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(di)
Roland Lazenby
Da 8 a 24
19 dic 2017
19 dic 2017
Il cambio di maglia di Kobe Bryant come momento di svolta della sua carriera.
(di)
Roland Lazenby
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Quell’estate del 2006, Tex Winter cominciò a studiare le registrazioni delle partite disputate dai Los Angeles Lakers nella Summer League. Jackson gli aveva mandato le registrazioni in modo che Winter potesse valutare i progressi dei giovani del roster, parecchi dei quali sarebbero stati indispensabili per le sorti della squadra nella stagione successiva. Winter non era particolarmente entusiasta dei giocatori che vedeva, il che lasciava supporre che Jackson e i Lakers rischiavano di doversi scontrare con una dura realtà: ci sarebbe voluto più tempo del previsto per riempire il vuoto lasciato da Shaquille O’Neal.


 

Jackson era preoccupato per quella situazione, confidò Winter. «La mentalità di Phil consiste nel fare sempre tutto il possibile con i giocatori che ha a disposizione. Ora sa benissimo che non riuscirà a mettere in campo una squadra in grado di lottare per il titolo, ma solo la squadra migliore possibile con il materiale umano che ha a disposizione. Credo che Phil affronti le situazioni con molto realismo. Non è un sognatore». Il problema era l’aura e la tradizione dei Lakers. «Le aspettative sono sempre altissime. Certe cose non cambiano mai. Fanno parte della storia stessa della franchigia» diceva Winter.


 

Quella formazione poco talentuosa era destinata a incontrare difficoltà così grandi che per poco la carriera di Bryant a Los Angeles non deragliò. Kobe iniziò a pensare che stava sprecando gli anni migliori della sua carriera. «Forse sta un po’ perdendo la pazienza» disse Winter. «Ma da un certo punto di vista, le cose gli stanno bene così. Credo che gli piaccia l’idea che questa sia la sua squadra. È quello che ha sempre voluto, ed è quello che ha ottenuto. Da questo punto di vista è proprio come Phil. Molto realista».


 

«Credo che faccia parte del nostro percorso» dichiarò Bryant. «Dobbiamo ancora migliorare parecchio prima di arrivare alla nostra destinazione finale. Sono contento che abbiamo fatto diversi passi avanti e nessun passo indietro. Stiamo andando nella direzione giusta». In una sola stagione, il giocatore e l’allenatore che un tempo erano stati acerrimi nemici avevano stabilito una notevole relazione professionale. Erano entrambi assetati di vittorie e, strada facendo, questa si sarebbe rivelata la loro più grande forza.


 

Eppure, senza aggiungere qualche altro elemento di qualità al roster, sarebbero rimasti in una condizione di mediocrità. «Dire che la nostra squadra può competere per il titolo, quest’anno, no, non me la sento,» affermò il General Manager Mitch Kupchak «anche se non lo ritengo impossibile a priori». «Non crediamo che sia necessario prendere un’altra superstar» disse Jackson. «Pensiamo di avere abbastanza qualità e centimetri per essere competitivi nella Western Conference».


 

Un intervento chirurgico al ginocchio destro nel corso dell’estate aveva impedito a Bryant di proseguire il suo impegno con Team USA, obbligandolo a un periodo di recupero forzato, stimato fra le otto e le dodici settimane, che gli avrebbe impedito di svolgere i consueti allenamenti estivi. Per completare la sua metamorfosi rispetto ai tempi in cui era “Showboat”, Bryant aveva cominciato a definirsi “Black Mamba", in omaggio al film Kill Bill di Quentin Tarantino, di cui era un fan. Il tocco finale fu la decisione di cambiare anche il numero di maglia, passando dall’8 al 24 – per inaugurare, disse, un nuovo capitolo della sua carriera. Del nuovo migliore amico, Phil Jackson, Bryant dichiarò: «Credo che il nostro rapporto sia diverso perché le dinamiche interne alla squadra sono diverse. Abbiamo una relazione aperta. È davvero una bella sensazione».


