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Il talento da solo non basta, intervista a Daniele Scardina
25 ott 2019
25 ott 2019
Abbiamo parlato con uno dei pugili più eccitanti del panorama italiano.
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7 min
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Daniele “King Toretto” Scardina è uno dei nomi più caldi del panorama pugilistico italiano. Il suo record da professionista conta 17 match disputati, tutti vinti, 14 per KO. Lo scorso 8 marzo ha conquistato il titolo internazionale IBF dei pesi Supermedi battendo Henri Kekalainen per decisione unanime. Cintura poi difesa a giugno dall’assalto di Alessandro Goddi con un altro successo ai punti.

Scardina tornerà in azione venerdì 25 ottobre all’Allianz Cloud (ex Palalido) di Milano per una nuova difesa del titolo IBF. Il suo avversario sarà il belga Ilias Achergui (18-4-1), e il match si terrà sulla distanza delle 10 riprese.

A pochi giorni da questa nuova sfida abbiamo intervistato il pugile originario di Rozzano. La lunga chiacchierata ha toccato diversi argomenti e ci ha regalato alcuni aneddoti finora inediti.

Ti chiedo un giudizio sull’incontro con Goddi e se tutto è andato come avevate studiato con il tuo team.

È stato un match intenso, duro, che è andato secondo i piani. Con il mio team ragioniamo sempre nell’ottica di una crescita tecnica continua. Per preparare l’incontro ci siamo concentrati sugli aspetti che potevo migliorare, ci abbiamo lavorato sopra ed è andata alla perfezione.

Il 25 ottobre difenderai il titolo IBF contro il belga Achergui. Che incontro ti aspetti?

È un avversario con una buona esperienza, ha già vinto un paio di titoli a livello nazionale. Durante il match userò il mio stile: lavorerò spesso con il jab, pressando Achergui e alzando il ritmo per farlo sentire in trappola. Mi sto preparando al massimo per dare spettacolo e vincere.

Come prosegue la preparazione?

Dopo il mio ultimo incontro era estate e ho voluto rilassarmi, ho staccato completamente. Quando ho ripreso ad allenarmi, la prima parte di preparazione si è focalizzata su aspetti basici: lavoro con i pesi, corsa, cose simili. Poi ho iniziato a mettere i guantoni per fare sacco e passate e curare così la parte pugilistica. È da quando sono arrivato a Miami che ho cominciato a spingere al massimo. Adesso sto facendo sparring con atleti molto validi, alcuni hanno anche partecipato alle Olimpiadi, altri sono pugili professionisti imbattuti. Sta venendo fuori un ottimo camp.

Dopo una fortunata carriera da dilettante, nel 2015 hai deciso di trasferirti a Miami, nella celebre palestra 5th Street Gym. È stato difficile ambientarsi in America?

Prima di passare professionista ero già venuto qui a Miami in qualche occasione, e in precedenza sono stato a New York un paio di volte.

All’inizio è stata durissima, soprattutto a NY. Ero arrivato lì senza soldi, avevo solo un amico che mi ha aiutato ad ambientarmi. In palestra è stata tosta, tutti mi guardavano come per dire: «Chi è questo? Cosa vuole?». Ho dovuto guadagnarmi il loro rispetto prima sul ring e poi anche mostrando la persona che sono.

A Miami ci sono arrivato con mio fratello, di nuovo senza un soldo e senza nessuna garanzia.

L’ambientamento in palestra è stato un po' diverso. Qui ho dovuto dimostrare che ero motivato e che fare il pugile professionista era davvero il mio sogno, insomma che ci credevo veramente. Facevo sparring molto spesso per mostrare a tutti la mia forza di volontà. Mi allenavo tre volte al giorno, ero sempre in palestra, anche ad aiutare il Maestro con gli altri ragazzi.

Tutt’ora è così, perché sono la bandiera della palestra e voglio sempre dare qualche consiglio a chi viene ad allenarsi. Anzi adesso, essendo un punto di riferimento, devo far vedere ancora di più la mia umiltà e dare l’esempio, in primo luogo a me stesso, perché sono solo all’inizio di un percorso lungo. Bisogna avere fame, sempre. E poi è importante mostrare agli altri ragazzi che se hai questo sogno devi essere pronto a dare tutto, ma non solo in palestra. A casa, con la dieta, la mentalità giusta, ovunque e sempre.

Il tuo percorso da pro è iniziato con ben 5 match in Repubblica Dominicana, 7 in totale in quel Paese. Come sei finito lì? Hai disputato anche un incontro ad Haiti.

Uno degli allenatori della mia palestra è portoricano e aveva contatti nella Repubblica Dominicana. Volevo mettermi alla prova, iniziare la mia carriera e fare esperienza per crescere pugilisticamente. Poi è un Paese che storicamente ha avuto tanti campioni e una grande storia nel pugilato.

Il primo incontro l’ho fatto in un carcere di Santo Domingo. È stato incredibile: avrei voluto filmarlo, ma per ovvi motivi non ho potuto farlo. Comunque mi ha aiutato a gettare le prime fondamenta da professionista.

