Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Davvero in Italia preferiamo i giocatori grossi a quelli tecnici?
10 ott 2025
Lo ha detto Del Piero in televisione, ha ragione?
(articolo)
13 min
(copertina)
IMAGO / Colorsport
(copertina) IMAGO / Colorsport
Dark mode
(ON)

Domenica, negli studi di Sky, Alessandro Del Piero ha lanciato un accorato appello sulla scomparsa della tecnica nel calcio italiano. «La mentalità è cambiata, già negli ultimi anni di Juve me ne stavo accorgendo. Noi li vogliamo grandi e grossi, non giriamoci attorno alle cose. Noi vogliamo giocatori grandi, grossi e veloci. Punto. Perché il calcio è grande, grosso e veloce. In Francia sono così, Inghilterra è così. In Italia noi siamo sempre stati i più bravi perché abbiamo visto qualcosa di diverso dagli altri, sul talento, sulla tecnica».

La dichiarazione ha circolato molto e ha fatto discutere. È un'argomentazione un po' generica, da salotto tv, ma ha la forza di farci riflettere, specie se a dirla è uno dei giocatori più tecnici della storia del calcio italiano. Uno capace di queste cose.

QUALE FORZA FISICA?
È un’argomentazione che non nasce dal nulla; l’ossessione del calcio italiano per la forza fisica è sempre più evidente, e supportata anche da qualche dato. È di qualche settimana fa un report del CIES piuttosto impressionante. Misurando le squadre più alte del mondo, due delle prime tre sono italiane. Il Cagliari è primo, l’Atalanta terza. L’Italia è il Paese più rappresentato all’interno della top-20, dove piazza ben quattro squadre. Per qualche ragione questa classifica è riuscita a non tenere conto dell’Udinese, su cui però possiamo vantare per lo meno un’impressione empirica di squadra formata da uomini che somigliano a edifici. La Serie A è il campionato con l’altezza media più alta: un centimetro più della Premier League.

Eppure l’Italia non è certo uno dei Paesi più alti del mondo. A 174 centimetri di altezza media, è il 79esimo paese più alto al mondo. È ovviamente dietro a ciascuna delle nazioni dei cinque principali campionati. Sarebbe facile quindi leggere una logica compensativa: compro quello che non sono e che non posso avere, cioè altezza e forza fisica. Un senso di subalternità che nel calcio italiano ha le sue radici forse in Gianni Brera, secondo cui i piccoli e malnutriti “italianuzzi” non potevano permettersi di giocare a viso aperto contro le grandi potenze straniere. Il “catenaccio” allora come modo per rimediare ai propri limiti fisici attraverso astuzia e dedizione. Per Brera esiste dunque una radice etnica nel nostro gioco, ma anche storica.

"Alla fine degli anni quaranta l’Italia è un popolo che si arrangia. Abbiamo tradito i tedeschi e siamo stati accettati dagli americani, che infatti ci hanno trattato come nemici. Abbiamo navigato nel mezzo, prendendo i colpi di due eserciti, cercando di sfuggire a due nemici senza riuscire a essere un alleato vero di nessuno (…) Se davvero il calcio esprime quello che un popolo è e sente in quel momento storico, è abbastanza naturale che nasca il difensivismo e si sviluppi da noi proprio il contro gioco, il calcio sorpresa, che prende alle spalle, un gioco algido e semplice da cui inizia un’avventura tecnica universale".

Come si concilia, però, questa ossessione per i corpi mastodontici dei calciatori col fatto che il campionato italiano è così poco intenso? Se abbiamo comprato giocatori atleticamente formidabili dovremmo trasformare le partite in allucinazioni di ritmo e velocità . Mega-robottoni che si scontrano in mezzo al campo sfrecciando col Nos ai piedi. E invece osserviamo queste meste partite coreografate, simili a battaglie settecentesche, fronteggiamenti cerebrali e strategici in cui conta soprattutto non sbagliare.

Le partite sono compassate e con pochissime transizioni, e continuiamo a comprare giocatori “grossi” come le nostre nonne riempivano le dispense e i freezer di provviste alimentari per riflesso involontario dell’epoca di guerra in cui c’era poco cibo. Un campionato così lento che un quarantenne come Modric sembra correre più degli altri.