 

I Lakers avevano un disperato bisogno di ridurre i 41 minuti di media a partita disputati da Bryant nelle stagioni precedenti, il quarto minutaggio più alto nella NBA, ma in quella stagione non fu possibile. Bryant scese in campo per una media di 40,8 minuti, che gli consentirono di far registrare 31,6 punti, con 5,7 rimbalzi e 5,4 assist. Circondato da una formazione migliore, il rendimento di Kobe fu più costante. Kwame Brown lasciò intravedere qualche progresso. Lamar Odom cominciò a capire come inserirsi nell’attacco e dove trovare le posizioni migliori per fare canestro, e Bryant vinse di nuovo la classifica marcatori. Ma i Lakers erano ancora lontani dal poter competere per la vittoria finale.


 


Foto di Jonathan Ferrey/Getty Images


 

I fuochi d’artificio cominciarono all’inizio di marzo, quando i Lakers incapparono in una striscia negativa di sette partite e Bryant in una piccola crisi di gioco. Ne uscì alla grande il 16 marzo, segnando 65 punti allo Staples Center contro Portland, con 23 su 39 dal campo di cui 8 su 12 da tre punti, e con 11 su 12 dalla lunetta. Due sere dopo, segnò 50 punti in un’altra vittoria contro Minnesota, questa volta con 17 su 35 al tiro. I Lakers si recarono poi a Memphis, dove Bryant li condusse alla terza vittoria consecutiva segnandone altri 60 ancora con grande efficienza, mettendo 20 dei suoi 37 tiri. I Lakers a quel punto salirono su un aereo che li portò nelle prime ore del mattino a New Orleans, dove, per la seconda volta in ventiquattro ore e per la quarta partita consecutiva, Bryant fece registrare una prestazione con 50 punti in una vittoria sugli Hornets. «Ho sempre saputo che era un combattente» disse in seguito David West, che allora giocava per gli Hornets. «Ma ho capito fino a che punto quella sera in cui si presentò da noi con una striscia aperta di tre partite con 50 e passa punti. Venne a New Orleans e ne segnò altri 50. Lì ho capito quanto era difficile marcarlo. Ci vuole l’attenzione di tutta la squadra, non puoi lasciare che il suo difensore provi a fermarlo da solo. «Quello che lo rende davvero speciale è che pensa sempre che il prossimo tiro gli andrà dentro, e di solito succede».


 

Quella striscia di quattro partite con almeno 50 punti, la prima mai realizzata dai tempi del grande Wilt Chamberlain, si concluse due sere dopo, di nuovo allo Staples Center, quando Bryant si fermò a 43 punti contro Golden State, per la quinta vittoria consecutiva. La sua produzione, che per una sera si era leggermente abbassata, tornò a lievitare quando ne mise 53 in una sconfitta allo Staples Center in cui si prese 44 tiri, segnandone soltanto 19. Nel finale di stagione ne segnò ancora 46, prima di toccare quota 50 altre due volte, mentre diventava sempre più evidente che dietro a quelle prestazioni c’era una rabbia nuova che continuava a montare. Bryant iniziò a mostrare a Jerry Buss un nuova faccia della loro relazione: la sfida. Il proprietario, abituato a incutere a tutti una soggezione minacciosa, prima di allora non aveva mai visto un atteggiamento di quel tipo da un suo giocatore.


 

Presto, Buss avrebbe scoperto di averne quasi abbastanza di Kobe Bryant.


