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Il Benjamin Button del calcio sudamericano
03 ott 2025
A 40 anni Dayro Moreno è riuscito a diventare il massimo marcatore nella storia del calcio colombiano.
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22 min
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IMAGO / Newscom / GDA
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Il calciatore con la maglia numero 17 che sta per entrare in campo è spaventato, più che entusiasta. Concentrato? Molto. Emozionato? Ovviamente. È il primo luglio del 2004, nel pieno dell’inverno australe la sua squadra, l’Once Caldas, si sta per giocare la finale di Libertadores contro il Boca Juniors. I colombiani sono i veri dark horses di questa coppa, in cui sono appena alla terza apparizione. La rincorsa all’atto conclusivo, che li ha portati a lasciarsi sul cammino squadre fortissime, è iniziata agli ottavi, contro il Barcelona de Guyaquil, decisa ai rigori.

Sul dischetto è andato anche lui, appena diciannovenne. Si chiama Dayro, Dayro Moreno, anche se le grafiche in TV lo normalizzano in Dario.

La sera della finale Dayro resterà in campo per quasi settanta minuti, verrà ammonito per qualche parola di troppo, lascerà il rettangolo sullo 0-0. L’Once Caldas vincerà ai rigori, una storia francamente incredibile. Qualche mese più tardi, a Yokohama, i colombiani disputeranno l’ultima edizione in assoluto della Coppa Intercontinentale, che sta per essere fagocitata dai suoi tempi e si sta per trasformare in qualcos’altro. Finirà ancora ai rigori, ma stavolta perderanno di fronte al Porto.

Dayro Moreno, però, non sarà neppure tra i convocati. Il ragazzo è ancora giovane, deve farsi, anche se ha davanti a sé un futuro radioso. Ne vivrà cento, di serate come quella. Basta saper aspettare.

Il calciatore con la maglia numero 17 che 21 anni più tardi sta per entrare in campo è entusiasta, più che spaventato. Concentrato? Insomma. Emozionato? Decisamente. Nel tempo che è trascorso il corpo si è coperto di tatuaggi, la memoria di ricordi. Ha girato tantissimo, ma ora è di nuovo a casa, dove gli hanno consegnato lo scettro del cacicco come si fa con i vecchi saggi che hanno conosciuto il mondo. Stamattina si è alzato per primo, ha preso a girare per i corridoi dando cazzotti alle porte per svegliare e caricare i compagni. L’Once Caldas si sta giocando l’accesso alle semifinali di Copa Sudamericana, nella gara di andata, in Ecuador, ha sconfitto l’Independiente del Valle con una sua doppietta.

Il gol con cui ha aperto le marcature, un tiro al volo di destro, è un gesto tecnico, ma anche atletico, che non dovremmo dare per scontato in un giocatore di quarant’anni suonati. Con quelle due reti Dayro ha raggiunto quota dieci gol: ne basta uno per agganciare Edu Vargas e diventare il massimo cannoniere in una singola edizione di Copa Sudamericana. Dayro è uno che ci tiene, ai record. A questo punto della sua carriera, una carriera da culto intimo, quasi sotterraneo, decisamente regionale, ha raggiunto la benevolenza ecumenica tra la sua gente: gli resta solo di espanderla a tutto un paese.

Qualche settimana fa è stato convocato in Nazionale, chissà quanto per una specie di tributo, chissà quanto per un’effettiva carenza di peso offensivo nei "Cafeteros".

La FIFA gli ha tributato un tweet perché la convocazione di un quarantenne - la convocazione di un quarantenne che mancava da nove anni in Nazionale, la convocazione di un quarantenne con i capelli lunghi ossigenati, i tribali sulle braccia e la faccia del padre di famiglia che non si rassegna alla vita del padre di famiglia - fa sempre effetto.

In una sola serata Dayro Moreno può prendersi le semifinali della Copa, il titolo di capocannoniere di sempre, rafforzare la propria candidatura per un posto al Mondiale dell’anno prossimo. Oppure, perdere tutto.

L’INIZIO DELLA STORIA
Quando ho deciso di raccontare la storia di Dayro Moreno non avevo chiarissimo che tipo di storia avrei raccontato. Una parabola di redenzione? La chiusura di un cerchio gigante? Le cicatrici che lascia lo scorrere del tempo, inesorabilmente significative?

