uccide la squadra, perché quando perdi il pallone hai perso i quattro giocatori che stavano attaccando mentre il resto della squadra era fermo ad aspettare che l’avversario arrivi». Insomma, Bergkamp viene da un contesto tatticamente super organizzato, dove viene insegnato a pressare dopo la perdita del possesso fin dalle giovanili. Ora si trova a giocare per una squadra volutamente spezzata in due. Bergkamp paragona la sensazione del suo stare in campo a quella di ritrovarsi su un’isola.

Da quest’isola Bergkamp vede lo spazio attorno a sé e ha i mezzi tecnici per sfruttarlo, ma non trova giocatori che parlano la sua stessa lingua calcistica (a parte Jonk) e finisce per accartocciarsi in azioni sempre più manieriste, nel tentativo di risolvere da solo la situazione. Gioca su un piano parallelo a quello della squadra: lui vorrebbe associarsi, scambiarsi il pallone nello spazio che vede con i compagni. Ma i compagni non lo seguono, corrono ma seguendo altre direzioni e altri istinti. La squadra ha un’idea diversa del gioco, vogliono soltanto che lui, con la tecnica di cui dispone, faccia la giocata. Se non ci riesce tanto vale che corra come gli altri.

Con la prima partita di Coppa UEFA da giocare in settimana, la necessità di dare minuti in campo a Sosa e il momento di Schillaci in campionato, Bagnoli manda Bergkamp in panchina. Contro il Cagliari arriva la prima sconfitta stagionale e un punto di svolta per la stagione: l’Inter vuole essere una squadra offensiva e questo genera una transizione difensiva disordinata, che lascia troppo spesso la linea difensiva scoperta ai contropiede avversari.

Nel secondo tempo entra Bergkamp e la manovra nerazzurra migliora subito. Ora l’Inter ha finalmente un rifinitore in grado di dare pulizia tecnica sulla trequarti. Il Cagliari difende a uomo e l’incaricato di marcarlo è il mediano Bisoli. L’idea di entrare in modo aggressivo per fermarlo prima che possa passare la palla però aiuta Bergkamp, che può rubargli costantemente il tempo. Solo quando Bisoli capisce, o gli viene detto di cambiare strategia, di aspettarlo e contenerlo, la situazione cambia in modo radicale: comunque Bergkamp per ricevere il pallone deve muoversi verso il centrocampo, ma ora è costretto a cederlo subito ai compagni giocando ad un tocco, cosa che ne limita la pericolosità perché troppo lontano dall’area.

La sconfitta di Cagliari è l’inizio di un campionato difficilissimo per l’Inter, probabilmente il peggiore della sua storia: chiuso al tredicesimo posto con 14 sconfitte e 45 gol subiti. Ma è anche la partita in cui il modo per fermare Bergkamp è tracciato e segnerà la sua esperienza in Italia: gli avversari lo marcano a uomo senza però attaccarlo, isolandolo quindi dai compagni e portandolo a chiudersi sempre di più in se stesso. Da lì si scopre la sua incompatibilità con il compagno di reparto Sousa, la sua incapacità di far parte del gruppo in un momento di sofferenza.

La prima vittoria fuori casa arriva solo contro l’Udinese alla nona giornata, grazie ad un gol di Sosa da fuori area. Una vittoria fondamentale per una squadra però ormai al quinto posto. L’Inter non riesce a vincere più di due partite consecutive e perde il derby all’undicesima giornata, proprio quando sembrava aver trovato un minimo di continuità, dicendo addio alle speranze di un campionato di vertice. Bergkamp diventa un caso politico, pomo della discordia tra l’allenatore e il presidente Pellegrini.

Inadeguatezza

La Coppa UEFA tiene a galla Bagnoli, grazie anche a Bergkamp, che in Europa è tutto un altro giocatore. Contro l’Apollon Limassol nei sedicesimi segna il suo secondo pallonetto della competizione per dare la vittoria all’Inter. C’è un suo gol anche nel 3-3 del ritorno. Segna sia all’andata che al ritorno nelle due vittorie per 1-0 contro il Norwich agli ottavi. Il primo su rigore, il secondo con una bellissima percussione solitaria, a cui segue un’altra esecuzione tecnicamente perfetta.

