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Dario Saltari
Dietro il decennio nero del Manchester United
29 dic 2023
29 dic 2023
Gli ultimi dieci anni sono stati cupi per la più importante squadra d'Inghilterra.
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Dario Saltari
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Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
(foto) Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
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Il mito del peccato originale e della cacciata dal paradiso per il Manchester United non riguarda una mela ma un cavallo. Si chiamava Rocca di Gibilterra e agli inizi degli anni Duemila era uno dei più importanti e vincenti purosangue inglesi di tutto il Regno Unito - «il migliore del mondo» secondo il fantino Richard Hughes. Rocca di Gibilterra si era fatto un nome dove più contava - in Irlanda, la patria dell’allevamento dei cavalli da corsa - e Sir Alex Ferguson per qualche ragione ne andava pazzo.

In un’intervista rilasciata alla rivista ufficiale del sindacato dei calciatori professionisti inglesi e gallesi, l’ex allenatore del Manchester United aveva dichiarato di aver iniziato a seguire le corse dei cavalli «semplicemente per avere uno svago dal mio lavoro». Con Rocca di Gibilterra, però, era diverso. Ferguson amava farsi fotografare con lui ed era riuscito a fargli indossare i suoi colori, cioè il rosso e il bianco del Manchester United. Soprattutto: il suo nome compariva tra i proprietari di Rocca di Gibilterra nonostante non ne avesse mai acquistato nemmeno una quota. Rocca di Gibilterra era una metafora che si era fatta carne. Quando nel 2002 vinse il premio di cavallo europeo dell’anno il Manchester United aveva da poco messo in bacheca l’incredibile striscia di tre Premier League vinte di fila. Le sue foto accanto ad Alex Ferguson vestito di tutto punto e con il cilindro in testa rappresentano - anzi, in un certo senso sono l’età dell’oro dei “Red Devils”. La loro patina ancora vagamente anni ’90, le guance rosse sul viso scozzese di Sir Alex, il fazzoletto giallo perfettamente ripiegato nel taschino della giacca. Sembrano venire da un altro tempo.

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Se una foto non è solo una foto, però, anche un cavallo non è solo un cavallo. Un purosangue come Rocca di Gibilterra non aiuta solo l’iconografia ma vale anche centinaia di migliaia di euro solo in diritti di monta, che decidono a chi vanno i soldi pagati dai proprietari delle cavalle intenzionati a farle accoppiare con lui. Complessivamente non sono cifre da poco. Rocca di Gibilterra, per dire, ha contribuito a far nascere altri 256 cavalli da corsa, di cui 77 hanno vinto almeno una corsa a livello internazionale. Per Ferguson comparire tra i suoi proprietari non era solo una cosa simbolica, o almeno così la pensava lui che non aveva capito esattamente in che guaio stava per mettersi.

Tra i proprietari di Rocca di Gibilterra, accanto al nome di Ferguson c’era infatti quello di Susan Magnier, moglie del miliardario irlandese John Magnier, che a Manchester era ben conosciuto. Magnier era il principale azionista di minoranza del Manchester United e insieme al suo socio irlandese JP McManus deteneva poco meno del 30% delle azioni del club, quota oltre la quale i due sarebbero stati legalmente costretti a fare un’offerta per l’acquisto del club. Magnier non sembrava proprio il tipo che volesse avere l’esposizione e la responsabilità di gestire un club come il Manchester United, come d’altra parte nessuno dentro una squadra che ancora agli inizi degli anni 2000 si cullava nell’illusione di poter essere qualcosa di più e contemporaneamente qualcosa di meno di una vera e propria azienda. Lo United, allora, non aveva un vero proprietario e nemmeno un vero presidente - più che altro un reggente che gestiva le cose temporaneamente, che allora era il presidente del consiglio d’amministrazione Roy Gardner, tifoso dei “Red Devils” da quando aveva otto anni ma senza alcun potere rilevante all’interno del club.

Magnier aveva una quota dello United ma la sua vita erano i cavalli. Insieme a McManus formava quella che la stampa inglese chiamerà la Coolmore Mafia, dal nome dell’enorme maneggio irlandese che era alla base delle loro fortune, Coolmore per l’appunto. Parliamo di quasi 30 chilometri quadrati piazzati al centro dell’Irlanda, nella contea di Tipperary, dove si stendono a perdita d’occhio colline verdi e prati, maneggi e fango, laghetti bucolici e stalle. È uno dei pochi posti al mondo dove i cavalli come Rocca di Gibilterra vengono concepiti, e come nei migliori o peggiori film di Martin Scorsese le persone che lo gestiscono non sono quelle con cui vorreste avere una discussione riguardo ai diritti di monta. Sotto ai capelli a falde larghe, ai sorrisi crudeli e alle montature sottili ci sono uomini “che la cosa più morbida che hanno sono i denti”.

