Danilo Belluardo (12-3) esordisce questo sabato in UFC contro Joel Alvarez (15 vittorie, 2 sconfitte), nella categoria dei Pesi Leggeri. Belluardo, 24 anni, viene da 6 vittorie consecutive. In passato ha combattuto anche in Bellator ma non è stato fortunato. Il suo avversario, invece, viene da una sconfitta all’esordio in UFC, ma prima di quella veniva da 10 vittorie consecutive, tutte per sottomissione tranne una per KO tecnico. Belluardo diventa così il sesto italiano in UFC (l’ultimo dopo Amedovski, che però ha perso il suo ultimo incontro contro Jotko) e la sua chiamata ha destato sorpresa nel mondo, sempre più in crescita, delle MMA italiane.
Tu sei siciliano, di Trapani, ma ti sei trasferito. Da quanto tempo sei via dalla Sicilia? Che rapporti hai con l’isola? Ci torni spesso?
Com’è iniziato il tuo percorso nelle MMA? Da che sport arrivi?
La tua è un’altra storia di dedizione quasi assoluta allo sport e grande fiducia in te stesso, sui social hai raccontato che all’inizio non uscivi la sera per pagarti la palestra. Come ti hanno cambiato queste rinunce, ti hanno reso anche un ragazzo arrabbiato, affamato?
E oggi qual è l’emozione che più alimenta la tua voglia di combattere?
Qualcuno ha storto il naso quando ha letto della tua chiamata in UFC, anche perché da dilettante hai avuto un po’ di sfortuna. Poi però, dopo aver cominciato a combattere tra i professionisti, ti sei costruito un record invidiabile (12-3): cos’è cambiato?
Anche il tuo esordio in Bellator, ormai tre anni fa, è andato male, con la sconfitta contro A.J. “Mercenary” McKee (KO tecnico al primo round). Però hai detto anche che in quel periodo avevi problemi fuori dal ring… ti va di descrivermi un po’ quel periodo per farti conoscere meglio da chi ci legge?
Io dovevo combattere in Bellator, sapevo di dover guadagnare una bella borsa, riuscii a prendere un avvocato di fiducia, mentre mio fratello non poté pagarsi un avvocato e quello d’ufficio non riuscì a difenderlo decentemente. Per una cazzata del genere mio fratello si è preso due anni e otto mesi di carcere. A me toccarono tre settimane di domiciliari, con l’obbligo di firma per i quattro mesi successivi. In quel periodo abitavo con mio fratello, non vederlo più da un giorno all’altro fu davvero traumatico, una bella batosta. Non avevo più la testa, ero molto demoralizzato. Tre settimane ai domiciliari, senza allenarmi. Il taglio del peso era drastico, più delle altre volte, avrei combattuto nei Pesi Piuma (-66 kg), non la mia categoria di peso (quella dei Leggeri -70 ndr). È andata così.
Quando mio fratello venne scarcerato, poco dopo avrei dovuto combattere contro Luka Jelcic per il titolo FFC (dicembre 2016 ndr). Neanche a dirlo, arrivò la condanna definitiva per mio fratello. Un’altra mazzata. Ho saputo che mio fratello avrebbe dovuto farsi due anni e otto mesi. È stato un bel periodo di merda. Qualche mese fa, per la stessa storia, mi hanno condannato a tre anni e quattro mesi, ma ho fatto appello: nei video è chiaro che io separo la gente, non ho alzato una mano. Non mi crederai, ma ero lì in mezzo per separare. Ci sono le riprese, con il mio avvocato abbiamo fatto appello perché non può esistere una roba del genere.
E in tutto questo lungo periodo difficile non ha mai pensato di dover lasciar perdere con le MMA?
Molti non si spiegano la tua chiamata in UFC. Cosa pensi sia stato decisivo per convincere la più grande promotion al mondo?
Stefano purtroppo ha avuto palchi meno importanti, poi in Cage Warriors gli hanno dato avversari tosti, l’ultimo Ross Houston, contro il quale non è riuscito a vincere, e forse per questo non è riuscito ad entrare in UFC. Fosse stato sotto un management americano, magari sarebbe entrato anche così. C’è anche da dire che il suo manager, Alex Dandi, dopo essere riuscito a piazzare Amedovski adesso probabilmente ha più presa e potrà far meglio, portando magari altri italiani in UFC.
Tu a un certo punto hai deciso di andare in America ad allenarti. Quali sono le differenze maggiori che hai trovato fra i team italiani e quelli americani, nel tuo caso il team Alpha Male? Qual è il gap da colmare?
In America entro in palestra e c’è un team di professionisti con cui allenarsi. Quando mi alleno da Filippo, devo allenarmi con dilettanti o principianti perché sono l’unico pro. Sono sempre in giro, Milano, Roma, Trieste, una sfacchinata, sempre in macchina. In UFC chi continua a fare altri lavori è un’eccezione: Miocic ad esempio, il vigile del fuoco lo fa per aiutare le persone. Chi combatte in UFC, Bellator, ONE Championship – che sono le uniche tre degne di nota a livello mondiale secondo me – anche se è un fighter mediocre guadagna sui 30mila euro a match. Un atleta può non lavorare, e credo che a questi livelli bisognerebbe fare solo quello, dedicarcisi appieno.
Io adesso la sto mettendo giù così: se avessi i soldi, mi pagherei il pugile, per dire, più forte e mi farei allenare da lui. Se va bene, porto Khabib e mi faccio allenare da lui per migliorare il wrestling. Io ho una visione particolare, ho sempre pensato in grande. Finora mi ha portato buoni risultati e continuerò ad avere questa mentalità, anche in ottica UFC.
Secondo te avremo mai un evento UFC in Italia?
Tra gli alteti con cui ti sei allenato chi ti ha impressionato maggiormente?
Chi è stato il tuo idolo, chi ti ha avvicinato più al mondo delle MMA?
Apprezzi qualcun altro?
Hai un management italiano, Superbia di Luigi Perillo, e poi uno americano, di cui hai parlato prima. Come ti trovi con questo sistema?
Cosa pensi del tuo prossimo avversario, Joel Alvarez?
Senza nulla togliere a lui, che è bravo, ha un buon jiu-jitsu, ma in America ho fatto sparring con gente molto più forte. Sono stramotivato, super gasato e consapevole dei miei mezzi, di chi sono. So ciò che posso fare e so cosa farò. Qualsiasi cosa succeda, vittoria o sconfitta, passi un anno, due, non voglio far pronostici, ma sono sicuro che diventerò campione.
Non faccio neanche un passo indietro.