Secondo Bagnoli, interpellato sempre per il libro di Winner, i problemi di Bergkamp nascono fuori dal campo. Il tecnico fa l’esempio della paura di volare, condivisa tra i due, ma se per Bagnoli questo non significava non prendere proprio l’aereo, per Bergkamp sì. Per Bagnoli Bergkamp non era adatto a scendere a compromessi con un contesto culturale così diverso da quello in cui è nato: «Sono passato dalla comfort zone dell’Ajax, gioiosa, piena di creatività, calorosa e giovanile a quest’atmosfera noiosa e di lavoro. Improvvisamente era un lavoro di quelli dalle nove alle cinque con tutti i giocatori che giravano con i musi lunghi. Dicevo: andiamo, facciamo una bella partita. E loro mi rispondevano: no, puntiamo ad un buon risultato». Eppure era stata una sua scelta, quella di andare in un posto poco confortevole, che lo mettesse alla prova.

All’inizio della stagione i compagni provano a includerlo nel gruppo. Bergkamp racconta di una trasferta in cui Fontolan, Bergomi e Paganin cercano di usare i guanti: «prova ad approcciarti in modo leggermente diverso, prova a correre di più. Inizia così. Noi non ci aspettiamo che tu segni tre gol a partita, ma mettici un po’ più di impegno in campo». Un discorso che colpisce molto Bergkamp, che fino ad allora non si era mai aperto con il gruppo. La richiesta dei compagni però, quella di un maggiore impegno, dimostra la differenza culturale fra Italia e Olanda. Se all’Ajax Bergkamp doveva risolvere i problemi attraverso il gioco, dal punto di vista tecnico, all’Inter gli chiedono di correre di più, di stare più attento difensivamente. Bergkamp e l’Italia parlano due lingue differenti.

Riccardo Ferri, uno dei pretoriani dello spogliatoio dell’Inter, era anche uno dei più duri nei confronti di Bergkamp. Ma secondo lui la colpa è dell’assenza di progettualità dell’Inter, non di Bergkamp: «I tifosi si aspettavano che Dennis fosse come Van Basten. Ma se Van Basten fosse andato all’Inter e Dennis al Milan, sarebbe successo al contrario. Dennis sarebbe stato una stella al Milan e Van Basten avrebbe fallito all’Inter. Non avrebbe fatto meglio di Dennis in quel periodo».

Bergomi, sempre parlandocon Winner, cerca innanzitutto di smentire l’idea di Bergkamp all’Inter come fallimento, citando la sua importanza nella vittoria della Coppa UEFA. Poi ammette che il problema è stato lo choc culturale, comune per i giocatori che vanno via dall’Ajax: «Dopo l’Ajax è particolarmente difficile. Sei molto giovane, hai una mentalità diversa e hai bisogno di pazienza. E l’Inter non è stata paziente abbastanza con Dennis, perché non aveva vinto da tanti anni e continuava a cambiare strategia ogni anno. Volevano risultati immediati». Anche per i media Bergkamp era un alieno. Abituati agli olandesi del Milan, si trovano con poche chiavi di lettura per interpretare la stagione di Bergkamp in campionato e poi in Coppa UEFA. Come ha detto a FourFourTwo: «Si aspettavano che parlassi con loro ogni giorno. Ma se c’era la partita la domenica avrei parlato il lunedì, non certo anche il martedì e il mercoledì».

