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I migliori addii del 2019
05 giu 2019
Calciatori che hanno lasciato un vuoto.
(articolo)
12 min
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«Prima della guerra mondiale, quando accaddero i fatti che qui riferiamo, che un uomo vivesse o morisse non passava ancora nell'indifferenza. Se una persona scompariva dal numero dei terrestri, non ne arrivava subito un'altra a occupare il suo posto per far dimenticare il lutto. Bensì, dove mancava, rimaneva un vuoto, e i vicini così come i lontani osservatori del paesaggio di quell'uomo ammutolivano ogni volta che riconoscevano quel vuoto» scriveva Joseph Roth per restituire il senso di memoria e malinconia che pervadeva l’impero Austro-Ungarico.

Nel calcio moderno i calciatori vanno e vengono spesso senza lasciare traccia. Non fanno che ripeterci che sono dei professionisti, non legano i propri valori a quelli di un club, e quando vanno via non c’è nessun vuoto ad accompagnarli ma solo le cifre che separano un “buon affare” da un “errore finanziario”. Non è però sempre così. In particolare questa stagione ci ha mostrato gli esempi di giocatori che avevano dissolto la propria identità all’interno di quella di un club, diventando un tutt’uno con la maglia che indossavano, scomparendo dentro di essa. Alla fine della stagione i loro tifosi li hanno salutati con la sensazione di lasciare andare un pezzo di sé. Al posto del loro numero e di quello che rappresentavano un vuoto che non è colmabile.

Abbiamo raccolto i migliori addii a cui abbiamo assistito al termine di questa stagione.

Sergio Pellissier, Chievo Verona

Sergio Pellissier era un animale strano del calcio italiano. Forse il più grande calciatore della storia nato in Valle d’Aosta. Quando si parla di Pellissier però si fa riferimento più che altro al suo nome strano, al suo rapporto col Chievo Verona e il suo talento viene interpretato più che altro come “mestiere”.

Eppure Pellissier è stato un grande attaccante. Ha segnato 112 reti in Serie A ed è nei primi 60 marcatori all-time. Ha segnato gli stessi gol di un fenomeno come Edinson Cavani, in una squadra che ha lottato per non retrocedere ogni stagione, e che giocava sempre tendendo allo zero a zero come ideale assoluto.

Pellissier era un maestro dei tagli dietro la difesa e degli smarcamenti in area di rigore, e li faceva con un talento non del tutto artigianale. Per questo Pellissier è stato diverse volte vicino a una grande squadra. Qualche giorno fa ha dichiarato: «Sono stato diverse volte molto vicino ad una delle big. Moratti mi chiamò e mi disse di essere dispiaciuto per non essere riuscito a portarmi in nerazzurro».

Pellissier col cognome francese e la barba che gli sembra tatuata addosso, gli occhi a fessura da cane. Pellissier che fino a qualche anno fa gestiva una churrascheria a Verona e che è molto amico di Jerry Calà, che ha fatto una brutta uscita nostalgica sul fascismo ma che sembra il contrario di un tipo reazionario e violento. Pellissier che è solo una brava persona, e che quando Ventura ha abbandonato il Chievo a metà stagione ha fatto un post strappacuore, si è rimboccato le maniche e segnato più di quanto forse il suo corpo gli avrebbe permesso. Pellissier che a metà del secondo tempo di Chievo-Sampdoria è stato richiamato fuori dal campo per l’ultima volta, si è slacciato la fascia dal braccio con sobrietà ed ha abbracciato l’altra leggenda Fabio Quagliarella. Il pubblico del Bentegodi sventolava i numeri 31 e scriveva “Racconterò a mio figlio di Sergio Pellissier”.




Robin Van Persie, Feyenoord

Ogni anno salutiamo un campione della generazione d’oro del calcio olandese che dopo aver girato il mondo torna a casa come un marinaio. Lo hanno fatto Klaas Jan Huntelaar e Daley Blind all’Ajax; Mark Van Bommel al PSV, Dirk Kuyt al Feyenoord, che ha dato l’addio al calcio dopo aver conquistato un’ultimo titolo con la maglia biancorossa.