In molti avevano provato ad avvertire Alex Ferguson. Patrick Harverson, allora direttore della comunicazione del Manchester United, aveva messo su la faccia di chi non ha nessuna intenzione di scherzare: «Sono serio: qualsiasi cosa tu faccia, non farli incazzare». Addirittura Roy Keane aveva provato a parlare con lui, e di certo non era uno che si prendeva questa briga per qualsiasi cosa. “Gli ho detto che non sarebbe stato positivo per il club”, ha scritto nella sua autobiografia “Era solo una mascotte per loro e non lo possedeva nemmeno quel maledetto cavallo”. Forse Ferguson aveva iniziato a credere alla retorica che lui stesso aveva creato e pensava che Keane sarebbe stato l’irlandese più difficile con cui avrebbe mai avuto a che fare. Nel 2005 i due litigarono definitivamente per l’analisi impietosa della netta sconfitta per 4-1 contro il Middlesbrough che Keane fece sulla TV ufficiale del Manchester United. «Solo perché sei pagato 120mila sterline a settimana e hai giocato bene per 20 minuti contro il Tottenham allora pensi di essere una superstar», disse per esempio Keane di Rio Ferdinand e la reazione di Ferguson fu di non fargli mai più indossare la maglietta del Manchester United dopo 12 anni di carriera insieme. «Non far incazzare Sir Alex, quell’uomo è la verità», ha detto Rio Ferdinand anni dopo in un’intervista.

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Magari Ferguson pensava di poter trattare John Magnier allo stesso modo. Chiuderlo in una stanza, rovesciare la scrivania, fargli il celebre hardryer treatment. Il calcio non ha mai capito il suo posto nel mondo: ci sono faccende per cui è necessaria una violenza più sottile e tagliente di un paio di pugni scagliati su un tavolo. Soprattutto un certo potere.

Ferguson lo ha capito quando ha portato la controversia in tribunale. Poche settimane dopo, Magnier e McManus inviano una lettera al board dello United contenente 99 domande preoccupate sul futuro della squadra. Molte riguardano Alex Ferguson, la sua età, il suo stato di salute, le sue scelte sul mercato, il presunto conflitto d’interessi con suo figlio Jason, che è un agente di calciatori. I due miliardari irlandesi hanno fatto le loro ricerche assumendo un’azienda di intelligence e hanno avuto la premura di girare la lettera anche a un giornalista del Daily Mail. «Una volta che il dentifricio è uscito dal tubetto, è molto difficile rimetterlo dentro», ha detto McManus del suo rapporto con Ferguson. Lo stesso aforisma, per i tifosi dello United, si può applicare al futuro della squadra.

Un mese dopo, nel febbraio del 2004, la questione è ormai pubblica e i tifosi dello United sono decisi a difendere il proprio allenatore. Fuori da Old Trafford si vendono magliette con la faccia di Magnier e la scritta: dead or alive. All’ippodromo di Hereford, a metà strada tra Birmingham e Cardiff, una trentina di tifosi invadono la pista poco prima di una corsa che vedeva impegnato uno dei cavalli di Coolmore, Raggio di Luna Maestoso. Quando viene annunciata una nuova protesta per il Festival di Cheltenham, una delle più importanti corse ad ostacoli per cavalli d’Inghilterra, Ferguson dice basta e chiede ai tifosi dello United di fermarsi.

L’allenatore scozzese spegne la protesta ma riesce comunque ad ottenere due milioni e mezzo di sterline dalla sua causa. In cambio rinuncia a qualsiasi pretesa futura su Rocca di Gibilterra ma anche all’anima del Manchester United e quindi del calcio per come lo avevamo conosciuto fino a quel momento. Il peccato è ormai entrato nel mondo, sotto forma di una facoltosa famiglia statunitense di origine lituana. Lo scontro su Rocca di Gibilterra, infatti, convincerà Magnier e McManus a vendere la propria quota nello United, aprendo le porte all’origine di tutti i mali: i Glazer.