Dalla gloriosa serata di Libertadores a quella (che si preannuncia altrettanto gloriosa) di Sudamericana sono trascorsi quasi ottomila giorni, un numero indefinito di allenatori, acconciature, tatuaggi, gol. 373: un numero spaventoso. Se il calcio fosse l’esistenza (ammesso che per certi versi non lo sia davvero) Dayro Moreno avrebbe segnato un gol ogni ventuno giorni. Dal momento che il calcio è solo una parte della sua esistenza, la frequenza ineluttabilmente si fa più tambureggiante.

Il nome Dayro, in aymara (una delle lingue pre-colombiane che sopravvivono ancora oggi nella zona delle Ande), significa primavera, oppure fonte. Dayro, a quarant’anni, sembra intrappolato in un’eterna primavera strabordante, in effetti. Dalla fonte, però, non si è dipanato un fiume maestoso, ma un mandala di ruscelli scroscianti che si sono accartocciati su loro stessi, mettendo a rischio fino all’orlo della compromissione il carattere edificante della sua storia. Che è allo stesso tempo un insieme di regressioni progressive, di fallimenti rigenerativi. Un inanellamento di nuove fini, di nuovi inizi.

Dayro è nato a Chicoral, uno degli epicentri agrari della Colombia, un tempo terra fertile di cotone, sorgo, mais, oggi votata prevalentemente alla coltivazione di mango. Ma la sua carriera è iniziata, ed è più volte tornata, a Manizales, centro nel cuore di una regione piena di dirupi e pendii, epicentro della produzione di caffè nazionale, el eje cafetero. Una città sulla quale veglia il vulcano Ruiz e una perenne minaccia sismica. Una terra instabile che genera figli instabili.

La squadra di Manizales, l’Once Caldas, ha un tricolore nello stemma. Ma non ci sono origini italiane: il verde simboleggia le foglie delle piante di caffè, il bianco il suo fiore, il rosso il suo frutto maturo. Non è uno dei club storici, né più vincenti, della Colombia. Il trionfo nella Libertadores del 2004 non è il culmine di nessun processo, è più figlio di un allineamento astrale nel quale rientra anche l’arrivo, appena un anno prima, di questo fresco diciottenne talentuoso, dalle origini umili ma appariscente ed estroverso, amante degli orecchini vistosi, sempre avvolto in una nuvola di profumo, sfacciato ed arrogante in campo, che ha Ronaldo Nazario come idolo e che tutti chiamano "Peluca".

In uno dei primi allenamenti scommette dei soldi con il portiere Henao, una delle leggende della squadra. Ti segno da cinquanta metri, gli dice, scommettiamo? Segna da cinquanta metri. Con quei soldi compra degli scarpini da inviare a Chicorial, ai ragazzini del quartiere. La tracotanza come motore della magnanimità, una cifra ricorrente in Sudamerica, o forse solo in chi sa che significa emergere a forza di sacrifici. Con i vestiti sgargianti, i flaconi di profumo, i look esagerati vuole sfatare il mito dell’umiltà del calciatore di provincia. In qualche modo finisce per esacerbarlo.

Un anno dopo la vittoria della Libertadores è con la Nazionale under 20 in Olanda per il Mondiale: la rassegna iridata giovanile del 2005 è quella che consacra Messi, quella in cui il suo compagno Hugo Rodallega dice di essere più forte di Messi, «solo che lui gioca per il Barça, io per il Quindio». Entra in campo nella vittoria per 2-0 contro l’Italia e manda ai pazzi gli azzuri per una buona mezz’ora.

È una delle promesse dell’attacco colombiano, insieme a Rodallega, a Juan Pablo Ángel, a Wason Rentería. Gioca largo sulla fascia destra, dove però, davanti a sé, ha un certo Fredy Guarin. Qualcuno di quei giovani esploderà. Qualcun altro no.

Dayro entra nel giro della Nazionale maggiore in coda alla mancata qualificazione ai Mondiali del 2006: esordisce in un’amichevole a Maracaibo, magari Rueda pensa che possa essere uno dei tasselli da cui ripartire. Verrà esonerato a novembre di quello stesso anno, anche se Dayro continuerà a gravitare in squadra, segnando anche il suo primo gol, contro l’Argentina, in una gara di qualificazione ai Mondiali 2010, ai quali la Colombia, neppure stavolta, si qualificherà.

