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La danza del Pek
07 dic 2018
07 dic 2018
Gli addii, i ritorni e le storie d'amore tra David Pizarro e il mondo del calcio.
(articolo)
12 min
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Quando David Pizarro aveva fatto il suo ingresso sul piazzale di ghiaia, con al guinzaglio un terranova che indossava la sua maglia, era partito un applauso convinto, quasi entusiasta. E io mi chiedevo se tra quelle centinaia di persone ci fosse qualcuno che, allo stadio, a ogni suo tocco di palla prolungato, a ogni giravolta su se stesso, avesse almeno una volta sbuffato d’indolenza, gli avesse gridato di passarla, di farla finita con quei cambi di direzione, con quei balletti innecessari. Se ci fosse qualcuno che l’aveva chiamato fintolino, come l’avevo sentito chiamare io, in curva. Ora lo applaudivano, e io con loro.

Era uno di quegli eventi naïf della gestione Sensi, l’inaugurazione di un centro d’addestramento per cani da salvataggio a Civitavecchia, nel porticciolo di uno degli alberghi della famiglia. Tre giorni prima la Roma aveva vinto, in casa contro il Cagliari, la penultima partita di una stagione che poteva trasformarsi in sogno, e che due settimane ancora prima, invece, dopo la sconfitta con la Sampdoria, aveva assunto i connotati del rimpianto.

Ricordo di aver pensato che un uomo che guarda il mare, e abbraccia un cane, come guardava il mare e abbracciava un cane David Pizarro, non poteva essere un uomo cattivo.

“Pek” ha lasciato il calcio, ufficialmente, questa settimana. Domenica scorsa, a trentanove anni, è sceso in campo per l’ultima volta, vestendo i colori dell’Universidad de Chile. Poi ha salutato il pubblico pizzicando la maglia all’altezza dello stemma con una mano e sventolando l’altra, il gesto emblematico di ogni sua esultanza per un gol, un accenno - solo apparentemente frivolo, e invece testimone di un grande attaccamento alla sua terra e alle sue tradizioni - di una danza folkloristica cilena chiamata cueca. Forse neppure i tifosi della Roma, quelli che gli sono rimasti più affezionati negli anni, sapevano stesse ancora giocando.

La danza di Pizarro

Nei giorni del terranova con la sua maglia nel porticciolo di Civitavecchia, invece, si amavano di un amore incondizionato: avevano imparato a scoprirlo indispensabile, una piacevole costante. Erano i giorni in cui, come avrebbe detto poi Daniele De Rossi, «se eri in difficoltà, gli cedevi il pallone: era l’àncora di salvataggio». Erano tutti innamorati cotti, alcuni segretamente, del suo magnetismo, della sua forza polarizzante, di come fosse in grado di dettare i ritmi del gioco, di imprimere l’inerzia che preferiva al movimento dei suoi compagni in campo. Le sue pause, i suoi cambi di direzione, le sue sterzate e le sue sventagliate erano lo swing che ballava ogni volta che scendeva in campo. Che ci piacesse o meno.

Forse la scintilla definitiva era scoccata a fine gennaio, quando a Torino, contro la Juventus, al 93’ si era andato a riprendere il pallone sradicandolo dai piedi di Diego, che si stava involando in contropiede. Poi, con il suo andamento fatto di passi brevi, aveva studiato le misure prima di disegnare un arcobaleno che Riise aveva trasformato in uno dei gol più emotivi di quella stagione, e chissà forse del passato recente giallorosso.

In quella giocata c’è la sublimazione del suo stile, però declinata, sorprendentemente, nell’accezione più pragmatica. Perché Pizarro, invece, pragmatico non lo era quasi mai: a volte estremizzava i suoi passi doppi, quasi come se volesse umiliare l’avversario più che tagliarlo fuori. Era una rabona là dove sarebbe bastato un cross morbido.

Il calcio barocco che giocava Pizarro, fatto di controlli prolungati, finte e poi un repentino tracciare linee di passaggio ardite è quello che normalmente spetta ai numeri dieci, agli enganche, alle mezzapunte fantasiose (“El Fantasista” è uno dei suoi apodos, anche se il mio preferito, oltre a “Pek”, resta “Il Nano della Provvidenza”); esattamente il ruolo che Pizarro aveva avuto nel Santiago Wanderers, prima di approdare a Udine, nel ‘99.