Ad Haiti ci hanno invitato a combattere per il primo “titolino” che ho vinto, quello WBA Fedecaribe. Avevano organizzato davvero un mega evento, è stato bellissimo partecipare.

Foto di Emanuele Cremaschi/Getty Images.

Nel dicembre 2017 hai vinto un match nonostante ti fossi rotto il tendine del braccio. Ad oggi è stato quello l’incontro che ti ha insegnato di più? Ne ricordi qualcun altro in modo particolare?

Guarda, in generale ogni match che ho fatto mi ha aiutato a crescere. Nella mia carriera ho avuto momenti di difficoltà in diversi incontri, ma ho imparato a gestirli e tutto ciò è servito a temprare il mio carattere. Ho imparato che davanti agli avversari non ho limiti, la mia motivazione è sempre al primo posto.

Sicuramente la rottura del tendine mi ha fatto capire fino a dove potessi spingermi e quanto potessi sopportare. Lì mi sono trovato con il braccio distrutto al secondo round, non riuscivo a muoverlo. Combattevo qua a Miami, in casa, davanti ai miei manager, la mia famiglia, amici, tante persone care. Il mio avversario era esperto e doveva vincere, era un incontro fondamentale per lui. Grazie a Dio ho tenuto duro e sono riuscito a chiudere l’incontro con un bel TKO.

Ho visto diversi tuoi match, e mi sembra che le tue armi migliori siano la gestione della distanza, l’uso del jab (che spesso doppi), anche combinato con il gancio, e una fase difensiva efficace. Condividi?

Sono d’accordo con la tua analisi. Penso che il jab sia la chiave, il punto di partenza della boxe in generale e di ogni combinazione sul ring. Poi io alterno le altezze dei colpi, li porto sia sopra che sotto per fiaccare il mio avversario, spesso con la stessa mano. Mi piace molto anche incassare per poi rispondere e agire di rimessa.

Tecnicamente su cosa hai lavorato nel passaggio dal dilettantismo al professionismo?

È tutto completamente diverso. Da professionista quando carichi i colpi devi riuscire a farli esplodere in modo concreto e deciso, devono essere potenti. Qui in America si focalizzano molto sul “sedersi” prima di colpire, ovvero flettere le gambe per raccogliere la forza dal pavimento; devi quasi schiacciarti al suolo per poi esplodere i colpi.

Se invece sei un dilettante lavori più sul ritmo, sull’essere scattante, mettere tante combinazioni “toccando” l’avversario. Come pro invece è come se tu stessi cucinando qualcosa: ci sono diversi passaggi prima di arrivare a sfornare il piatto.

Conta saper gestire ogni round ed essere in grado di muoversi sul ring. Ma anche la difesa è fondamentale.

Pure a livello di sparring cambia molto, a Miami si va davvero forte. Ogni sessione di guanti sembra quasi che tu stia facendo un match. Arrivano pugili da fuori e vengono in palestra con tanta fame e voglia di farsi notare. Non sai mai con chi ti confronti, c’è sempre adrenalina. Sono aspetti che impari a gestire e che mentalmente ti preparano all’incontro.

Mi ha colpito una frase che hai detto in un’intervista alla Gazzetta dello Sport: «Io non sono un talento. La mia vera forza è l’allenamento maniacale».

Il talento da solo non basta, se lo possiedi ma non hai altre basi solide, ti lascia a piedi. Penso che la mia forma di talento sia la forza di volontà, la capacità di sacrificarsi e la convinzione di crederci sempre. Non mi sono mai arreso nella vita, mai.

Sono cose che certamente hai dentro, con cui nasci, ma che devi allenare e coltivare. Io prima di arrivare a un incontro do il massimo in qualunque aspetto della preparazione, dalla corsa alla dieta. Il mio talento è credere nel lavoro duro e nella forza di certe rinunce, che ti ripagano.

Resti molto legato al tuo luogo di origine, Rozzano. Spesso la vita di periferia segna, ma talvolta concede anche occasioni di riscatto. Rozzano cosa rappresenta per te? La consideri ancora casa tua?

È casa mia, il posto in cui sono nato e cresciuto. A Rozzano ho fatto di tutto, è stata una palestra di vita. Mi ha fatto capire che volevo riscattarmi, che era possibile uscire da quella situazione e che esisteva un’alternativa alle strade sbagliate. Ho fatto i miei errori, ma sono serviti a darmi la spinta per emergere e conquistare il mondo, anche se sono solo all’inizio.

Voglio essere un esempio per i giovani di periferia. Sono la prova vivente che se nasci in situazioni difficili un riscatto è sempre possibile.

Il tuo idolo è il pugile Miguel Cotto. Cosa ti colpisce del portoricano?

Lo apprezzo per il suo stile pugilistico e come persona, dato che è sempre stato molto educato e umile. Rispettava gli avversari, ma quando arrivava il momento di combattere cambiava, diventando agguerrito e deciso.

Come vivi il fatto di essere imbattuto? Mentalmente è uno stimolo o alla lunga rischia di diventare un peso?

