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Emanuele Atturo
Nessuno lo vuole, ma Medvedev è tornato
06 apr 2023
06 apr 2023
Un campione con un gioco difficile da apprezzare.
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Emanuele Atturo
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Foto di Geoff Burke / Imago
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Rafael Nadal tiene le mani sui fianchi, sciolto e sorridente davanti al microfono, quasi imbarazzato di fronte agli ennesimi onori della sua carriera. Un’impresa che si era tinta della grandezza dei grandi vecchi, dei giocatori che sconfinano nel mito mentre ancora sono in vita. Il suo corpo era andato oltre i limiti, fisici e temporali, una volta di più. Reggendosi in piedi per miracolo, in mezzo ai suoi discorsi medicalizzati alla Everyman di Roth, aveva vinto gli Australian Open, lo Slam a lui più ostile. Dietro di lui Daniil Medvedev ha lo sguardo basso e la bocca piegata in una smorfia di disapprovazione. Con i capelli radi e la barbetta luciferina sembra nato per stare dalla parte del cattivo sconfitto. Uno di quei giocatori che si è felici di applaudire quando perdono. Era già finito il suo momento?

Il tempo, come spesso succede nel tennis, aveva fatto uno strano giro. In una finale contro Rafael Nadal, ormai quattro anni fa, si era rivelato al mondo, creatura strana del circuito tennistico, spuntato da qualche buca in cui il diavolo l’aveva chiuso a coltivare le sue idiosincrasie. Colpiva la palla in modo diverso da tutti, aveva un senso dell’umorismo tagliente. Aveva promesso grandi cose, ne ha mantenute la maggior parte. Ha battuto in finale agli US Open un collassato Djokovic: a quel punto, a fine 2021, il suo tempo pareva arrivato. In quel momento però sta pensando ai due set che si è fatto recuperare, allo stadio che gli ha tifato contro, alla grandezza del giocatore di fronte a lui che probabilmente non riuscirà mai a eguagliare. Come ci si deve sentire, a essere tristi per qualcosa per cui tutti sono felici, e cioè la propria sconfitta? Mentre ha lo sguardo basso Medvedev sta forse maturando le parole che avrebbe pronunciato nella sua conferenza stampa. Parole di un'amarezza surreale, fuori contesto pur nel seriosissimo sport contemporaneo.A metà tra lo spietato e l’ironico, con affinati al massimo i suoi modi lunari, Daniil Medvedev aveva steso il suo manifesto: «Il bambino ha smesso di sognare. Da adesso in poi giocherò solo per me stesso e per la mia famiglia». Cos’era questa dichiarazione da cowboy? Era già finito il suo momento? Da quel giorno il suo tennis si spegne, perde l’anima sinistra e affilata che lo ha animato negli ultimi anni. Quando gioca male Medvedev non sembra appartenere all’élite del tennis. Intendo che senza il sostegno delle sue visionarie capacità mentali, ridotto alla pura tecnica - al ball striking direbbero gli americani - il suo tennis si riduce a una curiosità da wunderkammer. Un mese dopo la sua sconfitta con Nadal, la Russia invade l'Ucraina. Pochi giorni dopo perde la finale ad Acapulco di nuovo contro Nadal ed è in questo contesto poco allegro che diventa numero uno del mondo per la prima volta in carriera. Medvedev è il numero numero uno al mondo in uno degli sport più seguiti, ed è russo. La sua è una posizione difficile. Dice di volere la pace, è “dispiaciuto” per quello che stanno passando i tennisti ucraini. Ai microfoni la sua ironia si spegne: è strano sentirlo parlare come gli altri. Abbandonare quel modo stralunato di scherzare, provocare, sentire un po’ gli umori attorno. In quel momento non si sente accettato, anche se non ha fatto niente. In campo spesso gli tifano contro, e gli piace. È comunque slavo, gli piace il conflitto, sta seduto comodo dalla parte del torto. Stavolta però è diverso, il clima è pesante: è uno dei principali ambasciatori della Russia nel mondo, in un momento in cui tutto il mondo odia la Russia. Parte per Indian Wells ma in molti sostengono che non dovrebbe avere il diritto di partecipare, lui e gli altri giocatori russi. Gli tolgono la bandiera da accanto al nome, la riempiono di grigio. Perde al terzo turno a Indian Wells, perde la prima posizione nel ranking, poi perde presto anche a Miami. Si opera per rimuovere un’ernia. Ad aprile Wimbledon comunica il divieto di partecipazione agli atleti russi e bielorussi. Cosa deve dire Medvedev in quel momento, come può lottare per il diritto a fare il proprio lavoro senza sembrare sconveniente, di cattivo gusto? Tiene il profilo basso, dice che non ha nessuna decisione da prendere. Gli piacerebbe giocare perché ama Wimbledon, ma se non potesse allora niente; vorrebbe la bandiera russa accanto al suo nome, ma se non si può cosa deve fare. Non ha molti margini di discussione, ed è triste vederlo così piatto, scoraggiato. Non sembra lui, che di solito si porta dietro una presenza velenosa, ironica, sempre interessante.La sua stagione prende una piega paradossale. Un anonimato nutrito da risultati ambigui. Gioca i tornei che può, su erba, e vince tutte le partite che può, tranne le finali, dove perde fragorosamente sia a Hertogenbosch (da van Rijthoven) che ad Halle (da Hurkacz). In due finali vince solo dieci game. Eppure torna numero uno del mondo perché Wimbledon non assegna punti, ed è difficile ricordare una salita al numero uno meno gloriosa, più anti-climax, di quella di Medvedev. Era lì solo per ricordarci il grigiore che aspettava il tennis nell’epoca post-big-3? Un numero uno, un campione, di cui non interessa niente a nessuno. Questa sensazione sembra essersi appiccicata su Medvedev, che forse ha cominciato a credere anche lui di non essere abbastanza.