Il primo gol italiano di Pizarro, il giorno dopo la nascita della prima figlia, come si evince anche dall’esultanza.

Si dice che a Udine abbia sperimentato una mutazione genetica, con l’arretramento del suo raggio d’azione di una ventina di metri: verissimo. E che a dare il là a questa rivoluzione intima sia stato Spalletti, che invece è falso, perché il primo a reinventarlo playmaker basso era stato Hodgson. «Mi ha trasformato in regista, è stata la cosa più importante sia per me che per la squadra». Baricentro basso, vocazione alla fantasia, tendenza a telecomandare il pallone: un predestinato alla regia. «Mi ha messo dietro perché ha capito che da trequartista in Italia morivo di fame».

Il legame con Luciano Spalletti resta inscalfito, comunque, e di sicuro sarà la liaison più importante nella parabola calcistica di entrambi. Quando le strade dei due, a Udine, si sono separate, Spalletti è diventato il nuovo allenatore della Roma e Pizarro un rincalzo di lusso per Juan Sebastian Verón all’Inter, sapevano di essere destinati a reincontrarsi. Sarebbe successo una stagione più tardi, e Pizarro sarebbe diventato il secondo giocatore più utilizzato da Spalletti nella sua carriera da allenatore, secondo solo a De Rossi. Anche prima di Totti. Una costante, un’ossessione, un archetipo che il toscano avrebbe cercato, negli anni, in altri giocatori, come cerchiamo l’ombra di una persona che abbiamo amato, e dal quale le contingenze del tempo ci hanno allontanato.

Il loro era un rapporto temprato dalle incomprensioni, dai musi lunghi, ma anche dalla stima. «È un uomo vero, le cose non le manda a dire. Ha il fisico per confrontarsi con tutti, cosa che io posso fare solo a parole». A Udine, una volta, Spalletti gli aveva rimproverato di tenere troppo la palla tra i piedi. Pizarro gli avrebbe tolto la parola per sei mesi. Poi però Spalletti diceva anche che Pek era "il nostro Pirlo", e lo avrebbe eretto a icona di uno stile di gioco basato sul palleggio, sul possesso, sulle verticalizzazioni che le sue pause rendevano fatali. Il doriforo perfetto di una filosofia votata al fraseggio e alla velocità di pensiero. Alla tecnica, sopra ogni cosa.

Foto di Giuseppe Bellini / Getty Images.

Insieme avrebbero raggiunto il punto più alto della storia recente della Roma nelle coppe europee (prima della cavalcata con Di Francesco della scorsa stagione), i quarti di Champions League con il Manchester United. Per due anni consecutivi. Agli ottavi di finale del 2008, di fronte al Real Madrid sconfitto 2-1, Pizarro avrebbe segnato quello che ha definito «il gol più importante della mia permanenza a Roma. Soprattutto perché quel giorno c’era mio padre in tribuna».

Marinaio

L’immedesimazione di Pizarro con i colori giallorossi non è stato un processo indolore: per focalizzarsi sulla sua carriera europea il "Pek" ha anche rinunciato alla Nazionale, imponendosi un esilio volontario dalla "Roja". «Per prima cosa dovevo essere felice», ha detto. «Facevamo viaggi di ventiquattro ore, arrivavo stanco, non si sapeva chi comandava».

Era stato uno dei protagonisti della Nazionale Under 23 cilena che aveva conquistato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 2000 (in questa azione contro la Spagna c’è, in nuce, il tipo di calciatore che sarebbe diventato). Si era preso in poco tempo le redini del centrocampo di una squadra che, sulla linea d’attacco, poteva contare sull’irripetibilità di una coppia come quella formata da Salas e Zamorano: era l’innesco, l’uomo ovunque, il geometra che ordiva le trame. Ne era diventato il capitano, legato alla bandiera da un rapporto così emotivamente intenso da prendere la decisione di lasciare il passo dopo la mancata qualificazione a Germania 2006. «Sono il tipo più autocritico che c’è sulla faccia della terra». Con un gesto di somma lealtà, e di grande onestà intellettuale, aveva deciso di farsi da parte, nonostante non avesse che ventisei anni ancora, nonostante fosse nel pieno della sua carriera.