Robin Van Persie ha seguito il suo esempio e la scorsa estate è tornato a casa a Rotterdam, dove c’è la sua famiglia, il padre scultore e la madre pittrice. È tornato a vestire la maglia del Feyenoord 14 anni dopo l’ultima volta, a 35 anni, con quel fisico di cristallo - da artista della finanza, da tennista al massimo - che per miracolo è arrivato ad esprimersi a livelli così alti. Gli ha permesso di giocare un’altra stagione, dove ha comunque segnato 18 gol in 31 partite.

Guardando questi gol si può ritrovare quel gusto un po’ vintage nei movimenti di van Persie, che sembra più attento a fare bene le cose piuttosto che a farle velocemente. Il mio preferito è quello in cui mette in scena la versione reverse del suo gol più famoso, quello segnato alla Spagna ai Mondiali del 2014.

Van Persie sfila dietro ai difensori, lascia partire il tiro, esulta sempre col minimo sforzo. Per lui la finalizzazione è sempre stato un esercizio di precisione e mai di potenza, come tirare con l’arco o giocare una volèe, trovando angoli e traiettorie di fantasia.

Al termine della sua ultima partita con la maglia del Feyenoord i compagni e gli avversari si sono fermati formando un corridoio che lo ha accompagnato all’uscita dal campo, i capelli ormai del tutto canuti, mentre lo stadio intonava cori in suo onore. Un addio da leggenda per niente scontato visto che quando Van Persie andò via dal Feyenoord, 15 anni fa, era stato praticamente cacciato. I suoi rapporti con l’allenatore Bert van Marwijk erano ai minimi termini: «Il suo comportamento gli ha impedito di rimanere in squadra, quindi si unirà alla squadra riserve» aveva dichiarato il tecnico nel 2003, un paio d’anni prima la scadenza del contratto di Van Persie, che il giocatore si è rifiutato di rinnovare.

Alla fine è passato all’Arsenal per meno di 3 milioni di sterline: una cifra ridicola per quello che i “gunners” consideravano l’erede di Dennis Bergkamp e che segnerà una quarantina di gol in più rispetto a Bergkamp.

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Su internet si può trovare una foto di Van Persie da bambino. È seduto sul letto con i denti sporgenti e la maglia dell’Arsenal indosso, seduto su un letto del Feyenoord. Il suo rapporto con la squadra di Rotterdam è stato controverso, ma il significato di un addio è anche quello di dimenticare i dissapori e distorcere il nostro ricordo di quella persona secondo un’immagine totalmente positiva. Non c’è niente di ipocrita, è bello che l’inerzia del tempo semplifichi il perdono e il consenso.


Ignazio Abate, Milan

A volte, appunto, gli addii servono a regalarci un’immagine addolcita di un giocatore molto criticato nella sua carriera. Un giocatore che non era mai stato considerato un simbolo ma che arrivati all’ultima partita magari ci mette davanti il fatto compiuto del tempo passato davanti a noi, sullo sfondo, un brutto quadro che non ci è mai piaciuto ma che al momento di buttare ci provoca nostalgia.

I tifosi del Milan hanno visto Abate indossare la maglia rossonera per 243 partite distribuite in dieci anni. Lo hanno criticato spesso e dipinto come una specie di miracolato. Eppure alla sua ultima partita gli hanno tributato lo striscione “10 anni di impegno e umiltà, ti sei guadagnato il rispetto degli ultras”. Abate ha ringraziato con una lettera emozionata: «Il ringraziamento più grande va a VOI...i miei tifosi! Voi che mi avete sostenuto, a volte criticato, ma soprattutto voluto bene ed apprezzato come uomo prima che come atleta. Vedervi li, in quasi 70mila, in piedi ad applaudirmi e a gridare il mio nome mi ha dato emozioni che resteranno indelebili nel mio cuore!».