L’impressione è che nel calcio italiano ci sia un’idea molto specifica e parziale di forza fisica. Un’idea quantitativa più che qualitativa: cioè quanto è alto e quanto è spesso un calciatore. Quanti duelli corpo a corpo riesce a vincere - come se il calcio fosse il sumo, e non uno sport dinamico e di situazioni. Un’idea di forza fisica da mercato del bestiame, in cui i calciatori si comprano e vendono al chilo, ed è forte chi sembra forte. D'altra parte, sono celebri i paragoni di Allegri tra i calciatori e i cavalli, e anche Walter Sabatini, che idealmente dovrebbe essere all'opposto, ha detto che alcuni giocatori li ha comprati da come muovevano le gambe.

È un’idea ovviamente molto parziale, superficiale e poco olistica; un’idea cioè che concepisce la forza fisica come valore in sé, astratto e non applicato.

Luigi Febbrari in un’intervista ha raccontato di una conversazione con Paco Seirulo, storico preparatore del Barcellona, che lo provocò: «Perché fate sgobbare i giocatori come somari se poi in campo contro di noi non si vede?».

Naturalmente c’entra la tecnica, che poi è il cuore del discorso di Del Piero, ma anche un’idea distorta di forza fisica.

Il PSG ha vinto di recente la Champions League con un centrocampo formato da Joao Neres e Vitinha: una coppia che non arriva al metro e 75. Naturalmente si tratta di due giocatori tecnicamente fenomenali che giocano in una squadra che vuole dominare col pallone, però la loro forza fisica è sottovalutata. La capacità di coprire il campo, vincere i duelli attraverso rapidità ed elettricità. La rapidità di gambe quando il campo si restringe. Si parla sempre del palleggio di questi giocatori, ma bisogna guardare al lavoro difensivo di Joao Neves, per esempio, tra i migliori lo scorso anno per pressioni, contrasti, palle recuperate. Un lavoro supportato da una dimensione fisica non ordinaria.

Quando c’è da rubare palla in avanti, recuperare all’indietro, andare in tackle, Joao Neves è un mediano difensivo d’élite.

In estate il Liverpool ha investito 85 milioni di euro per rifare la propria batteria di terzini. Milos Kerkez è alto un metro e 80, Jeremie Frimpong un metro e 72. Nessuno però si sognerebbe di non definirli dei terzini atleticamente dominanti. Non si tratta solo di quanto corrono ma di come corrono. La quantità dei loro sprint, ma anche l’intensità. La loro velocità, e la capacità di replicarla sull’esterno come se fosse un bene illimitato. Riguardo Milos Kerkez The Athletic ha dovuto buttar giù uno schema per misurare l’impatto tattico del bombardamento di sovrapposizioni che l'ungherese proponeva al Bournemouth.

Anche per quanto riguarda i giocatori offensivi c’è un equivoco di forza fisica scambiata per peso e altezza. Il Manchester City aveva l’altezza media minore di tutta la Premier League, nella scorsa stagione, ma nessuno si sognerebbe di considerarla una squadra “poco fisica”. Alcuni dei giocatori che certamente abbassano la media, come Foden e Doku, pur avendo uno stile basato soprattutto sulla tecnica col pallone, sono eccezionali anche dal punto di vista atletico. Phil Foden sembra uno scheletro che si porta dietro un impalpabile strato di pelle, eppure la rapidità con cui muove le gambe, acquista velocità in uno spazio risicato, è una qualità fisica.

A ben vedere, ad alcuni dei talenti offensivi italiani emersi negli ultimi anni, manca proprio questo tipo di elettricità fisica, più che la qualità tecnica: Pafundi, Baldanzi, Liberali, Samuele Vignato, sono tutti giocatori tecnicamente di alto livello ma con difetti atletici. Non per mancanza d’altezza, ma di velocità, rapidità sui primi passi, forza nelle gambe nei duelli. (Talvolta, però, mi pare che queste qualità vengano in parte sottovalutate, come nel caso di Baldanzi, un giocatore incapace di mangiarsi il campo in velocità, ma rapido e forte nei duelli in campo piccolo. Una qualità che però interessa poco nel calcio italiano, visto che tutti vogliono attaccare in un campo grande).