Aveva il cervello, David Pizarro. E non aveva paura di usarlo, anche per compiere azioni controintuitive, e pericolose. Era, soprattutto, coerente con se stesso. In campo sapeva vedere le cose prima degli altri: sapeva anticipare la giocata, oppure temporeggiare, fin quando non si fosse presentata la situazione ottimale per portarla a compimento. Non si è mai voluto snaturare, né - forse con un po’ di alterigia - adattare. Preferiva, e perciò lasciava, che fosse il contesto a plasmarglisi intorno.

Dopo la stagione con Ranieri culminata nel secondo posto, quella del sogno sfumato, a Roma era arrivato Luis Enrique. Il tecnico spagnolo predicava un calcio fatto di passaggi veloci, a uno massimo due tocchi, e cioè, di fatto, l’antitesi delle pause prolungate di Pizarro, delle sue giravolte. Gli aveva proposto un ruolo da mezzala, più dinamico: il "Pek" ha deciso che quello non era più il contesto più congeniale per lui. Passò un semestre in prestito al Manchester City di Mancini, dove avrebbe vinto la Premier League.

È sempre stato un oggetto strano, David Pizarro. Emotivo, e con una forte onestà intellettuale. Leggeva molto, «per essere preparato, una forma di difesa contro chi ha i soldi, lo sa e cerca di calpestarti: sono cresciuto con poco, mio padre mi diceva sempre per quanto siamo poveri, non farti mai umiliare da nessuno».

Anche, per certi versi, impegnato politicamente. L’esilio dalla Nazionale non era coinciso con l’astrazione totale dalla vita civile del suo Paese, anzi. Oggi racconta di aver seguito dall’Italia la Rivoluzione dei Pinguini del 2006, il moto civile con cui i cileni avevano trovato il coraggio di scendere in strada e protestare per la prima volta dopo gli anni bui della dittatura. Di aver sentito la voglia di unirsi a loro. Le migliaia di chilometri di distanza non sono mai state una barriera invalicabile, ma un legame da alimentare fino al momento dell’inevitabile ritorno a casa.

«Ho sempre sognato di tornare. Fin da ragazzo mi dicevo quello in Italia non è che un lavoro, casa tua è Valparaíso. Mi piace l’idea del marinaio antico che lascia il suo porto per girare il mondo, ma che non dimentica mai il posto da cui viene. Penso di essere un romantico. Alcuni amici mi chiamano l’antipoeta del calcio, per come sono fatto».

E a Valparaíso, in effetti, sarebbe tornato, nel 2015. Non prima di aver vissuto una seconda giovinezza calcistica, a Firenze, e uno dei dolori più grandi, la perdita della sorella Claudia.

«Avevamo sofferto la fame insieme. E grazie al calcio abbiamo potuto tirarci fuori dalla povertà, e lottare contro la malattia di mia sorella. Siamo una famiglia di pescatori, conosciamo il sacrificio».

Un gol ai tempi del Santiago Wanderers, nell’ultima stagione cilena prima di approdare in Italia. Quell’anno i verdi di Valparaíso, dopo la sua cessione, retrocessero.

Il rapporto tra "Pek" e i Wanderers trascende il calcistico: è radicazione territoriale. David è cresciuto nel Cuarto Sector di Playa Ancha, a poche centinaia di metri dall’Estadio Elías Figueroa. I genitori, gli zii, il nonno erano tutti pescatori. Lo portavano dall’altra parte dello stadio, alla caletta El Membrillo, per aiutarli ad armare le barche. La prima squadra del "Pek" è stata il Caupolicán, la squadra del sindacato dei pescatori.

La storia d’amore tra Pizarro, la sua città e la squadra della sua città sembrava un idillio destinato ad accompagnare gli ultimi suoi anni di carriera. Quando nel 2015, richiamato da Sampaoli in Nazionale, ha conquistato - pur senza giocare molto - la prima Copa América nella storia della "Roja", durante le celebrazioni ha mostrato la maglia verde della sua Arcadia, lasciando intendere che il suo ritorno era prossimo, ineludibile.