***

Sull’ultima partita di Ferguson sulla panchina dello United splende il sole della rinascita. Sugli spalti, i tifosi dei “Red Devils” si trovano di fronte all’impossibilità di accettare l’addio non solo del più grande allenatore della loro storia ma anche di Paul Scholes, «uno dei più grandi giocatori che questo club ha avuto e avrà mai», come dirà lo stesso Ferguson nel suo discorso d’addio.

La partita contro il West Bromwich, a campionato già vinto, è praticamente il rovesciamento dell’ideale di una vittoria dello United di Ferguson. I “Red Devils” accumulano per due volte uno scarto di tre gol rispetto agli avversari, prima portandosi sul 3-0 e poi sul 5-2, ma con una arrendevolezza che sembrava non potesse appartenergli si fanno recuperare sull’incredibile risultato finale di 5-5, anche per via di un giovanissimo Romelu Lukaku che sentiva di dover dimostrare ancora tutto. È la prima volta nella storia della Premier League che una partita finisce con 10 gol complessivi.

Dopo il triplice fischio il cielo si annuvola e sul discorso d’addio di Ferguson, e sulle squadre schierate a centrocampo, inizia a scendere una pioggia fredda e poco rassicurante. Sulle lenti dei suoi occhiali, e su quella della telecamera, sfilano gocce che sfocano la vista anche a chi guarda il tutto da casa. Sugli spalti viene srotolato uno striscione che dice: Sir Alex non invecchierà mai. Dopo i ringraziamenti di rito, però, il discorso di Ferguson assume un’improvvisa severità. «Voglio ricordarvi che quando ce la passavamo male qui il club mi è stato vicino, tutto il mio staff mi è stato vicino, i giocatori mi sono stati vicini…», Ferguson inizia a indicare gli spalti quasi con tono inquisitorio: «Il vostro lavoro adesso è di stare vicini al nostro nuovo allenatore». È possibile che Ferguson stia già pensando a David Moyes, da lui personalmente scelto dopo aver provato a portare ad Old Trafford sia Guardiola che Mourinho, e per questo soprannominato da uno striscione al suo arrivo come “the chosen one”. I tifosi a quel punto sono esplosi un applauso e lo hanno costretto a fermarsi, a rimuginare sulle parole che ha appena detto, sulle scelte che ha appena fatto. «Sir Alex! Sir Alex! Sir Alex!», grida lo stadio mentre Ferguson non ha ancora scelto la prossima frase da presentare al pubblico.

Il giorno dopo l’Evening Standard farà uno strano paragone, riesumando l’ultima partita giocata dal Manchester United prima del disastro di Monaco del 1958 che uccise gran parte di quella squadra e costrinse il club a ricominciare da zero. Era una vittoria in casa dell’Arsenal per 5-4 e anche allora lo United buttò via un vantaggio di tre gol, facendosi recuperare sul 3-3 dopo essere andata negli spogliatoi alla fine del primo tempo sul risultato di 0-3. In quella partita segnarono sia Duncan Edwards, che morì nel disastro aereo a Monaco, sia Bobby Charlton, che invece sopravvisse e divenne una delle più grandi leggende della storia del club. Secondo tutti allora, compreso lo stesso Bobby Charlton, il talento più luminoso di quella squadra era proprio Duncan Edwards, il cui fantasma tormenterà lo United risorto per il resto della sua esistenza.

Dopo aver vinto la Coppa dei Campioni esattamente dieci anni dopo il disastro di Monaco, Bobby Charlton ebbe un collasso nervoso e non riuscì a partecipare al ricevimento in albergo per festeggiare la coppa. “Ogni volta che Charlton provava a entrare in camera da letto, sveniva”, ha scritto Gordon Burn nel suo libro Best and Edwards “Quando provava a sollevarsi dal letto, le gambe non riuscivano a reggere il suo peso. E il domani avrebbe portato sempre la stessa sensazione: il logorante senso di colpa di essere sopravvissuto, quando i tuoi amici erano morti; l’onore di portare la Coppa a casa, acclamati, all’Old Trafford… se proprio doveva toccare a qualcuno di loro, sarebbe dovuto davvero toccare a Duncan”.