Per semplificare, c’è un fraintendimento tra fisicità e atletismo. Il calcio italiano è ossessionato dalla fisicità, ma manca di atletismo - un termine ombrello che usiamo per comodità, e che può tenere insieme qualità molto diverse come l’agilità, l’elasticità, la velocità in spazi stretti, l'intensità con cui si va a duello. Per essere ancora un po’ più specifici, mi pare che aspetto fisico e tecnico vengano concepiti in modo slegato, nonostante nel calcio vediamo sempre fisicità e tecniche applicate, e ovviamente saldate l’una nell’altra. Entrambe le dimensioni hanno a che fare con un “saper fare” applicato alle situazioni, che sono sempre contestuali e dinamiche, mentre mi sembra ci sia un’idea di tecnica come “saper trattare il pallone” e un’idea di fisico come somma di chili e centimetri. Forse è per questo che continuiamo a produrre calciatori enormi che sanno fare poco col pallone, oppure trequartisti tecnici ma miniaturizzati. Il discorso, insomma, è molto più complesso e le dimensioni fisiche e tecniche non andrebbero prese come compartimenti stagni. C'è un problema di concetto, di come vediamo il calcio: il fisico, ma anche la tecnica.

MA DAVVERO L’ITALIA UN TEMPO ERA PIÙ TECNICA?
Nel discorso di Del Piero c’è una persistente narrazione di decadenza. L’idea che il calcio italiano stia vivendo una fase di crisi rispetto a un passato glorioso. È una narrazione che sarebbe da pazzi negare: l’Italia non si è qualificata per due Mondiali di seguito e rischia concretamente che diventino tre - e questo nonostante sia una delle squadre ad averne di più nella storia. Qualsiasi persona di buon senso può collegare questa decadenza alla dissipazione di un patrimonio tecnico. L’Italia non produce più giocatori offensivi di alto livello, soprattutto ali che dribblano, o mezzali e trequartisti creativi. È qualcosa che ripetiamo spesso dentro Ultimo Uomo: in Italia nessuno dribbla (lo scriveva quasi sei anni fa per esempio Emanuele Mongiardo) e le partite di Serie A somigliano spesso a enormi simulazioni dal vivo di Subbuteo (Antonio Conte, in effetti, ha raccontato di studiare i propri schemi proprio al tavolo da Subbuteo).

Secondo Del Piero l’occhio sul talento e sulla tecnica ce lo ha rubato la Spagna. A me sembra in realtà che l’Italia non abbia mai tenuto in particolare in considerazione i giocatori tecnici, considerati storicamente come un lusso da dosare con accortezza. Il discorso di Del Piero sembra riflettere più che altro la grande epica dei numeri dieci di cui è intriso il calcio italiano. La storia del calcio italiano può anche essere letta come si fa con la storia delle casate monarchiche: una sequenza di nomi che avevano il compito di portare alta la fiamma della tecnica. Meazza, Mazzola, Rivera, Antognoni, Baggio, Del Piero, Totti, Cassano. Ciascun di loro ha rappresentato il genio a cui delegare completamente le speranze offensive, e lo spazio era solo per uno. È il paese della “staffetta” tra numeri dieci, e in cui il calciatore più tecnico della nostra storia - Gianni Rivera - era apertamente dileggiato dal nostro più importante giornalista, Gianni Brera (sebbene bonariamente e con grande stima).

La presenza dei numeri dieci più che segnalarci l’importanza della tecnica nel calcio italiano dovrebbe dimostrare il contrario, e cioè che la tecnica nel calcio italiano era considerata comunque riservata a pochi. Invece questi dieci vengono citati per sostenere l’idea che un tempo il calcio italiano era più tecnico tout-court.

L’Italia, però, non ha quasi mai giocato un calcio basato sulla tecnica e il palleggio e di sicuro non ha mai giocato come la Spagna, e mai negli anni ’90. Totti e Del Piero dovevano alternarsi in campo, e poco prima con Sacchi si era insinuata persino l’idea di far fuori Baggio. Fu ovviamente un’eresia lungamente dibattuta a livello popolare: l’idea vagamente totalitaria che nel calcio non ci potesse essere alcun individuo diverso dagli altri. Tutti devono lavorare per la squadra, collettivamente. Un conflitto risolto come sempre succede in Italia, ovvero col compromesso. Negli anni ’90, nei 4-4-2 della tradizione, il numero dieci era confinato sull’esterno sinistro o schierato mal volentieri da seconda punta.