I motivi che lo avevano spinto ad accettare di tornare a vestire la maglia della "Roja", oltre al sogno di giocare un Mondiale che non avrebbe invece mai disputato, erano stati «un allenatore serio (Sampaoli, NdA) che era venuto a Firenze a trovarmi, a parlarmi, e mia sorella Claudia; le ho sempre spiegato perché non tornavo, mi diceva che mi appoggiava, però le sarebbe piaciuto vedermi più spesso in Cile». Prima di Sampaoli anche Bielsa e Borghi avevano provato a convincerlo. «Ma sono atipico, non mi piace salire sul carro dei vincitori quando sono stati gli altri a pavimentare la strada».

Nel suo libro Dios es redondo Juan Villoro scrive che non c’è niente di più triste del ritorno di quei giocatori «che condensano, nel loro petto, tutti i sogni della tribù». E scrive anche che quasi sempre il ritorno di questi apostati finisce per risultare «triste, languido e inespresso», sanciscono che nessun eroe è definitivo.

Nonostante le premesse poetiche, il secondo passaggio di David Pizarro per Valparaíso è stato tutt’altro che idilliaco. Poche presenze, dovute a un infortunio, e molte polemiche, oltre a un contesto completamente diverso rispetto alle aspettative. Recriminazioni e insinuazioni, più fuori che dentro il campo, e un’atmosfera generale di invivibilità. Durante le due mezze stagioni vissute in verde, David ha subito dieci furti in casa. L’ultimo mentre la sua famiglia era a messa. E non si è fatto scrupoli nel mettersi a capo delle rivendicazioni sindacali dell’associazione dei calciatori cileni, né di schierarsi contro alcune società (tra le quali i Wanderers stessi) ree di aver fatto pressioni sui propri tesserati affinché non aderissero agli scioperi. «Un tipo di comportamento simile a quello del periodo della dittatura». Dopo aver dichiarato per anni di voler lavorare direttamente nella politica cilena, ultimamente è tornato leggermente sui suoi passi: «Avrei voluto fare il Ministro dello Sport in Cile per cambiare un bel po’ di cose. Ma mi vedo di più a Coverciano».

Le ultime tre stagioni le ha giocate con la “U” de Chile, ritagliandosi una piccola enclave d’affetto tra i tifosi di una delle squadre più vincenti, e grandi, del Paese. Agli strali della sua città natale, che dopo averlo proclamato Patrimonio Cittadino lo ha dipinto come un traditore, un parricida, ha risposto con l’impegno dentro e fuori dal campo, un impegno anche politico, inevitabile esposizione ora che calcava il prato dello stadio che durante il colpo di stato di Pinochet è stato, per settimane, il campo di concentramento in cui il regime militare deteneva e giustiziava gli oppositori.

L’ultima, emotiva, giornata del "Pek" all’Estadio Nacional. A un certo punto compare uno striscione che dice «Arbitro, non fischiare mai la fine, ché David se ne va».

Poche settimane prima dell’ultima partita, nell’anniversario del colpo di stato, ha depositato un mazzo di fiori nel memoriale issato su una delle gradinate, dove troneggia una frase di Mario Benedetti: «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro».

Non avrà lasciato un segno indelebile nella storia calcistica della sua Nazione, David Pizarro, ma sono certo che abbia raggiunto quello che si era prefissato: farsi ricordare come una persona atipica nel mondo del calcio, leale e trasparente, oltre che uno dei migliori centrocampisti in circolazione negli anni dieci del nostro millennio. In ultima istanza, come una persona buona. Come quella che osservava l’orizzonte e accarezzava un terranova, in un pomeriggio di maggio di quasi dieci anni fa, pensando che dovesse avere qualcosa di speciale: perché nonostante i dribbling insistiti, e a volte insensati, che portava in scena ogni domenica, in qualche modo, era riuscito comunque a farsi volere un bene dell’anima, mortacci sua, bisbigliava qualcuno alle mie spalle.

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