Il suo rapporto con Sousa è un microcosmo di tutta l’esperienza italiana, sia in campo che fuori. Sosa è una prima punta dall’ottima tecnica, ma spoglio di qualsiasi tipo di gioco fuori dall’area di rigore o in generale in rapporto con la squadra. Gli interessa solo fare gol, e lo fa anche molto bene, ma non si spende in movimenti per aiutare la manovra e non si associa con i compagni. Una tipologia di punta comune negli anni ’90, che però non si sposa per niente con chi, come Bergkamp, vede il calcio in rapporto ai compagni, e che ha bisogno di associarsi perché incapace di rapportarsi solo allo spazio: Sosa è interessato solo al movimento verso la porta e, per quanto ci provi, Bergkamp non può limitare il suo calcio al filtrante per il compagno. Bergkamp vuole giocare ad un tocco creando triangoli, vuole utilizzare la pausa per disordinare gli avversari, vuole coinvolgere anche chi gli sta attorno. Sosa vuole dribblare l’avversario e tirare in porta: due modi opposti di vedere il calcio. Nell’ambiente circolava l’idea che Bergkamp e Sosa non si passassero la palla perché avessero litigato: «Con Ruben Sosa avremmo potuto associarci meglio, dato che eravamo le due punte. Non abbiamo mai trovato l’intesa sul campo, fuori non c’è mai stato un problema».

Il carattere spigoloso e introverso di Bergkamp si scontrava con quello aperto e giocoso di Sosa, capace di fare gruppo con tutti. Sosa è arrivato a definire Bergkamp come un giocatore “solitario e strano”: «Non rideva, non parlava, non passava la palla». Ancora adesso Sosa è l’unico compagno di cui Bergkamp mantiene un’idea precisa e negativa: Sosa è stato l’unico giocatore che non ho mai pensato di poter migliorare, ed è l’unico con cui ho giocato che ero sicuro non potesse migliorare me, né la squadra». Per spiegarsi meglio fa un esempio di campo: «Sono lì davanti con Ruben Sosa e ogni partita siamo in due contro cinque difensori. A volte uno dei centrocampisti sale. Fantastico, ora siamo tre contro cinque. Ma dove sto correndo? Dove sono le linee di passaggio? Cosa sto facendo con l’altro attaccante con cui non ho un’intesa?»,

I compagni però stanno dalla parte di Sosa, che a fine anno avrà segnato 16 gol in campionato e che risolveva la partita più di Bergkamp. L’olandese del resto rimane isolato nella sua villa al lago. Massimo Paganin e Paolo Tramezzani sono i gli unici due giocatori italiani nello spogliatoio con cui stringe un rapporto stretto. Forse perché sono suoi coetanei (entrambi un anno più giovani) e con loro non si sente continuamente giudicato.

Bergkamp non è l’unico dei problemi però, visto che dopo la sconfitta con la Lazio per 2-1 con un gol di Di Matteo al novantesimo, Bagnoli viene esonerato e al suo posto viene messo Giampiero Marini, l’allenatore delle giovanili. Il cambio di panchina non porta i risultati sperati: la squadra perde due delle tre partite successive, pareggiando quella in mezzo. La prima vittoria arriva con l’Udinese alla ventiseiesima giornata, ancora grazie ad un gol di Sosa come all’andata, ma da lì ci sono altre quattro sconfitte consecutive, tra cui quelle dolorosissime contro il Milan con un autogol di Bergomi e la Juventus con un autogol di Ferri. Bergkamp non segna in campionato dal 19 gennaio contro il Foggia. Si sblocca il 4 aprile contro il Lecce su rigore, ma non segnerà più da quel momento.

Nel frattempo il ritorno di Nicola Berti aiuta la squadra, che ritrova un giocatore in grado di accompagnare l’azione in area di rigore. L’Inter arriva a tre giornate dalla fine ottava in classifica, ma a 3 punti dalla zona retrocessione (in un campionato a 18 squadre segnata quindi dalla Reggiana quindicesimo in classifica).

L’Inter deve giocare la semifinale di Coppa UEFA contro il Cagliari - dove perde persino l’andata - e poi la doppia finale contro il Salisburgo, ma nel mezzo deve assicurarsi la permanenza in Serie A. L’Inter perde due partite su tre in campionato, pareggiando solo contro la Roma, mentre la Reggiana ne vince due su tre. Il Piacenza però. quattordicesimo a 2 punti dall’Inter, non vince neanche una delle tre partite e finisce in Serie B.