Il titolo del pezzo dell’Evening Standard che aveva riportato in vita la storia che sarebbe potuta essere dello United e che invece non è stata aveva questo titolo: Sì, Alex Ferguson è una leggenda, ma forse non è il più grande del Manchester United. Nemmeno un anno dopo la sua stesura, a pochi giorni da una netta sconfitta casalinga contro il Manchester City che sarà decisiva per il titolo dell’altra squadra di Manchester, sul cielo di Old Trafford volerà un aeroplano che trascinerà dietro di sé un messaggio: wrong one - Moyes out. Il Manchester United finirà la stagione 2013/14 al settimo posto, fuori dalle coppe europee per la prima volta dalla stagione 1988/89. Allora i “Red Devils” finirono il campionato addirittura undicesimi. Il loro allenatore era Alex Ferguson.

***

José Mourinho ha già vinto tutto ciò che a un allenatore interessa vincere. È una delle figure più iconiche della storia del calcio e ha appena regalato una coppa europea che al Manchester United mancava da nove anni. La finale contro l’Ajax di Peter Bosz rimarrà a suo modo nella storia, per la sua frase sui poeti che non vincono molti trofei e per il suo gesto del tre durante i festeggiamenti, a indicare il “mini triplete” con cui ha concluso la stagione (oltre all’Europa League, il Manchester United ha vinto anche il Community Shield e la Coppa di Lega). Rio Ferdinand, per il suo programma Old Trafford Uncovered, lo porta in una stanza del “Teatro dei sogni” in cui sono appese le foto di tutti i grandi allenatori che si sono seduti sulla panchina dello United. Per una sfortunata coincidenza, quella di Mourinho è la prima dopo un angolo, e sembra guardare la storia attraversare il muro accanto a sé senza appartenerle davvero. Davanti c’è il Mourinho in carne e ossa. Teoricamente è un grande momento per il club, tre trofei non possono non essere un segno di rinascita, eppure c’è uno strano grigiore nell’aria. Lo stesso Mourinho ha lo sguardo perso nel vuoto.

«Tu sei considerato uno dei più grandi allenatori di tutti i tempi», gli dice Rio Ferdinand come per rincuorarlo. «Non in questo club», risponde prontamente Mourinho, senza la solita nota di risentimento verso il mondo: «In questo club sento di non aver fatto niente». I suoi occhi guardano la parete tappezzata di foto in bianco e nero con una venatura di malinconia che non gli appartiene. «In particolare per due leggende… certo, ce ne sono molte, ma due in particolare sono assolutamente delle leggende in termini di trofei e titoli. In confronto a loro io non sono nessuno».

José Mourinho ha vinto una Coppa dei Campioni e tre titoli nazionali in più rispetto a Matt Busby, e ha solo un trofeo europeo in meno rispetto al palmares di Alex Ferguson. Il Manchester United, dal 2013 a oggi, oltre ai tre trofei già citati ha vinto anche una FA Cup e una Coppa di Lega. Ci sono Banter Era peggiori.

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Certo, è finito il dominio nazionale, il Liverpool è tornato a vincere la Premier League, e il Manchester City è diventata la squadra più importante del Paese. Poi c’è la lista interminabile di sconfitte storiche a Old Trafford. La prima contro il Cardiff City dal 1954, contro il West Bromwich Albion dal 1978, contro lo Sheffield United dal 1973, contro il Newcastle dal 1972, contro il Burnley dal 1962. Lo Swansea ha vinto al “Teatro dei Sogni” per la prima volta nella sua storia.

Forse, però, più che dalle sconfitte, il declino dello United è apparso ancora più evidente nelle vittorie, tutte per qualche ragione ricoperte della stesse pece nera. La notizia dell’esonero di van Gaal che inizia a circolare mentre la squadra sta festeggiando la FA Cup nel 2016. Ten Hag che dopo la conferenza post-partita quasi si dimentica della Coppa di Lega, vinta all’inizio di quest’anno nella stagione del triplete del Manchester City.

Il Manchester United in questi anni è sembrato afflitto dalla sindrome del gemello scomparso, il senso di colpa che entra nelle ossa di quei gemelli che perdono i propri fratelli alla nascita. Ci sono vari casi famosi: Elvis Presley, soprattutto lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick, che venne segnato a vita dalla morte della sorella gemella Jane pochi mesi dopo la sua nascita. Dopo una vita disturbata, Dick decise di farsi seppellire insieme a lei. Per il Manchester United il senso di colpa sale sia quando prova ad avvicinarsi al suo gemello rimasto nel passato senza riuscire ad assomigliargli, sia quando invece prova a voltare le spalle e prendere la propria strada. La presenza soffocante della nostalgia sembra far parte delle fondamenta stesse del club. "Nel mondo esterno ero sempre a favore di qualsiasi cambiamento, ma in campo volevo che le cose restassero come erano sempre state", ha scritto George Best in una delle sua autobiografie, ricordando gli ultimi giorni prima dell'addio di Matt Busby.