Cosa è, Dayro Moreno? Un fulgido esponente di una generazione sfortunata? Oppure l’epitome di una nidiata destinata ad essere inconcludente?

A Manizales, in realtà in tutta l’area di Tolima, gira una leggenda su un essere mitico, chiamato Mohan, gran seduttore che si apposta sulle sponde del fiume Magdalena per concupire fanciulle, farle innamorare perdutamente, per poi trascinarle con sé nelle profondità con la promessa dell’eterna gioventù, di ricchezze esagerate. I pescatori del luogo, per imbonirselo, portano sempre con loro tabacco e liquore. Non sono riuscito a capire se Dayro Moreno è rimasto vittima del Mohan. Oppure, magari, se il Mohan è lui.

IL MITO
Dayro Moreno mi è deflagrato in testa nell’aprile scorso quando il suo volto, la sua maglia dell’Once Caldas, tutte cose che avevo rimosso, hanno invaso la timeline dei miei social: l’unico calciatore ancora in attività di quella squadra campione d’America, a quarant’anni, segnando il 353° gol è diventato il cannoniere più prolifico del calcio colombiano, più di Radamel Falcao, più di Carlos Bacca. Per festeggiare il traguardo lo hanno vestito di una corona e di una cappa: con il sorriso tirato, le rughe, i tatuaggi sul collo sembrava più un cantante a fine concerto, o una gloria della cumbia.

Qualche mese dopo Radamel Falcao, che intanto è tornato a giocare in patria, coi Millonarios de Bogotà, gli ha reso l’onore delle armi. La storia di Dayro però mica si è fermata là, anzi è avanzata irredimibile, in una strana commistione tra le meraviglie millantate in Big Fish e il ringiovanimento drammatico e miracoloso di Benjamin Button. Da quell’aprile Dayro – supportato dai compagni, ai quali è arrivato a promettere cinquecentomila pesos per ogni assist, poco più di cento euro – ha segnato altre ventidue reti, tiri da fuori, conclusioni a giro dal vertice dell’area, reti frutto di sensibilità, visione, genio, ma anche gesti minimi, colpetti di testa, reti di rapina, da condor. Per ammonticchiare quel tesoretto, dopotutto, bisogna fare di necessità virtù: non ci si laurea capocannonieri per sette volte segnando solo gol pregevoli. Ciononostante, la sua cifra è comunque il miracoletto balistico, tiri con allure più da dardi aymara che da thunderbastards.

Le dieci reti che ha segnato in Sudamericana quest’anno sono una piccola summa del suo senso per il gol: nella tripletta con il GV San José di Oruro, allo stadio Hernan Siles di La Paz, a 3700 metri sul livello del mare, dove normalmente ti manca il fiato, segna intrufolandosi tra i marcatori per anticipare il portiere con un tocco di punta, poi con un diagonale velenoso dopo aver messo a sedere l’avversario di vent’anni più giovane, infine con un gol di tigna, spinto dalla volontà, ostinato e contrario contro ogni ribattuta.

Un’aura, una mistica, che si accresce di partita in partita, e che detona in una partita nell'acquitrino del Ducó di Buenos Aires, quando contro l’Huracán, di fronte a telecamere coperte da una patina d’acqua, nel diluvio, segna di testa, e poi con un colpo di biliardo, prima di tuffarsi felice come un ragazzino, scivolare sull’erba, vivo, vivissimo.

Una potenziale lettura del mito di Dayro Moreno potrebbe essere quella dell’onesto mestierante, della bandiera che, redivivo, inscena la sua last dance. Il fatto è che solo alcuni di questi aspetti corrispondono, e in ogni caso sono tutti abbacinati dalla vistosità della quotidianità di Dayro, che è anche – soprattutto? – un personaggio.

Il suo instagram è tutto fatica, tatuaggi, sudore, acconciature, allenamenti, unghie dipinte. Scintilanza, oro, bling bling, cumbia.

Sembra un goleador che prima di tutto è un uomo che ha qualche difficoltà a scendere a patti con la maturità, che si ostina a sfoggiare acconciature bislacche per le quali la figlia, al telefono, gli dice «papà, è così che si diventa pelati». Lui si dice malato per i profumi, «in un mese ne posso consumare tre, quattro flaconi». I compagni e gli avversari si ricordano di lui anche per la scia che lascia quando ti striscia a fianco, quando ti abbraccia dopo un gol, quando ti supera con un dribbling.

L’odore che si lasciano dietro certi santi.