In uno stadio in contestazione, l’Inter batte il Salisburgo con i gol di Berti all’andata e di Jonk al ritorno. Mentre Bergomi alza la coppa, a parlare ai microfoni è Dennis Bergkamp a cui però non vengono fatte le classiche domande celebrative di rito, ma come si sente dopo tante critiche: «Quando giochiamo come abbiamo fatto in Coppa UEFA siamo forti. Adesso sono contento perché abbiamo vinto qualcosa». Alla fine della prima stagione Bergkamp avrà giocato 48 partite totali, segnando 18 gol, di cui 8 in Coppa UEFA: miglior marcatore della squadra.

Bergkamp e il compagno più fidato, Jonk, esultano in finale di Coppa UEFA. Foto di Shaun Botterill / Getty Images.

La stagione successiva è un anno di passaggio storico per l’Inter. A febbraio Massimo Moratti acquista la squadra, facendo tornare la famiglia Moratti proprietaria dell’Inter. La squadra si trova immediatamente con una grande disponibilità economica, ma non può sfruttarla se non dall’estate successiva. In estate la squadra viene affidata ad Ottavio Bianchi ma la rosa cambia poco: con Zenga e Ferri che lasciano dopo più di un decennio nell’Inter e con loro, tra gli altri, Shalimov, Battistini e Schillaci. Per sostituire Zenga arriva il portiere titolare dell’Italia al Mondiale, Pagliuca, e per sostituire Schillaci torna dal prestito uno dei grandi bomber d’Europa, Darko Pancev.

La seconda stagione a Milano di Bergkamp doveva essere quella del riscatto, e invece è quella che segna la sua carriera. Il suo soprannome in Italia era “l’olandese volante”, che poi gli si ritorce contro comicamente quando decide di non prendere mai più l’aereo. La decisione nasce in estate, dopo i Mondiali di USA 94: nonostante Bergkamp abbia giocato un ottimo torneo (con tanto di gol sia agli ottavi che ai quarti), torna dagli Stati Uniti quasi traumatizzato dal caldo asfissiante e dalle trasferte infinite in aereo.

L’ultimo aereo che prende volontariamente nella sua vita è quello del febbraio ’95 per la trasferta contro la Fiorentina. Durante le partite Bergkamp dice di guardare le nuvole in cielo, domandandosi se avrebbero portato turbolenze al ritorno. Da Firenze Bergkamp chiama la moglie per chiederle di venirlo a prendere e tornare in macchina insieme. A quel punto prende tempo, cerca le parole per dirlo alla società, e poi comunica la sua decisione. «Il Mondiale in America mi aveva prosciugato e penso che il problema con il volo sia da legare proprio a quel periodo. Mi impediva di godermi il calcio, quindi avevo bisogno di prendere una decisione: andare in terapia per mesi o anni, oppure solo giocare a calcio andando da un’altra parte». Prima di arrivare al momento dell’addio c’è una stagione travagliata da consumare con Ottavio Bianchi.

Ci sono le solite promesse estive di gioco offensivo: Bianchi prova nelle prime due amichevoli di precampionato ad impostare una squadra che pressa alta. Dopo aver analizzato le due prestazioni decide però di non continuare su quella strada, ricalibrando l’Inter sulla propria identità verticale. Ottavio Bianchi è l’allenatore del primo scudetto e della Coppa UEFA del Napoli di Maradona, una persona pragmatica che non ha un carattere compatibile con Bergkamp: troppo diretto, troppo poco incline al compromesso e, a detta di Bergkamp, parla tutto il tempo dei bei tempi con Maradona.