Emiliano Moretti, Torino

Emiliano Moretti è uno dei figuranti più pregiati degli ultimi 15 anni di Serie A. Ha vestito le maglie di Fiorentina, Juventus, Modena, Bologna, Valencia, Genoa e Torino. A 37 anni si è potuto permettere di bucare le 100 presenze con le ultime tre maglie che ha indossato.

Negli ultimi tempi era semplicemente un paradosso vederlo in campo, per la sensazione che si fosse già ritirato da tempo e che si presentasse quindi sotto forma di fantasma. Del resto Moretti sembrava essersi rarefatto e trasformato nel monumento a sé stesso, statua al secolare mestiere del difensore di Serie A che ha passato una vita a lottare con gli attaccanti, compensando le carenze fisiche con la prontezza di idee.

Si è riciclato ad alti livelli con maglie e allenatori diverse, in linee a 3 o a 4, trovando il suo apogeo a sinistra nei ritmi compassati e pazienti della difesa a 3 di Gian Piero Ventura, in un periodo in cui guadagnò anche la convocazione con l’Italia. A novembre del 2014 è stato il più anziano debuttante della Nazionale italiana.

Durante la sua ultima partita l’Olimpico di Torino cantava di essere andato allo stadio solo per celebrarlo e hanno affisso uno striscione che recitava “Un uomo vero, un condottiero”. Moretti ha giocato gli ultimi quindici minuti contro la Lazio, poi li ha salutati concedendosi qualche lacrima. Ricoprirà un ruolo in società, da febbraio è stato nominato “Ambasciatore allo sport” dal consiglio regionale del Piemonte.


Andrea Barzagli, Juventus

Se mettiamo vicine le foto di Barzagli dal 2011 a oggi, cioè da quando è arrivato la Juventus, possiamo osservare un ragazzo diventare un uomo, poi un uomo entrare nell’età della ragione. Barzagli col tempo è diventato più spesso, le spalle più grosse, il petto più pronunciato. Ha assunto un’aria più rassicurante, da zio che ti porta allo stadio e a cui puoi confidare tutti i tuoi problemi, tanto di dirò sempre che non è niente, che tutto si risolve.

Fino a che il fisico glielo ha permesso, Barzagli ha giocato titolare. Il suo utilizzo si è dissolto lentamente con il tempo, ma ha continuato spesso a rappresentare una coperta di linus irrinunciabile per Allegri e i tifosi. Quando c’era da non prendere gol - come ad esempio lo scorso anno contro il Tottenham - Barzagli scendeva in campo come un tè caldo nei giorni di pioggia, e i tifosi sapevano di potersi stringere alle sue spalle grosse. Quest’anno è stato quasi sempre infortunato, ma quando Allegri lo ha potuto mettere in campo ne ha parlato con una tenerezza che si riserva a alle persone a cui si vuole un bene profondo: «I cavalli vecchi non hanno bisogno di corse di rientro».

Si era capito da mesi che Andrea Barzagli si sarebbe ritirato, e andandosene lui sembra davvero finita l’era della BBC e di una Juventus che costruisce sulla difesa le proprie vittorie. L’arte difensiva di Barzagli, irriducibile alle sue qualità, sembra appartenere a un’epoca diversa. Per questo il vuoto che lascia non potrà essere colmato.




Vincent Kompany, Manchester City

L’ingiustizia governa il mondo, e ovviamente lo sport, ed è raro che una grande leggenda abbia un addio all’altezza della propria storia. In questo senso la narrazione di Vincent Kompany è così perfetta da sembrare quasi artefatta.

A 34 anni ha alzato la sua quarta Premier League, e lo ha fatto da protagonista nonostante nelle ultime stagioni abbia giocato sempre meno. Kompany, insomma, se ne è andato dal calcio dei massimi livelli esprimendosi ancora come un giocatore indispensabile.