David Moyes, forse inevitabilmente, venne devastato dal confronto diretto con Ferguson. Scozzese come lui, ma senza la sua rigidità d’altri tempi, la sua avventura come allenatore dello United iniziò accettando un passaggio da Sir Alex per andare alla cena dell’associazione degli allenatori, dove sarebbe stato premiato allenatore dell’anno in Premier. La sua foto nel posto della macchina dove di solito si siedono i bambini non presagiva nulla di buono. Ferguson sapeva far diventare ogni sua frase un claim motivazionale, di Moyes allo United ricordiamo solo questo ridicolo tweet/meme, che ha fatto la storia della decadenza dei "Red Devils".

Ancora prima dell’inizio della preparazione estiva del 2013, il Daily Mail usciva con un pezzo che cercava di individuare chi avrebbe composto la nuova classe del 1992 - il leggendario gruppo di giocatori che fece la fortuna di Ferguson, dopo che questo li ebbe pescati dall'Academy. Questi sono alcuni dei nomi al suo interno:

  • Larnell Cole: “impressionante nelle avversità”; fece la sua unica apparizione in maglia rossa ben prima che arrivasse Moyes, sostituendo Macheda in una partita di Coppa di Lega nel 2011; verrà dato in prestito al Fulham nel gennaio del 2014 e non vedrà mai più Old Trafford. Passato anche per l’FC United of Manchester, la squadra popolare “gemella” dello United (ci arriviamo), al momento è al Warrington Town, in National League North.
  • Adnan Januzaj: “alto, forte e versatile”, doveva essere IL talento del futuro dello United e sappiamo com’è andata a finire; in questa stagione ha giocato meno di 300 minuti al Siviglia.
  • Michael Keane: “ha le sue possibilità”; anche per lui esordio nel 2011 in Coppa di Lega, poi un lungo girovagare nella provincia inglese. Leicester, Derby County, Blackburn, Burnley, infine Everton, dove è diventato una leggenda minore.
  • Ryan Tunnicliffe: “energia contagiosa”; non vestirà mai la maglia del Manchester United, ma quasi tutte quelle delle piccole squadre britanniche. Dopo un interminabile trafila di prestiti si è accasato all’Adelaide United, in Australia (8 presenze finora).
  • Charni Ekangamene: “piede sinistro raffinato”; viene strappato dalla concorrenza di Ajax, Arsenal e Chelsea solo per non esordire mai con la maglia dello United. Già nel 2014 si è trasformato in un ramingo delle squadre semi-professionistiche di mezzo mondo (Eindhoven, Inter Bratislava, Marino, Lokeren-Temse, Rupel Boom, Berchem Sport).

Ancora più alienanti sono state le gestioni che sono sembrate agli antipodi rispetto al glorioso passato. La dittatura senza alcuna empatia di Louis van Gaal, che, dopo le proteste per i suoi metodi, aveva finito per mandare una mail giocatore per giocatore dopo ogni partita con tutti gli errori commessi. Dopo essere stato informato che nessuno le apriva più, l’allenatore olandese fece installare un software che gli permettesse di vedere chi apriva le sue mail e chi no. Le sue manie del controllo in campo e fuori produssero quello che rimane ancora oggi lo United più lontano possibile da quello di Ferguson. Una squadra lenta, orizzontale, letargica, quasi incapace di segnare.

Allo stesso modo, nonostante i trofei, è rimasta estranea allo United l’esperienza di José Mourinho, che a sua volta visse in hotel durante tutto il suo periodo ad Old Trafford. L’allenatore portoghese cercò di rompere definitivamente con il recente passato, allontanando Ryan Giggs dal suo staff o cancellando le innovazioni fatte al centro d’allenamento da Ferguson, ma senza riuscire a produrre davvero un nuovo corso. Il suo imbarazzo nel gestire la storia dello United si riflesse sulla gestione della fine della carriera di Wayne Rooney, che nel frattempo era diventato il più grande marcatore della storia del club sorpassando Bobby Charlton.