 

Capitolo 27: Eredità


E pensare che per poco la seconda fase vincente della sua carriera rischiò di sfumare del tutto, di non verificarsi, a causa degli istinti bellicosi di Bryant che tenevano banco sempre e comunque. Dopo averlo visto segnare 60 punti in una vittoria in trasferta a Memphis, nella primavera del 2007, Jackson aveva commentato: «Ad un certo punto abbiamo preso il rimbalzo in attacco e avevamo altri ventiquattro secondi da gestire. Lamar gli ha ripassato la palla, e Kobe si è buttato subito dentro. Appena sente l’odore del sangue, ti salta alla gola». Non pensava ad altro che ad aggredire. Jackson non riusciva ad abituarsi a questo lato della sua identità, anche se Jordan alla sua età si comportava più o meno allo stesso modo, con l’assistente allenatore Johnny Bach che gli gridava, come l’Ammiraglio Halsey: «Attacca! Attacca! Attacca!». Jackson oscillava tra l’amore e l’odio nei confronti dell’instancabile frenesia di quei due giocatori.


 

Nella primavera del 2007 Bryant aveva ventotto anni, in estate ne avrebbe compiuti ventinove e da lì i trenta erano a un passo, dopodiché il suo orologio biologico cestistico avrebbe iniziato a ticchettare all’impazzata. Donnie Carr era andato a vederlo giocare a New Orleans, durante quel periodo, e a fine gara Bryant zoppicava vistosamente. Anche in quelle condizioni, Bryant era sempre felice di rivedere Carr, che chiamava affettuosamente «D.C.», considerandolo un legame autentico con il suo favoloso passato. «Come mai zoppichi?». gli chiese Carr sorridendo. Bryant fece una smorfia, poi sorrise. «Non sono più un ragazzino, D.C.» rispose. «Devo darmi una calmata, capisci cosa intendo? Zoppico per la fatica e per tutte le botte che ho preso in questi anni di Nba».


 

Carr accompagnò Bryant al pullman dei Lakers e, prima che si separassero, si scattarono una foto insieme. La solitudine di Bryant era palese, dice Carr, ripensando a quel momento. «Era il prezzo che pagava per la sua grandezza». Trattava la sua solitudine come gli acciacchi alle ginocchia, alle caviglie o alla spalla. Non faceva che assorbirli, e intanto proseguiva col suo ritmo forsennato.


 

Bryant cominciava a comprendere che poteva pure segnare tutti i punti che voleva, ma non sarebbe comunque arrivato da nessuna parte. Un altro giocatore si sarebbe sentito magari rinfrancato, perché i Lakers non lo avevano abbandonato quando era a terra, e adesso stava finalmente recuperando dal danno che si era procurato. Ma anche durante la favolosa striscia di primavera, Bryant fremeva di rabbia al pensiero che la squadra non potesse puntare al titolo. Ogni volta che parlava con la stampa, quell’argomento tornava sempre fuori.


 

Nei playoff del 2007, i Lakers uscirono un’altra volta contro Phoenix. Poi, all’inizio della off-season, Bryant si imbatté in un gruppo di tifosi armati di videocamera nel parcheggio di un centro commerciale. I ragazzi gli chiesero qualcosa sulla squadra, e lì successe quasi la stessa cosa che era accaduta anni prima, quando Kobe aveva incontrato Carr su South Street a Philadelphia e gli aveva candidamente raccontato del luminoso futuro che lo attendeva. Si fece riprendere dai ragazzi mentre si lanciava in una critica spietata della dirigenza dei Lakers e del giovane centro Andrew Bynum che, appena arrivato nella lega, aveva dimostrato di possedere un talento cristallino ma anche una propensione al lavoro quantomeno sospetta. Bryant minacciò di chiedere di essere ceduto se la situazione non fosse migliorata. Il video girato dai ragazzi divenne subito virale. Non era certo la prima volta che si lamentava della squadra, ma questa volta Bryant aveva tirato fuori tutta la propria rabbia. Jerry Buss era furioso. Lui si era sempre schierato dalla parte di Bryant, in ogni circostanza, ed era così che lui lo ringraziava?


