Quando nel 1979 gli Stati Uniti vengono colpiti dalla seconda crisi del petrolio non sono molte le persone che possono ritenersi fortunate. Sei anni prima un battito d’ali all’Organizzazione dei Paesi Arabi Esportatori di Petrolio, che aveva deciso di bloccare le esportazioni verso molti stati occidentali, ha provocato un uragano dall’altra parte dell’oceano, dove il prezzo della benzina è diventato insostenibile. In realtà già trovarla, la benzina, sarebbe un piccolo miracolo perché gran parte delle pompe negli Stati Uniti è chiusa e davanti alle poche aperte si formano file di cui non si intravede la fine. I supermercati sono vuoti per gli scioperi degli autotrasportatori, i cantieri fermi e la situazione è talmente drammatica che il religiosissimo presidente Jimmy Carter in preda a disperazione mistica pronuncia lo storico discorso sul malessere a una nazione che fino a quel momento aveva guardato al sol dell’avvenire senza alcuna incertezza.
Eppure anche nel limbo c’è qualcuno che i soldi li fa. Poco più di dieci anni prima la Toyota, allora misconosciuta azienda automobilistica giapponese, ha iniziato a conquistare il mondo distribuendo le sue macchine negli Stati Uniti. E per farlo si è rivolta, tra gli altri, al leggendario costruttore Carroll Shelby, che negli anni precedenti ha prestato il suo ingegno alla Ford per la costruzione di un’automobile che potesse battere la Ferrari alla 24 Ore di Le Mans (se vi sembra di aver già sentito questa storia è perché proprio l’anno scorso Hollywood ha deciso di farci un film, Ford v Ferrari, in cui Shelby è interpretato da Matt Damon). Dalla collaborazione tra Shelby e la Ford nascono alcune delle più iconiche macchine della storia automobilistica americana, come la Mustang o la Cobra, ma non grandi intuizioni imprenditoriali. Quando infatti Shelby va dal vicepresidente della Ford, Lee Iacocca, per un consiglio riguardo alla proposta della Toyota, quest’ultimo lo guarda sprezzante e gli risponde che i costruttori statunitensi di automobili «respingeranno i giapponesi nell’oceano».
Shelby, pensando che Iacocca se ne intenda, gira allora la proposta a uno dei suoi amici e compagni di autodromo, Thomas Friedkin, che invece non ci pensa due volte. Non sappiamo se la sua è un’intuizione o più voglia di voltare pagina. Nel 1969, quando riceve l’esclusiva dalla Toyota per vendere le sue macchine in Arkansas, Lousiana, Mississippi, Oklahoma e Texas, Thomas Friedkin ha appena 34 anni ma è già orfano di entrambi i genitori da quando ne aveva 28 e non gli è rimasto che gestire la compagnia aerea ereditata dal padre Kenny, la Pacific Southwest Airlines, e godersi la vita con sua moglie Susan. Fatto sta che dieci anni dopo, mentre in Iran cacciano lo scià fondando la repubblica islamica, la sua nuova società, la Gulf States Toyota, vende all’anno quasi 70mila automobili giapponesi, i cui innovativi motori che promettono di abbattere drasticamente il consumo di carburante sembrano una manna dal cielo, adesso che di benzina non ce n’è più. «Almeno un amico ha fatto i soldi», dirà Shelby anni più tardi, con una punta di amarezza per quel “miliardo di dollari” che nelle sue previsioni l’avrebbe fatto finire in una bara.
Invece che per schiantarsi con una macchina, Thomas Friedkin quel miliardo di dollari lo utilizza per emanciparsi da quello che, ancora allora, era di fatto il suo lavoro a tempo pieno - e cioè il pilota di linea della sua stessa compagnia aerea. Per quanto possa sembrare paradossale, i Friedkin non hanno mai voluto dare l’impressione di essere degli imprenditori, forse perché conoscono l’intrinseca volgarità del denaro. Soprattutto, hanno avuto sempre la necessaria riservatezza per riuscirci. Bernie Little, un amico di Thomas Friedkin con cui era comproprietario di una corsa tra idrovolanti sponsorizzata dalla Budweiser, per esempio scoprì con sua grande sorpresa che controllava la Pacific Southwest Airlines solo quando gli chiese esplicitamente di vendergli un aereo per la sua compagnia.
Thomas Friedkin.
In ogni caso, con la fortuna della Gulf States Toyota, Thomas Friedkin si dedica ai suoi hobby. La caccia, le macchine, ma soprattutto gli aerei d’epoca, che inizia a collezionare come noi faremmo con i francobolli o i numeri di Dylan Dog. Una passione che forse è un riflesso della prematura perdita dal padre Kenny, che dopo un passato da istruttore di volo della Royal Air Force durante la Seconda Guerra Mondiale ha messo le basi della fortuna di famiglia fondando la Pacific Southwest Airlines - una compagnia aerea divenuta famosa negli anni ’50 per i sorrisi dipinti sotto il muso degli aerei, le minigonne cortissime delle sue hostess e i prezzi talmente bassi da assumere, tra gli uomini della Marina che frequentavano i suoi voli tra San Diego e San Francisco, il soprannome di Poor Sailor's Airline (cioè letteralemente: “compagnia aerea del marinaio povero”).
Uno Spitfire, un Mustang, Northrop F-5B, e così via. La collezione di aerei d’epoca di Thomas Friedkin cresce fino a fare gola al mondo del cinema, che di quegli aerei ha bisogno per riprodurre la guerra o chissà cos’altro sullo schermo. I primi ad avvicinarsi sono i produttori di Baa Baa Black Sheep - una serie TV trasmessa sulla NBC tra il 1976 e il 1978 sulle avventure di una squadriglia di Marines di stanza nell’arcipelago delle Salomone durante la Seconda Guerra Mondiale - che avrebbero bisogno del suo Corsair. Friedkin accetta, ma ad una condizione: «L’aereo lo guido io». È la porta d’ingresso alla sua lunga e sorprendente carriera nel mondo del cinema, che lo vedrà interpretare (come attore o come stunt-man, poco cambia) soprattutto piloti di aerei o di elicotteri (per esempio ne Lo squalo 4 - La vendetta) ma anche ritagliarsi piccoli ruoli minori slegati dalla sua figura di collezionista di aerei d’epoca, come quello di un minatore ne Il cavaliere pallido - western del 1985 diretto e interpretato da Clint Eastwood.
Il cinema, comunque, è per Thomas Friedkin ciò che le camicie hawaiane erano per suo padre Kenny - e cioè un travestimento per sembrare più eccentrico del classico imprenditore miliardario. Nel frattempo, comunque, il suo impero cresce, cambiando. Nel 1986 vende la Pacific Southwest Airlines per circa 400 milioni di dollari alla USAir. Tre anni dopo - sfruttando un’altra delle sue passioni, la caccia - espande le proprie attività in Africa, fondando società di caccia e safari in Botswana (poi abbandonata) e Tanzania, dove controlla enormi fette di territorio in cambio di investimenti destinati alla conservazione e alla difesa della fauna. Oggi il Friedkin Conservation Fund consiste in un’area di circa 13mila chilometri quadrati (poco meno della Campania, per intenderci) in Tanzania, dove cerca di mantenere il fragilissimo equilibrio tra lo sfruttamento capitalistico del turismo di lusso (e quindi anche della caccia) e la lotta ai bracconieri.
La sua esperienza di imprenditore si chiude nel 2001, proprio mentre a Roma si festeggia quello scudetto senza il quale probabilmente il gruppo Friedkin non sarebbe mai venuto a conoscenza della squadra giallorossa. È l’anno in cui Thomas lascia ufficialmente la guida delle fortune di famiglie al figlio Dan, con la solita premura di non apparire troppo interessato alla sua stessa ricchezza. «In questi giorni sono praticamente uno scansafatiche», dichiara in un pezzo del tempo di Forbes che rimane una delle pochissime testimonianze della sua vita. «Non sono una persona avida, non voglio guadagnare fino all’ultimo dollaro». In quegli anni la Gulf States Toyota vende circa l’11% di tutte le Toyota comprate negli Stati Uniti.
Il passaggio di consegne tra Thomas e Dan, quindi, non è violento e improvviso come quello tra Thomas e Kenny, che morì senza alcun preavviso nel 1962 a 47 anni - e accentua ancora di più l’impressione che in realtà non sia successo niente. Mai come nel caso dei Friedkin, infatti, si fa fatica a distinguere le vite dei padri da quelle dei figli. Anche lui appassionato di caccia (soprattutto al cervo), anche lui pilota di aerei d’epoca in alcuni film e serie TV, Dan ha portato avanti l’impero familiare con un culto della riservatezza se possibile ancora più ossessivo, al punto da riuscire a tenere all’oscuro della stampa la morte del padre (avvenuta nel marzo del 2017) per più di una settimana.
In pochi lavorano dietro le quinte come Dan Friedkin, insomma, che negli ultimi anni ha portato l’impero familiare a investire nel mondo del cinema (con una propria azienda di produzione cinematografica, la 30WEST, molto attenta ai film indipendenti), ma soprattutto a ritagliarsi un ruolo politico molto più definito in Texas. Negli ultimi anni Friedkin è diventato uno dei principali sostenitori del super-conservatore vice-governatore del Texas, Dan Patrick, che in cambio nel 2015 lo ha reso presidente della Commissione per i Parchi e la Fauna dello stato americano.
La Roma, in questo senso, è il primo investimento che rompe con la tradizione familiare, di cui aveva ricalcato le orme fino a quest’anno in maniera talmente attenta da arrivare ad emularla esplicitamente. In una delle sue apparizioni cinematografiche, quella nel finale di Dunkirk, Dan Friedkin pilota uno degli Spitfire della collezione di famiglia facendolo atterrare su una spiaggia deserta, in un’incredibile citazione sia della vita del nonno Kenny (pilota della RAF) sia di quella del padre Thomas (pilota per il cinema).
Come loro desideroso di mostrarsi più grande della sua ricchezza, Dan Friedkin, in assenza di ulteriori dettagli sulla sua vita e sulla sua personalità, non si lascia definire da nulla se non dalla vita dei suoi avi. Chissà che anche per lui il 2020 non rappresenti l’inizio di una nuova era.