Kompany è stato il protagonista della partita che ha deciso la tiratissima corsa al titolo, segnando un gol pregno di simbologia. Contro il Leicester il City non trovava il modo di segnare. Il fatto che il Liverpool avesse già vinto metteva una pressione psicologica ulteriore. Kompany è avanzato fino alla trequarti cercando una soluzione, poi ha fatto qualche altro passo come se volesse tirare. Attorno a lui hanno cominciato a gridare “Non tirare! Non tirare!”. Kompany però ha chiuso le orecchie, ha abbassato la testa e lasciato partire un tiro che si è infilato sotto l’incrocio del primo palo. Kompany tira di mezzo esterno, staccando i piedi da terra, tendendo il suo corpo come una corda per lasciar partire un tiro che curva leggermente prima di infilarsi in rete. È un gol su cui è facile leggere la volontà disperata di Kompany di rompere l’inerzia di una partita che si stava trascinando al pareggio, usando una forza che va oltre la logica e la razionalità.

Kompany tornerà all’Anderlecht, la squadra in cui è cresciuto, dove ricoprirà il ruolo di giocatore-allenatore come si faceva negli anni ’90. Di fronte a molte carriere che lo storytelling sportivo cerca di far somigliare a favole quella di Kompany lo è da sola senza bisogno di abbellimenti.


Daniele De Rossi, Roma

A volte però le cose vanno esattamente al contrario di come avremmo sperato, e gli addii sembrano arrivare nei momenti peggiori, caricandosi di significati deprimenti. L’addio allora non come ultimo saluto e riconciliazione con una parte di sé che siamo disposti a lasciare andare, ma come un’amputazione improvvisa.

Mentre De Rossi faceva il suo giro di campo sorridente, due sciarpe al collo, il suo pubblico era rotto dalle lacrime e dal senso di ingiustizia. Del resto abbiamo saputo che De Rossi avrebbe lasciato la Roma da un tweet che la società ha pubblicato alle 9 del mattino di un martedì piovoso di maggio. De Rossi aveva giocato poco nell’ultimo anno, ma risultando sempre tra i migliori: non c’erano più segnali che in passato di un suo possibile ritiro. Rinnoverà per un altro anno poi si ritirerà, si diceva. La notizia del suo addio è arrivata come una coltellata, ma aspettiamo la conferenza, si diceva. Magari De Rossi avrebbe detto che non stava più bene fisicamente, che era il momento di appendere gli scarpini al chiodo. Invece nella conferenza De Rossi ha dichiarato esplicitamente una contraddizione tra le proprie idee - dicendo che si sente un calciatore - e quelle della società - che lo voleva con un ruolo dirigenziale.

Poi sono usciti dettagli romanzeschi. De Rossi e Ranieri che escono sotto la pioggia a dare spiegazioni ai tifosi; De Rossi che promette “Se me lo chiedete voi non indosserò nessun’altra maglia”, i tifosi che gli dicono “Non sarebbe giusto”. La lettera di addio su Facebook di De Rossi bambino con la maglia della Roma - “perché sei felice? Perché c’ho la maglietta della Roma”. Il video di Totti con gli occhi rossi che commenta le foto dei loro abbracci. Poi i vocali in cui De Rossi rivela che avrebbe accettato anche un contratto a gettoni, e la società glielo propone solo dopo averlo saputo e allora lui rifiuta per dignità.

L’amarezza dell’addio di De Rossi si nutre di tutti questi dettagli cospirazionisti e romanzeschi, ma anche della stagione terribile della Roma. De Rossi lascerà la squadra nel peggior momento degli ultimi 6 anni, se ne andrà con il ricordo di una stagione iniziata male e finita malissimo, con la coda dell’inchiesta di Repubblica che lo vorrebbe protagonista di una fronda anti-Totti, anti-Monchi, anti-Di Francesco. Che ad inizio stagione avrebbe ricattato la società dopo l’arrivo di Nzonzi: «Vi faccio arrivare decimi».

De Rossi sotto la pioggia, con due sciarpe al collo, gli striscioni “Tu in campo come noi dietro la vetrata”, in sottofondo i Manic Street Preachers e una canzone che comincia «The future teaches you to be alone / The present to be afraid and cold».


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