 

Il proprietario aveva dimostrato più volte di non essere il tipo che perde le staffe facilmente, ma voleva anche essere sicuro che le cose fossero fatte a modo suo. Con l’avanzare dell’età, Buss era diventato misteriosamente più distaccato, ed era venerato dai tifosi di Los Angeles. Dopotutto era l’uomo che aveva portato ai Lakers fior di campioni, ed era dotato di un’aura di potere che incuteva rispetto nelle persone. Il suo fascino e la sua influenza erano innegabili.


 





 

Le qualità di Buss, la sua grande intelligenza e la sua visione della squadra andavano a impreziosire la leggenda di un uomo che era stato capace di superare un’infanzia di indigenza grazie alla propria determinazione, fino a ottenere una laurea presso la University of Southern California, che gli aveva permesso poi di costruire una rete di relazioni e un’immensa fortuna, arrivando infine al comando dei Los Angeles Lakers, che governava col piglio del sovrano assoluto. In quel ruolo, aveva dimostrato un amore senza pari nei confronti dei suoi giocatori e un’abilità innata nel riconoscere le persone di talento, che fossero atleti o collaboratori, una qualità che lo aveva portato a diventare la forza propulsiva di una franchigia eccezionale.


 

L’ex Laker Ron Carter racconta che, nel periodo in cui aveva lavorato per lui, Buss aveva costruito la propria fortuna in modo brillante, e sempre in bilico sul crinale della legalità. La squadra e il Forum Club, racconta Carter, erano di fatto una miniera d’oro che consentiva a Buss di attrarre celebrità e atleti facoltosi, inducendoli a investire nei suoi fondi immobiliari. In pratica, Buss creava soggetti che investivano nei fondi immobiliari con l’idea di accelerare le deduzioni fiscali e i pagamenti dei mutui su proprietà controllate dalla sua società in accomandita semplice, spiega Carter. Una volta raggiunto il massimo delle detrazioni possibili, Buss creava un’altra società a cui rivendere il fondo, girando in pratica l’immobile avanti e indietro tra i vari soggetti che controllava, massimizzando nel frattempo ogni svalutazione o rivalutazione e ottenendo altri benefici di legge.


 

Carter imparò molte cose da Buss, e Buss arrivò perfino a coprire i costi del master conseguito da Carter alla vicina Pepperdine University. Dopo l’acquisto della franchigia, quando le squadre dello Showtime cominciarono a vincere titoli su titoli, il box del Forum a disposizione del miliardario era diventato, in occasione delle partite casalinghe, il luogo ideale dove intrattenere potenziali investitori nel mercato immobiliare. «Lavoravamo con i fondi immobiliari» spiega Carter. «Jerry convocava le riunioni al Forum. Invitava a cena tutti i soci di un fondo specifico. In pratica facevamo le riunioni dei soci al Forum, presso il Forum Club, e spiegavamo a tutti come avremmo trasferito le proprietà immobiliari a una nuova partnership, e come quel nuovo soggetto avrebbe avuto qualche socio speciale, per esempio Magic Johnson o Kareem Abdul-Jabbar, e chiunque altro fossimo riusciti a convincere.


 

«Magic, Mark McGwire, Lawrence Taylor e Carl Banks sono solo alcuni dei personaggi famosi che avevano investito il loro denaro nelle nostre imprese. A quel punto usavamo quell’afflusso di denaro più gli immobili per rilevare nuove costruzioni, tra cui alcune bellissime proprietà a Brentwood e a Beverly Hills, tutti edifici piene di appartamenti di pregio». Dal momento che Buss si era laureato in chimica, decise di dare alle sue società il nome dei vari composti chimici, ricorda Carter. «Guadagnava così tanto dai fondi immobiliari che i suoi avvocati iniziarono a dirgli: “Senti, Jerry, fa’ entrare anche noi. Dacci una fetta della torta”».