«Ci sono attimi nella carriera di ogni calciatore in ti viene da pensare: “sono abbastanza bravo?”», ha dichiarato Rooney tempo dopo il suo addio allo United «Mi è successo quando Mourinho mi lasciava in panchina, credevo di allenarmi bene ma non avevo mai la chance per dimostrarlo». Rooney ha parlato con risentimento soprattutto della finale di Coppa di Lega, vinta 3-2 contro il Southampton. «Durante la partita Mourinho si avvicinò per dirmi: “voglio che alzi il trofeo”. Io pensai: “ma se non ho giocato neanche un minuto!”. Ma lui fu irremovibile così alla fine fui io ad alzare la coppa. Fu lì che mi convinsi che dovevo assolutamente lasciare il Manchester United».

Il rapporto difficile con il passato ha ucciso anche la promettente avventura di Ole Gunnar Solskjær, fatta deragliare dallo scellerato ritorno a Old Trafford di Cristiano Ronaldo. Celebre la foto in cui CR7 sembra non prendere sul serio gli ammonimenti di Solskjær durante il loro primo incontro ufficiale, i video in cui la leggenda portoghese sembra prenderlo in giro in campo.

Nonostante Solskjær avesse tentato di seguire pedissequamente i passi di Ferguson, l’allenatore scozzese lo ricompenserà rimproverandolo alle sue spalle con Khabib Nurmagomedov. «Dovresti sempre far partire titolari i tuoi giocatori migliori», disse Sir Alex al celebre fighter di MMA, proprio in riferimento all’assenza di Cristiano Ronaldo. È triste che proprio Solskjær, dopo tutte le buone intenzioni, abbia scritto la pagina più nera del decennio nero dello United - lo 0-5 subito a Old Trafford dal Liverpool, la squadra che Ferguson, quando si era seduto sulla panchina dello United nel 1986, si era preposto di «buttare giù dal suo cazzo di piedistallo».

***

Il Liverpool, forse persino più del City, ha rappresentato in questi anni lo specchio deformato delle ambizioni frustrate dello United. La squadra rivale che ha scelto un allenatore che, per stile di gioco, carisma ed empatia con i giocatori, sembra fatto per stare ad Old Trafford. Che è riuscito a portare diversi giocatori dell’Academy in prima squadra. Che sul mercato sembra sempre sapere cosa fare. Forse non è un caso che proprio una partita contro in Liverpool abbia messo in scena la più grande protesta dei tifosi contro i Glazer, mentre quelli non sapevano come giustificare l’entrata carbonara del club dentro la Superlega. Era il 2 maggio del 2021, i tifosi invadevano Old Trafford costringendo le autorità a rimandare la partita, mentre intonavano cori e sventolavano bandiere e striscioni. Su uno di questi c’era scritto: Potete comprare il nostro club, ma non il nostro cuore e la nostra anima.

I Glazer, fin dal loro arrivo nel 2005, rappresentano l’entrata in scena del denaro e la corruzione che comporta, e tecnicamente l’associazione ha un suo fondamento che va oltre il mito di Rocca di Gibilterra. La famiglia statunitense spende infatti 790 milioni di sterline per comprare il Manchester United ma lo fa attraverso un cosiddetto leveraged buyout, cioè con una parte molto significativa di quella cifra presa con un prestito garantito dalla squadra stessa. I Glazer in sostanza prendono il controllo del club, scaricando su di esso gran parte della cifra che hanno speso per farlo, sotto forma di debito. È una mossa che verrà immediatamente criticata dall’ultimo consiglio d’amministrazione non Glazer e che porterà alle dimissioni del già citato Roy Gardner, che definì l’operazione come “un modello non sostenibile”. Il debito, che nonostante le successive ristrutturazioni ammonta ancora a oggi a circa 500 milioni di sterline, è il simbolo del risentimento verso una proprietà che si avverte come corrotta e usurpatrice.

Ma il debito, al contrario delle foto e dei cavalli, ha un suo significato anche perché è solo un debito. Soprattutto prima della prima ristrutturazione avvenuta nel 2010, il Manchester United è costretto a pagare tassi di interesse stellari, che lo costringono a sborsare una cifra intorno ai 40 milioni di sterline ogni anno. Una novità per un club che dai primi anni Trenta del Novecento non ne conosceva nemmeno la parola. Di fatto, ne

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