È arrivata la stagione del cemento americano. La stagione dei ventilatori addosso ai giocatori esanimi, delle maglie fradicie, delle creme solari spalmate male. La stagione di Medvedev, di solito, che come tutti i demoni si trova a suo agio tra le fiamme dell’inferno di caldo e sudore. C’è qualcosa che però nel frattempo si è perduto, qualcosa della sua intensità strategica e competitiva. Perde due volte da Nick Kyrgios, e la seconda volta è agli US Open. Kyrgios col suo tennis fiammeggiante, imprevedibile, fatto di picchi visionari; Kyrgios che sfida anche lui il pubblico, ma spesso in modo ammiccante, seduttivo: per molti aspetti la sua nemesi. In più il talento di Kyrgios è evidente, mentre quello di Medvedev è più sottile e quindi più discutibile. Nell’intervista post-partita il russo dice di aver affrontato i Big-3 e che Kyrgios ha giocato più o meno a quel livello. Medvedev perde la prima posizione in favore di Carlos Alcaraz. È questa la successione al trono che il pubblico aspettava: un giocatore che ha i crismi del fenomeno generazionale. Potevamo accantonare Medvedev. Quando perde al terzo turno degli Australian Open con Korda esce addirittura dalla top-10. Non funziona niente del suo tennis. «Dopo la sconfitta con Korda sono cominciate due settimane molto complicate in cui aveva perso fiducia in sé stesso» confessa il suo allenatore, Gilles Cervara. Racconta che nei tre giorni prima di Rotterdam Medvedev ha messo in discussione il suo tennis. C’è un allenamento con Felix Auger-Aliassime in cui non funziona niente, e in campo Medvedev grida contro Cervara, che insiste: «Riprova, continua». Non esiste altra ricetta nel tennis, che perdersi nella ripetizione, nella routine ossessiva. Entrare in un regime di vita in cui la propria individualità perde i confini all’interno della disciplina stessa. Cervara scrive un bigliettino per Medvedev e lo lascia in una busta, sopra c’è scritto “Daniil, Rotterdam 2023”.Il tennis di Medvedev, come per miracolo, si aggiusta. Ritrova ritmo e intensità. Vince Rotterdam, vince Doha, vince Dubai. In questi tornei batte, anche nettamente, giocatori come Sinner, Djokovic, Rublev. A Indian Wells perde in finale contro Alcaraz, ma ormai sembra tornato. A Miami vince il torneo perdendo un solo set, in semifinale contro Khachanov. Da Rotterdam in avanti il suo tennis ha ritrovato fiducia, consistenza, continuità. Ha vinto 24 partite su 25, è numero uno della race, la classifica che misura le prestazioni lungo l’anno solare. Eppure c’è qualcosa che lo fa sembrare ancora un piccolo intruso. Ha vinto Miami, sbriciolato Sinner in finale, ma la sua vittoria sembra già sbiadita nell’immaginario, nel discorso comune. Si preferisce parlare della semifinale tra l’italiano e Alcaraz che della sua vittoria. Come se i successi di Medvedev continuassero in realtà a essere estemporanei, degli accidenti momentanei, prima che la nuova era del tennis - dominata da Sinner, Alcaraz, Rune - arrivi con la sua alba definitiva. C’è qualcosa nel gioco di Medvedev che continua a essere equivoco. Medvedev che tira tutto piatto più per difendersi che per attaccare, che ha il fisico da bombardiere ma gioca otto metri dietro la riga di fondo. Medvedev che vive i suoi turni di servizio con una fretta da catena di montaggio, che si lancia la palla per il servizio senza un briciolo della concentrazione giapponese dei grandi tennisti. Sembra nato per ribaltare tutte le convenzioni tecniche. C’è, però, soprattutto qualcosa di controculturale nel suo gioco. Non solo nella sua palese, ironica "sgraziatezza". Siamo in un’epoca di colpitori furiosi. Sinner, Alcaraz, Rune giocano per dominare le loro partite, arrampicandosi sulle correnti ascensionali degli scambi. Un tennis fluido, giocato sull’ispirazione, la brillantezza, gli scambi impostati come blitz. Medvedev preferisce la guerra di trincea, le cotture lente, gli scambi che si impiastrano di tattica e logoramento. «È molto pragmatico nella lettura del suo gioco. Vuole iniziare i suoi punti dal basso perché pensa sia più efficace così» dice Cervara. Si potrebbe definire “un contrattaccante”, se non fosse una definizione riduttiva. Una definizione che non riesce a descrivere del tutto la presenza che impone agli avversari. Pochi giocatori - sapete quali - ti danno l’impressione di non poter perdere un punto che vogliono vincere, Medvedev è uno di loro. Guardate per esempio questo punto, un’importante palla break a favore nel primo set della finale contro Sinner. È l’italiano a dominare lo scambio. Ci sono almeno tre colpi molto veloci e profondi, che con altri tennisti avrebbero costruito un attacco comodo. Medvedev invece ha una capacità prodigiosa di resistere, assorbire, ricominciare. Non cede mai completamente l’inerzia all’avversario. È un tennis giocato danzando su un cornicione. È Sinner che comanda lo scambio, ma quando sbaglia la misura dell’inside-out di dritto ci sembra in qualche modo inevitabile. Non si può continuare a essere infallibili a quella velocità. Allora siamo proprio sicuri che fosse Sinner a comandare lo scambio?