L’Inter gioca un campionato dimesso, molto più tranquillo rispetto alla stagione precedente, ma privo di picchi significativi - se escludiamo il derby vinto contro il Milan per 3-1. Chiude sesta in classifica, ultimo posto disponibile per la Coppa UEFA. Bergkamp inizia segnando già alla prima giornata, contro il Torino nel finale di una gara dove l’Inter sta già vincendo 1-0. In campionato però, da quel momento, non segna più fino alla partita con il Foggia a marzo. Parliamo di 23 giornate dopo. Nel frattempo arrivano fischi dagli spalti: l’Inter è uscita al primo turno della Coppa UEFA contro l’Aston Villa e dalla Coppa Italia contro il Foggia ai quarti di finale. In totale arriva a giocare esattamente la metà delle partite rispetto alla stagione precedente (24) e segna 4 gol. L’ultima rete con la maglia dell’Inter arriva il 7 maggio del 1995 contro il Napoli al San Paolo, in cui da solo, partendo dalla sua metà campo, si fa quaranta metri di conduzione contro i tre difensori avversari, prima di scaricare in porta da fuori area. Un gol di pura forza di volontà, quasi una reazione rabbiosa a una stagione anemica.

La relazione tra Bergkamp e Bianchi non decolla mai, ma si incrina definitivamente quando il giocatore decide di tornare ad Amsterdam durante la pausa invernale per farsi curare un fastidio ricorrente all’inguine che gli aveva fatto saltare tutto novembre e dicembre. L'olandese ha preferito partite invece di continuare i trattamenti a Milano sotto la supervisione dell’Inter. Per il tecnico è inaccettabile lasciare l’Italia in un momento così delicato della stagione, ignorando peraltro i medici della società. Al ritorno in Italia li aspetta una chiacchierata a quattrocchi nell’ufficio di Bianchi: l’allenatore lo accusa di non impegnarsi abbastanza, di non lavorare duro abbastanza e di mancare di rispetto. Il giocatore risponde a tono e decide che tra i due è finita. Bianchi non è certo in ottimi rapporti con il resto dello spogliatoio, ma gli italiani lo rispettano. A Bergkamp invece certe cose lo fanno impazzire, come l’abitudine di Bianchi di giocare a tennis dopo pranzo, lasciando gli allenamenti al suo assistente.

Moratti a fine stagione gli promette dei grandi cambiamenti nella rosa, ma lo avverte anche del fatto che Bianchi resterà al suo posto. È forse uno dei motivi che lo porteranno a lasciare Milano. Come ha detto a FourFourTwo: «Alla fine del secondo anno mi ha detto che ci sarebbero stati dei cambiamenti. Io ho deciso che non volevo aspettare». A Londra trova un clima più rilassato e una squadra che gli permette di non viaggiare in aereo. Viene venduto all’Arsenal per 19.2 miliardi di lire, una cifra inferiore a quanto pagato e che suonerà ridicola a distanza di tanti, folgoranti anni.

Bergkamp ama ancora ancora parlare spesso del suo flop italiano. Il suo rapporto con l’Italia è ancora non sanato, c’è una nota di rammarico quando guarda ai due anni all’Inter: «Amavo tanto il paese e la mia vita personale non sarebbe potuta andare meglio». Bergkamp prova a razionalizzare il fallimento, mettendolo nella prospettiva di una crescita personale: «Ho imparato ad essere più professionale, ho imparato a giocare contro due o tre difensori e con chi era in campo più per loro stessi che per la squadra».

Bergkamp ha rappresentato forse l’ideale della scuola calcistica olandese: un attaccante che vive leggendo gli spazi attorno a sé e che con la sua tecnica sopraffina può coinvolgere e unire tutti quanti i punti in campo. Non è un caso se è stato pupillo sia di Cruyff che di Van Gaal. Della sua esperienza all’Inter rimangono pochi, bellissimi gol, oltre alla sensazione che non fosse pronto per l’Italia, come l’Italia non era pronta per lui. Il suo calcio si è perso nella traduzione tra due mondi che avevano trovato un contatto solo nel Milan di Sacchi. La storia dell’insuccesso di Bergkamp è l’ennesima conferma dell’importanza del contesto per l’espressione di un talento, qualunque sia la sua grandezza.

Se avesse scelto una squadra più vicina al suo calcio, o se magari fosse arrivato in Italia negli anni della maturità, sarebbe stata tutta un’altra storia.

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