Chissà quale sarebbe stato il suo percorso di canonizzazione se nel 2008 si fosse trasferito, come sostiene lui, in questa squadra che lo cercava fortemente e che si chiama Real Madrid. A tesserarlo è invece la Steaua Bucarest: Gheorghe Hagi dice che potrebbe essere il nuovo Ilie, alludendo a una delle stelle più scintillanti dei romeni, e in effetti gli inizi sono incoraggianti. Dayro si leva lo sfizio di segnare un gol nel vecchio Ali Sami Yen, l’inferno di Istanbul, in una gara dei preliminari di Champions contro il Galatasaray che finirà per 2-2. Nonostante i pixel del video siano grossi come i lampadari che calano dalle volte del Serraglio di Topkapi si intuisce la tracotanza dell’attaccante latino appena arrivato, che non ha paura di aspettare fino all’ultimo, in gesto di sfida, prima di insaccare la palla alle spalle del portiere.

Le cose però non vanno del tutto per il verso giusto. L’allenatore Mihai Stoichita viene esonerato a settembre, Dorinel Munteanu lo tiene fuori, nello spogliatoio viene qualche volta alle mani con i compagni. Lo Steaua cambia allenatori secondo la volontà del padre-padrone Gigi Becali: Massimo Pedrazzini, traghettatore nell’ultimo tratto della stagione 2008-2009, ha una discussione con Dayro in allenamento e lo manda in tribuna per le partite che mancano alla fine del campionato, con una multa di quindicimila euro. Al fischio finale dell’ultima giornata Dayro vola in Colombia senza il permesso della società. Ci rimane mesi, senza rispondere al telefono e, quando poi si convince a tornare, Cristiano Bergodi, il nuovo tecnico, lo spedisce nella squadra riserve, dove si riduce a segnare gol in campi ai cui bordi gli spettatori arrivano in quad. Mettersi contro Becali non è mai una buona idea. A gennaio del 2010, stremato, deluso, Dayro torna in Colombia.

Non è la prima volta, ha già fatto ritorno all’ovile dopo l’esperienza agrodolce in Brasile. Ma era solo un ragazzino, allora.

Adesso è uno che è stato cercato dal Real.

Dayro, invece, torna, e non sarà l’ultima volta.

COME NOI, MA PIÙ DI NOI
Alle porte della stagione 2011-2012 Dayro sembra in procinto di tornare in Europa: i portoghesi dello Sporting sembrano interessati, e invece lui accetta l’offerta degli Xolos de Tijuana, una squadra che sta per disputare la sua prima stagione in LigaMX. Gli Xolos sono un’emanazione del Grupo Caliente, una società che gestisce l’entertainment messicano, proprietaria di hotel, casino, piste per le corse dei cani. Il mammasantissima del Grupo Caliente è Jorge Hank Rhon, ex sindaco di Tijuana, personalità eccentrica, uno che beve tequila allungata con bile di orso e pene di tigre fermentato, che ha uno zoo privato e un cinodromo in casa, ma anche collegamenti con Felix Arellano, il boss del cartello di Tijuana. Lo chiamano tutti Gengis Hank, sua moglie è Hankita Perón, i tre figli sono uno tennista professionista, l’altro matador e l’ultimo presidente degli Xolos.

Alla vigilia dell’esordio in campionato degli Xolos, in un’irruzione nella villa di Hank Rhon viene rinvenuto un arsenale di armi di vario calibro.

Dayro a Tijuana vive la conversione che gli segnerà la vita: da esterno elettrico ed etereo si comincia a trasformare in centravanti puro, come quelle bestie che sanno che col trascorrere del tempo devono massimizzare la loro feralità.

Dayro ha solo ventisei anni. Diventa quel tipo di attaccante che aiuta la squadra, ma anche che si scopre letale sotto porta. Durante questa prima parentesi messicana conosce Juanma Lillo che diventa un suo grande estimatore: lo vorrà con sé nel 2014 ai Millonarios de Bogotà, dove segnerà 13 gol in 21 partite, e poi al Nacional de Medellin, dove i gol saranno 33 in 48 partite. Nel mezzo, Dayro si fa tre stagioni in Messico, con gli Xolos, andando sempre in doppia cifra. È un centravanti solido, che fa il suo. Affidabile, diremmo quasi, se affidabile non fosse un aggettivo così complicato da abbinare al nome di Dayro Moreno.