Insomma: non c’è mai stata un’idea di tecnica diffusa nel nostro calcio, che non ha mai prodotto una gran quantità di giocatori tecnicamente dotati. Quello che semmai è cambiato è che quell’idea di Sacchi ha annullato la concezione vagamente “fordista” del calcio italiano. L’idea cioè che ci sono giocatori che difendono, altri che corrono, uno che fa gol, e uno che fa il genio e può tutto. Carlo Ancelotti, sacchiano ortodosso, nel suo passaggio a Parma buttò sul rogo due numeri dieci come Zola e Baggio (lui stesso recentemente se n'è pentito definendosi «un talebano»). Il primo costretto ad andare a giocare in Inghilterra, il secondo scartato in fase di calciomercato. Di recente Zola ha attribuito proprio a Sacchi la “colpa” di aver estirpato i numeri dieci, e Del Piero gli ha dato ragione in un’intervista al Corriere della Sera: «Zola ha ragione: in quel tempo è nato un calcio diverso, in cui la priorità è correre. Correre e rispettare canoni tattici molto importanti e molto rigidi».

Sappiamo che Ancelotti poi cambiò grazie a Zidane, e nonostante l’idea “sacchiana” abbia finito per trionfare, Guardiola ha reintrodotto l’importanza fondamentale della tecnica in un calcio molto organizzato. Il pensiero italiano, però, ha continuato a pensare il calcio a compartimenti ben separati tra loro: la tecnica, il fisico, la tattica. E così per interpretare la recente decadenza del calcio italiano si dice, alternativamente, che è colpa della troppa attenzione al “fisico” o della troppa attenzione alla “tattica”, che fanno sparire la tecnica.

Del Piero ha detto che è colpa dell’eccessiva attenzione al fisico, Allegri qualche anno fa disse che è colpa della tattica, se non nascono più campioni. C'è anche un'idea sotterranea che la tecnica non sia "allenabile" e non abbia a che fare con una competenza; che sia un dono da coltivare in libertà e che arrivi direttamente da Dio. In realtà anche nei grandi campioni, quelli che associamo più facilmente a un'idea di genio, è difficile separare in modo netto parte fisica e tecnica (escludendo per un momento la parte cognitiva...). Il calcio di Lamine Yamal o di Neymar nasce ovviamente dal loro modo di vedere il calcio, e dalla loro abilità nell'usare il corpo in rapporto al pallone. La leggerezza e l'agilità con cui si muovono, in senso fisico, resta però imprescindibile; come del resto la forza e l'elettricità delle gambe di Messi. (Forse è un altro sintomo del vizio italiano di tener separato tutto, tipo scienze dure e scienze umane).

Mi sembra che quando continuiamo a invocare i giocatori tecnici, o i numeri dieci, in realtà in molti hanno in mente semplicemente dei fenomeni, cioè dei giocatori offensivi con un talento sopra le righe. Allora forse ha ragione più che altro Nesta, quando ospite da Gazzoli ha indicato nella mancanza di «giocatori offensivi che alzano il livello» la vera differenza tra questa Italia e la sua.

Mi pare interessante che ad aver dato ragione a Del Piero sia stato Gian Piero Gasperini, celebre in Italia soprattutto per la forza fisica delle sue squadre. Forse l’allenatore italiano più bravo a forgiare squadre fisicamente dominanti. Gasperini è anche uno degli allenatori più influenti del calcio italiano negli ultimi anni e le sue marcature a uomo sono diventate egemoniche nel nostro campionato. Gasperini però in Italia è stato recepito soprattutto in senso conservativo. La sua lezione si è diffusa soprattutto per la parte distruttiva - le marcature a uomo, l’attenzione ai duelli e all’atletismo - tralasciando altri aspetti. Per esempio il coraggio e i rischi che le sue squadre si prendono in fase di non possesso, la quantità di giocatori che occupano l’area e salgono sopra la linea della palla, e soprattutto l’importanza della tecnica nell’economia delle sue squadre. La sua Atalanta ha sempre avuto nei due trequartisti due giocatori tecnici e spesso di grande raffinatezza nelle letture. La sua squadra è stata quasi sempre sul podio tra le squadre che dribblavano di più e forse nessun allenatore è riuscito come lui in Serie A a plasmare giocatori offensivi di livello: Suso, Gomez, Ilicic, CDK, Soulè.

Di sicuro la provocazione di Del Piero tocca dei nervi scoperti, ma nella nostra diffidenza verso la tecnica mi pare ci siano problemi più antichi, profondi e complessi di una semplice - per quanto reale - ossessione per i giocatori “grossi”.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura