
Pochi giorni fa, ospite al canale Twitch Jijantes FC, Ricky Rubio ha parlato del caso di Mohamed Dabone, giocatore di basket del Barcellona che ha recentemente esordito in prima squadra a 13 anni e 10 mesi, in occasione di un’amichevole precampionato contro il Girona, giocando 9 minuti in cui ha messo a referto 4 punti e 3 rimbalzi.
«Sembra quasi uno sfruttamento», ha detto, «se hai qualità a 13 anni, probabilmente puoi giocare anche a 16 o 17. Ogni cosa ha il suo tempo. Non si può sacrificare una fase essenziale della crescita personale per ottenere risultati immediati».
Ricky Rubio parla con cognizione di causa, essendo stato uno dei primi bambini prodigio del basket spagnolo. Ha esordito da professionista a soli 14 anni, 11 mesi e 24 giorni con la Joventut Badalona attirando grandi attenzioni da tutto il mondo. Rubio fu il più giovane di sempre a debuttare nella Liga ACB (era il 2005), un record poi superato da Basala Bagayoko e che ora, forse, verrà battuto da Dabone, dovesse esordire anche in gare ufficiali, visto che il Barcellona ha chiesto una deroga al CSD per poter iscrivere il giocatore alla prossima ACB nonostante l'età minima sia di 16 anni.
Il tema della precocità degli atleti è interessante e poco dibattuto. Il mondo del lavoro ha una regolamentazione ferrea a riguardo e oggi ci sembra semplicemente assurda l’idea di un bambino di 13 anni che “lavora” (seppure non era così fino a non troppi anni fa e sappiamo come in altri Paesi è una pratica tuttora esistente). Nello sport però fatichiamo ad abbinare le prestazioni degli atleti al concetto di “lavoro”, dopotutto parliamo di “gioco”, un’attività che fa parte della vita fin dall’infanzia. Eppure ad alti livelli il sistema delle pressioni e delle aspettative può avere un impatto devastante su un ragazzo così giovane.
Per Rubio, che di questa pressione ha ammesso di aver sofferto, anche per gli atleti l’ingresso nel mondo del professionismo dovrebbe essere regolato: «Servono professionisti che sappiano valutare quando è il momento giusto per iniziare. Ci sarà sempre chi è più maturo a 16 che a 18, ma bisogna stabilire regole chiare, basate su studi e competenze». Se esistono delle limitazioni nella vita di tutti i giorni, perché non nello sport? «A 16 anni non puoi guidare un’auto, anche se potresti avere più capacità di uno di 18. Ma nessuno si lamenta, perché la legge è quella. Debuttare in una squadra di professionisti significa entrare in un mondo pericoloso, esposto a molte influenze, e dovrebbe essere regolamentato».
È un tema delicato, e anche complicato, dove non esiste una risposta giusta. Secondo diversi studi diventare professionista troppo presto può esporre a rischi: burnout, pressioni psicologiche, aspettative troppo alte senza che siano sviluppate tutte le basi fisiche e mentali. D'altro canto però non esiste una data univoca in cui si diventa maturi abbastanza da affrontare il mondo dello sport e, da un punto di vista sportivo, iniziare presto a confrontarsi con i migliori può aiutare nel massimizzare il proprio talento e allungare la carriera, migliorando la parte economica. Dabone è un prodigio sia fisico che tecnico: a 13 anni è alto 210 centimetri e ha un fisico fatto e finito per il campo da basket. Se il livello del suo gioco è quello dei professionisti, perché non dovrebbe stare tra i professionisti?
Su di lui la discussione è scivolosa perché ci sono anche dei dubbi sulla sua vera età: Dabone è stato registrato in Spagna con un passaporto rilasciato dal Togo, pur essendo lui nato in Burkina Faso, ma non è il punto di questa riflessione. Dabone verrà probabilmente inserito in maniera molto cauta dal Barcellona nella sua prima squadra. Il suo debutto è sembrato più un premio per il suo talento o magari una prova, per capire se già il suo livello è davvero quello dei grandi.
Nell’era dei social e delle notizie che girano velocemente, che finisca per giocare in prima squadra da subito o meno, Dabone a 13 anni è già circondato da molte aspettative. Di lui si parla come del nuovo Giannis Antetokounmpo o del nuovo Victor Wembanyama (che di suo ha solo 21 anni e non ha ancora iniziato la terza stagione in NBA) e internet è pieno di suoi video in chiave “possibile nuovo fenomeno”. Come ha sottolineato il Wall Street Journal “Dabone riflette un mondo del basket cambiato rapidamente negli ultimi anni. Quando i Milwaukee Bucks selezionarono il diciottenne Antetokounmpo come quindicesima scelta nel 2013, molti tifosi rimasero perplessi dal fatto che una squadra potesse scommettere su un giocatore sulla scorta di qualche filmato sgranato che veniva dal campionato greco”.
Dabone deve quindi già convivere con la pressione, forse a prescindere dal livello a cui giocherà nei prossimi due anni. L’assurdità, però, è che anche se Dabone dovesse diventare un giocatore fenomenale già nei prossimi due anni, per rendersi eleggibile per il Draft dovrebbe aspettare almeno dopo il 2030, se nel frattempo le regole non cambieranno. Per le leghe sportive americane infatti si può entrare in una franchigia solo dopo una certa età. Per la NBA la regola è che un atleta debba avere almeno 19 anni nell’anno solare del Draft. Il che vuol dire, per gli atleti formati negli Stati Uniti, almeno un anno di distanza dal diploma di high school. Fino al 2006 la soglia era di 18 anni, ma in seguito a diverse polemiche venne appunto alzata a 19 anni, creando il fenomeno degli one-and-done, cioè ragazzi già pronti per la NBA costretti a passare un anno in NCAA.
Se ci pensate è una grande diversità: Dabone può giocare nella Lega ACB e in Eurolega già oggi, ma deve aspettare 5-6 anni per farlo in NBA. E se si dimostrerà così precoce da essere il miglior giocatore di basket al mondo tra due o tre anni? Sembra un discorso assurdo, e lo è, ma pensateci: e se Lamine Yamal fosse stato un giocatore di basket? Per paradosso il miglior giocatore al mondo non avrebbe potuto giocare nel miglior campionato del mondo.
È un discorso senza né capo né coda, e il basket e il calcio sono due discipline diverse per maturazione fisica e tecnica degli interpreti. Però Lamine Yamal è un caso interessante, visto che è tra i migliori al mondo da almeno un paio d’anni, ha esordito nel Barcellona a 15 anni ed è titolare da quando ne ha 16. Se il calcio avesse dei paletti stringenti per l’età, e non come ora che esistono delle norme che possono essere facilmente derogate (è successo anche in Serie A con Camarda), avremmo perso questa precoce affermazione del talento di Lamine Yamal. Una perdita che non è detto sarebbe stata peggio: in Spagna si parla molto dell’impatto del calcio di alto livello di oggi, cioè quello delle 70 partite l’anno a mille all’ora, sul corpo di ragazzi minorenni. Pedri e Gavi hanno pagato in parte le conseguenze, e adesso si spera non accada lo stesso con Lamine Yamal.
Leggendo la storia di Dabone mi è tornato in mente il documentario che racconta gli anni sportivi di LeBron James al liceo, More Than a Game. Vederlo giocare in quelle partite è come assistere a un adulto che ruba le caramelle ai bambini. James ha la stessa età dei suoi avversari, ma definitivamente è più grande, in tutto: è più grosso, più alto, più veloce, più forte, più intelligente, è anche più adulto nel senso più ampio del termine.
Perché allora LeBron è lì? Lui avrebbe potuto fare un discorso opposto da quello di Rubio. Perché non mi avete lasciato giocare in NBA, che era già il mio posto, a 15 anni, 16 anni? E lui è stato tra gli ultimi a poter fare direttamente il salto dal liceo. Non solo oggi avrebbe più soldi, che comunque, alla fine non è stato un problema (ma se avesse subito un brutto infortunio?) ma avrebbe anche dei record migliori, visto che comunque gioca per i record. Certo, si può anche dire che esordendo tra i grandi a 15 anni si sarebbe “consumato” prima e non sarebbe arrivato a 40 anni essendo ancora tra i migliori della NBA.
Il suo debutto in NBA, era già abbastanza pronto.
La scelta della NBA di ritardare l’accesso nella Lega sembra più dettata dallo sviluppo dello sport da quelle parti che non da una scelta etica, comunque. Con le scuole a fare da giovanili al posto delle franchigie deve essere stata una naturale conseguenza di questo sistema ibrido scuola-sport. Non che non abbia i suoi problemi: fino a due anni fa gli studenti-atleti erano completamente tagliati fuori dagli introiti milionari che facevano guadagnare alle università con i loro corpi. Un altro tipo di sfruttamento, se ci pensate. Oggi col NIL - acronimo che sta per Name, Image, and Likeness e che indica la relativa normativa - gli atleti delle università possono essere pagati diventando quindi, di fatto, dei professionisti anche prima di entrare in NBA, anche se poi a livello burocratico e legislativo non è così (non mi dilungo oltre per non appesantire il pezzo, ma se volete una spiegazione più esaustiva potete trovarla su ESPN).
Esistono sport in cui poi non ci sono squadre o campionati a fare da filtro, nel bene e nel male, tra un giovane e il livello più alto della competizione. Quest’estate ai Mondiali di nuoto la Cina ha portato tra le sue atlete Yu Zidi, 12 anni. Guardare le sue foto fuori dall’acqua è un’esperienza straniante: Yu è - letteralmente - una bambina in mezzo a delle adulte. Se i 2 metri e 10 centimetri di Dabone aiutano a digerire la presenza di un tredicenne in mezzo a degli adulti, nel suo caso non c’è neanche questo aspetto fisico.