Nella prima presentazione del suo libro sui bomber di provincia, Emanuele Atturo ha detto una frase che mi sono appuntato perché mi sarebbe tornata utile per scrivere questo ritratto di Dayro. Emanuele ha detto che i vizi di quei calciatori, le sigarette, l’alcol, ci hanno avvicinato a loro, ce li hanno resi più umani. Anche se mette in mostra una parte infantile e un po’ gretta, ha detto, il gesto conformista del vizio, oggi inaccettabile, ci faceva percepire che quei calciatori di provincia fossero come noi, ma più di noi.

Il calcio colombiano, anche se potrà sembrare una frase filocolonialista, è alle propaggini del Primo Mondo: un’eterna, gigante provincia, dove il mondo si è fermato, o si è sempre rifiutato di piegarsi alle logiche occidentali.

Nell’aprile scorso, dopo che ha infranto il record dei gol nel campionato colombiano, qualcuno ha chiesto a Dayro il segreto della sua longeva prolificità. «Ho una mia vitamina», ha risposto lui. “El traguito”. Il goccetto.

Una volta, dopo aver segnato un gol, Dayro è corso verso i tifosi sulla tribuna dello stadio che è diventato il suo patio di casa, il Palogrande di Manizales. Nel tragitto si è imbattuto in un gonfiabile dell’Aguardiente Cristal: una immensa bottiglia di liquore che si agitava al vento. L’ha abbracciata, dimenticandosi dei tifosi. Sembrava contento.

Qualche settimana prima di fracassare il record, dopo aver segnato, ha raggiunto il suo allenatore in panchina e insieme hanno inscenato un brindisi in bicchierini da tequila. «Ditemi un giocatore in Colombia che non beve», ha dichiarato l’allenatore nel post partita. «Dayro è con me due ore al giorno, poi esce, non posso controllargli la vita… per me conta che si allena sempre, che è il primo ad arrivare, e che fa gol. Cos’altro posso chiedergli?».

Dayro, quindi, è uno che ama andare a ballare. E bere. Potremmo dire che è come noi. Però più di noi, che quasi quattrocento gol da professionista non li abbiamo segnati mai. Cosa dovrebbe insegnarci, la sua storia? Che per raggiungere gli obiettivi certi ostacoli in realtà possono farsi propellenti? Che arrivati a una certa età dobbiamo fregarcene delle imposizioni, di una vita responsabile al limite dello straight edge, oppure che dovremmo farlo sempre, perché sono solo sovrastrutture? Che l’immedesimazione è un motore propellente al miglioramento? Oppure che si può diventare role model anche quando ogni centimetro della nostra pelle, ogni parola che esce dalla nostra bocca, ogni gesto, ogni atto, trasuda l’esatto contrario?

Ne La leggenda del santo bevitore, Joseph Roth racconta, in maniera autobiografica, la vita di Andreas Kartak, senzatetto che nonostante la miserabilità della propria esistenza trova sempre, con l’aiuto del destino, la maniera per saldare i propri debiti, recuperare l’onore, salvaguardare la dignità. Ogni amore, ogni vizio, ogni passione che lo distrae finisce per sistemarsi da sé. "Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella", scrive Roth.

Dayro Moreno è un po’ Kartak: meno nullatenente, similmente girovago. Le sue strade di Parigi è Manizales, l’Once Caldas. La sopravvivenza che si alimenta fino a diventare una bella storia, la sua treccia di miracoli, il suo bacio del destino.

Mi sembra incredibile che un attaccante con una così spiccata scelta del tempo non abbia mai capito come imbrigliare il tempo, e si sia invece limitato a surfarci sopra. C’è stato un momento in cui è sbarcato in Argentina, al Talleres de Córdoba, e dove – come sempre – ha segnato gol molto belli e molto pesanti: uno in spaccata volante, a San Juan; uno contro i cileni del Palestino, con quel suo tipico tiro a incrociare. Ma soprattutto un pallonetto in un clásico, contro il Belgrano, quando è stato a tanto così dal trasformarsi in un idolo non già più solo localistico.

Moderno Jesús Malverde, Dayro Moreno non si sarebbe invece mai “liberato” del cordone ombelicale che lo legava a Manizales. Tutta la sua carriera può anche essere interpretata come un costante galleggiare a metà strada tra l’incosciente e l’irriverente, tra il menefreghista e quello che se la vive scialla, in attesa di tornare all’Once Caldas, per essere el jugador de la gente, el que une a un pueblo.