Penso soltanto a vincere e a continuare a farlo, quindi lo definirei uno stimolo. Non è assolutamente un peso, ma in realtà non ci penso più di tanto. Sono concentrato sul duro lavoro e sull’arrivare al 25 ottobre pronto per portare a casa una vittoria.

Ormai sei diventato un personaggio mediatico. Sei un ragazzo di bella presenza, molto tatuato, atleta professionista con lo stile di vita e lo status che ne deriva. Corrispondi a molti canoni di moda e costume attuali. Quanto pensi siano importanti questi aspetti per un pugile, e per qualsiasi sportivo, oggi? Non basta più il solo risultato agonistico per imporsi?

Siamo in un mondo in cui domina l’apparenza. Quello di cui sono convinto è che però bisogna anche avere sostanza, soprattutto per durare. Il “personaggio” che mostro al pubblico è quello che sono io: sono fatto così, dai tatuaggi al resto. È vero che sono mediatico, ma esprimo semplicemente me stesso, è una conseguenza di ciò, non è una cosa che ho cercato a tutti i costi.

Il messaggio che deve arrivare alle persone è di essere sempre naturali. Io se ho voglia di farmi una foto mentre sono in barca la faccio, ma se mi va la scatto anche se sono in bicicletta. Più esprimi la persona che sei realmente e più sei cool.

Ognuno di noi è fatto a suo modo, invece spesso sembriamo tutti uguali. Bisogna essere sé stessi per differenziarsi davvero dagli altri.

Oggi i social sono fondamentali nella costruzione di un immaginario legato all’atleta e sono un importante strumento di promozione. In quale ottica li utilizzi? C’è qualcuno che ti aiuta a gestirli?

Li gestisco io in modo molto spontaneo, c’è poco di ragionato. Sono un’occasione per far conoscere a chi mi segue come sono fatto. Mi divertono, posso condividere quello che faccio con i miei fan, che mi danno sempre affetto. Poi ci sono anche gli haters, ma non ci bado.

Comunque i social sono interessanti da utilizzare, ma bisogna stare attenti. Non devono mai prendere il sopravvento sulla vita reale, specialmente se sei un atleta. Non possono diventare una fonte di distrazione.

Hai diverse amicizie nello star system. Ti cito una frase di Gué Pequeno in occasione di un tuo match recente: Daniele è supportato da diverse persone del mondo dello spettacolo [..]. Tutto questo contribuisce a creare valore per l’evento, a far sì che se ne parli e a dargli visibilità. Condividi le sue parole?

Assolutamente sì. Ho molte amicizie in quell’ambiente, tutte basate sul rispetto reciproco. Cerco sempre di coinvolgere tanti di loro, spesso appartenenti a diversi mondi, dal calciatore al cantante, perché credo molto in questa contaminazione. Voglio portare nuovo pubblico a vedere la boxe. Grazie alla mia umiltà le persone si affezionano a me, e poi è naturale che vengano a sostenermi quando combatto. È fondamentale avere intorno amici e fan che credono in quello che fai.

Foto di Emanuele Cremaschi/Getty Images.

Nonostante il tuo look aggressivo, sei mosso da grandi valori: la fede in Dio, l’amore per tua madre, il forte senso di appartenenza per le tue origini. Pensi che due aspetti così diversi della tua personalità ti rendano un personaggio unico?

Inevitabilmente sì, ma è quello che sono io. Mi pongo sempre in modo sincero e trasparente, non sono mai finto. Riguardo i valori che menzionavi, il punto fermo della mia vita è Dio, tutto quello che sono è grazie a lui. Ho trovato la fede nel periodo di cui ti accennavo prima, quando ero da solo a New York. Lì ho avuto delle rivelazioni, la presenza di Dio mi ha aiutato ad andare avanti e a superare momenti difficili.

Credo moltissimo anche nella famiglia, è uno degli aspetti più importanti della vita e la mia mi rende felice.

Il flirt con Diletta Leotta ti ha catapultato su tutti i principali quotidiani nazionali e di gossip. Come hai vissuto questa sovraesposizione mediatica?

Sì, questa estate ero su tutti i giornali (ride, nda). Però guarda, non ci ho mai dato peso e non mi interessava. Ogni tanto ho letto qualcosa per curiosità, tutto qui. Non ho mai voluto rilasciare dichiarazioni in merito perché sono cose che si vivono, è inutile parlarne.

DAZN, Matchroom Boxing e OPI Since 82 hanno deciso di investire anche su di te per il rilancio della boxe italiana. Che sensazioni provi? Come vedi la situazione attuale del pugilato in Italia?

Sono molto orgoglioso che sigle così importanti mi abbiano scelto e che puntino su di me. Penso che grazie a questa operazione di rilancio il pugilato in Italia stia crescendo, ma ci vorrebbe più sostegno dal mondo della boxe. Noi atleti abbiamo il compito di rendere cool e popolare questo sport, ma chi ci lavora deve sostenere a sua volta questo sforzo.

Bisogna credere in questo progetto, che può renderci grandi non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Abbiamo le carte in regola per “spaccare”, bisogna collaborare. Come dico spesso, l’unione fa la forza.

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