Yu invece dimostra tutti i suoi 12 anni, nel viso da bambina e nel fisico, ma poi in acqua nuota i tempi di un'adulta. Non solo: da adulta molto forte, visto che ai Mondiali è arrivata quarta nelle finali dei 200 metri farfalla e dei 200 misti e ha vinto la medaglia di bronzo nella staffetta 4×200 stile libero, diventando la più giovane di sempre a vincere una medaglia.

In teoria Yu non avrebbe potuto prendere parte alla manifestazione: dal 1991 esiste una norma della World Aquatics che vieta alle persone con meno di 14 anni di partecipare ai Mondiali. Serve per tutelare le prime fasi di sviluppo degli atleti, ma si possono fare eccezioni nel caso di tempi che raggiungono determinati standard di qualificazione, come appunto nel caso di Yu.
La sua presenza ai Mondiali ha suscitato scalpore: L’Équipe l’ha definita una “aberrazione regolamentare e fisiologica” e anche Brent Nowicki, il direttore esecutivo della World Aquatics, era piuttosto perplesso: «I nostri standard ‘A’ sono così rigidi, così stretti, che onestamente non pensavo fosse possibile una dodicenne riuscisse a ottenere un tempo del genere». Su El Pais si sono chiesti “fino a che punto è giusto, o etico, che una ragazza si alleni e gareggi a questo livello? Quali implicazioni fisiche e mentali comporta? È pronta o è trascinata da un sistema eccessivamente avido?”.
Ovviamente ci sono delle contingenze in questo caso specifico: l’allenamento del nuoto non stressa le articolazioni come quelli di quasi tutti gli altri sport, essendo svolto in acqua, e questo permette di aumentare i carichi di lavoro anche per i bambini senza danneggiarle (sul resto del fisico credo che il discorso sia più complesso, ma non mi addentro in un discorso che non conosco). Nelle competizioni femminili, poi, dove è richiesto uno sviluppo muscolare minore è più probabile per un’atleta raggiungere risultati di alto livello prima della maggiore età.
I casi di 15-16enni già competitive nel nuoto femminile sono molti, ma nessuno di questi ha lasciato particolarmente perplessi. I 12 anni di Yu sembrano veramente pochi, forse davvero troppo pochi. Se il termine “sfruttamento” usato da Rubio suona un po’ coercitivo, è facile essere d’accordo sul principio generale. A quell’età oltre la scuola e i compiti, il tempo libero dovrebbe essere tempo di scoperta e socializzazione, tempo anche buttato. Yu ha raccontato che quando a 9 anni ha iniziato ad allenarsi seriamente «era incredibilmente impegnativo, non avevo quasi tempo per giocare, ma appagante», una dichiarazione che è oggettivamente straniante, su cui pesa anche la distanza culturale tra il mondo occidentale e quello orientale, su cui ha scritto qualche tempo fa Moris Gasparri.
Il basket per Dabone, come sarà stato il calcio per Lamine Yamal, è uno sport in cui forse è più facile mantenere l’aspetto ludico dell’allenamento rispetto al nuoto competitivo. Eppure è lecito pensare che tutto quello che gli sta intorno possa avere un impatto negativo su ragazzi troppo giovani. Cosa vuol dire dividere uno spogliatoio con adulti tra i 20 e i 30 anni a 13? Dover viaggiare ogni settimana, competere in stadi pieni di tifo contro, crescere senza poter avere una vera privacy. Le istituzioni sportive - i club, le federazioni, le varie leghe - sono preparate a proteggere questi nuovi ragazzini-fenomeni? Avere cioè un sistema di regole chiare che vadano oltre il mettere una data minima per essere professionisti, una data che poi è facile aggirare. Non lasciare tutto alle famiglie o alla buona volontà del sistema, ma magari creare dei protocolli obbligatori, limitare il numero di partite/gare/allenamenti per i minori di 16 anni.
Il caso Dabone, come quello di Yu, e altri prima di loro e soprattutto quelli che verranno, riflette soprattutto come lo sport difficilmente riesca a tenere il passo con la modernità, specialmente a livello di regole. Invece di frenare, mi sembra ci sia la tentazione a fare l'opposto, ovvero accelerare questi processi. Ma se i giovani del futuro saranno in grado di competere fisicamente con gli adulti sempre prima, possiamo pretendere che abbiano anche la maturità per farlo? Se non proviamo a capirlo davvero, il rischio è di trattarli come se fossero degli esperimenti prodotti in laboratorio per capire quanto prima e fino a dove può spingersi lo sport.