È un punto significativo del territorio equivoco in cui Medvedev porta i suoi avversari. Non sembra fare nulla di veramente speciale, se non imporre uno standard difficile da rispettare per chi lo affronta. Uno standard invisibile, che si scopre soprattutto nell’errore. Per questo è un match-up particolarmente intricato per Sinner, che colpisce più piatto di Alcaraz e non sembra riuscire a scalfire più di tanto la solidità del russo.Ecco un altro punto contro Sinner. L’Italiano sa che deve scendere a rete: è quella una strategia che può pagare contro Medvedev, che è sempre molto lontano nel campo. Però a rete bisogna giocare con grande qualità, altrimenti il passante arriva spietato, anche dal meno fenomenale lato del dritto.

Cervara definisce Medvedev “un pragmatico”, e lui stesso nelle interviste dice che gli piace attingere da un repertorio vasto di soluzioni. In lui, però, il pensiero è sempre più importante dell’esecuzione. Talvolta i suoi colpi sembrano mal eseguiti, ma così esatti tatticamente da portare i risultati. Ciò che conta è sempre il risultato: è questo il suo pragmatismo. Guardate questa palla corta, è uno sgorbio. Eppure muovere Sinner in avanti e passarlo era la cosa giusta da fare.

A Miami ha vinto l’unico torneo su cemento in cui non aveva ancora fatto finale. Ha celebrato la vittoria con una sua foto con le braccia larghe e la didascalia “Hard court specialist?”. Il riferimento è alla sua polemicuccia sulla lentezza del cemento di Indian Wells, quando aveva detto all’arbitro “Sono uno specialista di queste superfici”. Ha vinto 19 titoli, in 19 tornei diversi. Un traguardo impressionante, che la dice lunga sulla sua forza. Di questi 19 titoli, però, 18 sono arrivati su cemento. Medvedev è davvero uno specialista, nell’epoca del tennis che più premia l’universalismo, e questo è un fatto strano con cui scendere a patti. Come sappiamo, negli ultimi anni le superfici nel tennis si sono molto uniformate ed è sempre più raro trovare giocatori che costruiscono la propria carriera su una sola superficie. Figuriamoci quanto è difficile diventare numero uno del mondo vincendo solo su cemento, come ha fatto Medvedev. Avere la maggior parte dei tornei in calendario su quella superficie aiuta, certo. Ci sono ragioni tecniche per le difficoltà di Medvedev su altre superfici - l'assenza di variazioni, la piattezza dei suoi colpi, il posizionamento in campo. L’impressione, però, è che finora ci sia stata una mancanza di motivazioni, e di sicurezza nel poter fare risultati anche fuori dal cemento. Finora può vantare un quarto turno a Wimbledon, e un quarto di finale al Roland Garros. Le sue stagioni recenti su queste superfici sono state condizionate anche da problemi fisici e dal divieto di partecipazione nello Slam londinese. Il suo tennis fuori dal cemento avrà sempre possibilità ridotte, ma l’impressione è che gli manchi ancora davvero poco per diventare quanto meno un problema per i migliori anche su terra ed erba.Avere risultati dignitosi anche su altre superfici lo aiuterà soprattutto a migliorare la propria immagine. Il suo specialismo è anche quello che condiziona un po’ la percezione del russo, ne riduce in una certa misura la grandezza. Poi c’è anche il suo stile di gioco, a risultare difficile da apprezzare. Il tennis di Medvedev ha una natura distruttiva, ma sempre raffinata, subdola. Per questo risulta difficile da apprezzare. È bravo a offrire al suo avversario sempre il gioco che quello non vuole. Il suo ritorno in grande stile nel 2023 conferma però che appartiene ai vertici del circuito ed è lì per rimanere. A 27 anni è quasi un bambino per il tennis. Per ancora tante stagioni promette di offrire lo specchio cupo e spietato dentro cui gli altri tennisti, magari più belli di lui, continueranno a scoprire i loro limiti, le loro imperfezioni.

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