L’indisciplina, nella carriera di Dayro Moreno, è una costante, più che una battuta d’arresto.

Nel 2005 non ha che vent’anni, viene sospeso per la prima volta per turbolenze fuori dal campo. Due anni più tardi, dopo aver segnato il gol vittoria contro l’Argentina, viene fotografato mentre fa l’alba in un locale di Bogotà. L’indomani arriva tardi all’allenamento dell’Once Caldas, l’allenatore chiede che venga multato e allontanato dalla squadra. La presidenza si rifiuta. L’allenatore si dimette.

Nel 2012, dopo la prima stagione con gli Xolos, torna in Colombia e il pick-up sul quale viaggia sdraiato nel cassone di ritorno da una serata brava ha un incidente. Poche settimane più tardi gli Xolos lo cedono in prestito all’Once Caldas. Coinvolto in un incidente lo è anche nel 2020, quando gioca in Argentina: il problema in questo caso non è solo che l’auto è piena di bottiglie, ma anche che Dayro ha violato la quarantena. L’anno successivo, nel 2021, cerca fortuna in Bolivia, all’Oriente Petrolero. A Santa Cruz de la Sierra non si perde neppure un attimo della movida, neanche quando la squadra è nell’occhio del ciclone e sta precipitando rovinosamente verso la coda della classifica. Una sera, in una discoteca, i tifosi lo spintonano fuori invitandolo ad andarsi a riposare. «Stavo bevendo un whiskisito» racconterà lui «quando un tifoso mi ha chiesto: che ci fai qui? Gli ho risposto che stavo cenando, mica sono un carcerato». Quando il proprietario del bar lo invita a uscire impaurito dall’ipotesi che i tifosi possano sfondargli il locale, Dayro esce: fuori lo aspettano in trenta, vola qualche cazzotto, gli tocca fuggire.

L’episodio più significativo della sua indisciplina, però, della sua incompatibilità, forse, del suo ego, sicuramente, è quello che lo coinvolge nel 2017, quando con la maglia del Nacional de Medellin strappa dalle mani di un compagno il pallone per calciare una punizione e questo, per tutta risposta, gli dà una capocciata in pieno volto, prima che l’arbitro gli mostri il cartellino rosso.

A fine partita Dyaro si precipita negli spogliatoi, forse per chiudere la questione.

Quel che mi viene da chiedermi, a questo punto, è se il mito di Dayro, ciò che lo rende interessante, nasca e si sviluppi da questa condotta maudit o a prescindere dalla stessa. Se questo nimbo, insomma, si irradia attorno a un villain o a un ex villain che ha scelto di redimersi, di espiare le sue colpe con un’ultima, sfavillante stagione.

Ventuno anni, se ci pensate, sono una misura di longevità insostenibile per i nostri tempi: quanti quarantenni possono dire di amare la stessa persona da ventuno anni? Quanti sono rimasti fedeli al loro posto di lavoro, al posto delle origini? Quanti sono rimasti coerenti ai loro sogni?

Dayro ha cambiato squadre, ma in fondo ha sempre avuto, nel cuore, l’Once Caldas. Nel 2024 è atterrato al centro del campo in elicottero. Ha baciato terra, si è commosso. Forse in nessun posto è stato amato, e ha amato, come a Manizales.

La taumaturgia di questo deus ex machina che sembra calare dal cielo come un angelo sterminatore sembra strettamente legata all’idea di volo: si è ripetuta quest’anno, quando subito dopo l’atterraggio di un aereo che riportava l’Once Caldas a casa da una trasferta l’hostess di bordo ha annunciato «auguri a Dayro Moreno per la sua convocazione in Nazionale».

Erano nove anni che non vestiva la maglia dei Cafeteros. L’ultima apparizione era stata durante la Copa América Centenario, l’ultimo gol risaliva a pochi mesi prima, un’amichevole contro Haiti, in sforbiciata.

Per molti quella convocazione è stata il riconoscimento della tenacia e della persistenza di un calciatore che si è ostinato a segnare anche fuori dai radar e dai parametri del calcio moderno, lontano dall’élite, a metà strada tra il saggio cacicco e lo stregone demoniaco: un giocatore che in Europa non conosciamo, non capiamo, perché non potremmo capirlo.

Ma con un apparato metaforico nostro potremmo definire Dayro, in fondo, come il vigneron che resiste alle innovazioni, alle stagioni piene di grandine, al terroir che si impoverisce, e che finisce per imbottigliare un vino sempre riconoscibile al palato, inconfondibile. Un vino che invecchiando non si affina, ma si rinnova. Un eterno beaujolais, però con l’ambizione di uno Château Lafite.

Néstor Lorenzo gli ha concesso tre minuti in campo nell’ultima gara delle qualificazioni, contro la Bolivia. Al termine della partita le figlie lo hanno raggiunto in campo per intonare il coro iconico che i tifosi dell’Once Caldas cantano, a ritmi alterni, da ventuno anni.

Quella convivenza di qualche giorno con James, con Luis Díaz, durante gli allenamenti e poi in campo, è stata strana perché da una parte sembrava la conclusione felice di un concorso a premi grazie al quale un uomo semplice scende in campo con i professionisti, dall’altra la comparsa della vecchia rockstar di successo a un talent show.

Ma a colpire ancor di più è il mood con il quale l’ha vissuta Dayro: lungi dall’inscenare un lungo monologo à la Toni Pisapia ne L’uomo in più, anziché godersi questo lampo di scintillanza nel crepuscolo, Dayro ha dato (e dà) davvero l’impressione di crederci. «Ogni mattina mi sveglio per cercare di essere una persona migliore, un giocatore migliore. E nella mia mente, il sogno del Mondiale è ancora intatto».

LA STRADA VERSO L’EPILOGO

C’è un’altra leggenda, a Manizales, quella del Tunjo de oro. Il Tunjo è un bambolotto d’oro che ti si para di fronte all’improvviso. Se decidi di prenderlo con te, di sfamarlo, di prendertene cura, lui ti ricompenserà mostrandoti la strada per la ricchezza eterna. Se invece te ne dimentichi, lo abbandoni, lo trascuri, lui ti rovescerà contro una serie di sciagure.

Dayro Moreno sembra aver incontrato il Tunjo più volte, durante la sua carriera. L’ha accarezzato, tra un gol e l’altro; poi se ne è dimenticato, e questo ha fomentato litigi, polemiche, piccoli disastri intimi, débacles.

Però, come attratto da un qualcosa di insondabile, è tornato a incrociare il suo cammino con quello di Dayro, nella speranza di potergli concedere un’altra possibilità.

È il Tunjo, qua, che cerca Dayro.

La storia di Moreno, allora, è anche una storia di hybris, casomai una forma ingenua.

A quarant’anni, proprio il giorno in cui sta per giocarsi il sogno di avanzare in Copa Sudamericana, il giorno in cui si è svegliato per primo, ha preso a girare per i corridoi dando cazzotti alle porte per caricare i compagni, il giorno in cui basta scendere in campo concentrati per difendere il 2-0 dell’andata, Dayro arriva allo stadio sul tettuccio del pullman insieme a tutti i suoi compagni. I tifosi cantano «Dayro, Dayro, Dayro goleadooorrr», e lui salta, occhiali vistosi, sorriso da stella del cinema, capelli al vento, felice, vivo, vivissimo. Sembra uno che ha già vinto. A prescindere.

In campo, l’Independiente del Valle ribalterà il risultato. Un gol, poi un altro, infine i rigori. L’errore finale sarà del portiere, incaricato del quinto tiro, tradito da una zolla che si alza, o dall’arroganza, o chi lo sa, da un Tunjo minuscolo che subito dopo aver compiuto il suo destino ha raggiunto gli ecuadoriani nello spogliatoio e ha ballato con loro il ballo del contrappasso, con gli stessi passi usati da Dayro dopo la doppietta in Ecuador.

«Vorrei tanto chiudere la mia carriera con un gol da centrocampo», ha detto una volta. «Mi sto allenando, ci provo ogni giorno». «Sarebbe magnifico», ha concluso, «se ci riuscissi al Palogrande. Dove tutto è iniziato».

Mentre parlava indossava una tuta molto street, sgargiante, gesticolava muovendo le mani dalle unghie dipinte. Il tono, grave, roco, era però – in maniera stridente – quello dei saggi attorno ai quali si riunisce il villaggio.

Forse la contraddizione di Dayro, il suo fascino, è tutta qua.

Voglia Dio concedergli una morte tanto lieve e bella. Almeno quello.

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