 

La sede della società di Buss, la “Mariani, Buss e associati”, si trovava in un centro commerciale della California del Sud e, per un certo periodo, in pratica gestiva due diverse squadre Nba, i Lakers e gli Indiana Pacers, di proprietà di un amico di Buss che era anche da tempo un suo socio in affari, un ingegnere di nome Frank Mariani. In seguito Buss cominciò a occuparsi di tv via cavo e pay-per-view, con l’idea di monetizzare i diritti televisivi regionali sulle partite dei Lakers. Non solo la squadra era una specie di miniera d’oro perché facilitava la conclusione di affari immobiliari, ma era anche una magnifica risorsa dal punto di vista dell’intrattenimento, che avrebbe presto ottenuto favolosi contratti televisivi da più di un miliardo di dollari l’anno.


 

Tutto questo diede modo a Buss, nel 2000, di svolgere un ruolo importante nella costruzione del nuovo Staples Center. Buss non si rese neppure conto di che affare si sarebbe rivelato in seguito la costruzione del nuovo impianto, ha spiegato Jerry West in un’intervista del 2008. «Diventò in pratica una specie di macchina per stampare banconote». Buss aveva avuto qualche problema di cash-flow negli anni Ottanta, ed era stato accusato di frode in Arizona perché non aveva pagato le tasse su un grosso lotto di case che aveva acquistato. Buss si limitò a pagare le tasse con gli interessi, e le accuse si dissolsero, ricorda Carter.


 

In pochi avevano mai osato criticare Buss in pubblico come aveva fatto Bryant. La star aveva oltrepassato ogni limite, e alcuni osservatori vicini alla squadra pensarono che le ore di Bryant ai Lakers fossero ormai contate. Da proprietario della squadra, Buss non aveva mai esitato a liberarsi dei suoi nomi di punta quando questi avevano esaurito la loro utilità. O’Neal si era messo a piantare grane nella stagione 2003-04, e Buss lo aveva sbattuto subito fuori città. Nella stessa stagione, Jackson si era inimicato la dirigenza, oltre che il punto di riferimento della squadra, ed era stato allontanato anche lui.


 

All’inizio del loro rapporto, pare che Buss avesse promesso a Bryant che sarebbe rimasto un Laker a vita. Il proprietario sapeva meglio di chiunque altro che Hollywood era la casa delle star. Perché i Lakers funzionassero, era indispensabile sfoggiare i campioni più carismatici e seducenti, e Bryant lo era stato, fin troppo. «Credo che Buss fosse ipnotizzato dal fascino e dalla classe di Kobe» spiega il giornalista J.A. Adande, originario della California del Sud. «E, sapete, nonostante tutti i successi ottenuti nel corso degli anni, Jerry Buss riusciva ancora a entusiasmarsi, e credo che Kobe lo entusiasmasse. Jerry poi capiva benissimo cosa funzionasse a L.A., e Kobe è sempre stato la stella di L.A., perché è un tipo che abbaglia, e quelli che abbagliano qui vanno sempre alla grande. Kobe era eccitante ed elettrizzante. È una delle ragioni per cui era più popolare di Shaq».


 

«Un altro motivo era la sua predisposizione al lavoro e al sacrificio. L.A. è una città di grandi lavoratori. Dall’esterno non si ha questa percezione perché non ci sono grandi fabbriche, ciminiere o catene di montaggio. La gente è abituata ad associare il lavoro duro a situazioni di quel genere. In realtà anche l’industria del cinema, per quanto possa sembrare frivola e glamour, richiede un lavoro durissimo e una scrupolosa attenzione. Arrivare al successo richiede un impegno costante. Anche dal punto di vista tecnico. Quando bisogna girare un film, quei tizi stanno sul set dalle tre o dalle quattro e mezza del mattino, a sistemare il set, le luci, gli strumenti, il suono. Le loro giornate sono interminabili, e guidano per lunghe distanze, come pendolari. È questa l’industria di L.A., l’industria dello spettacolo, un ambiente in cui si lavora come muli. Ed è questa la tifoseria dei Lakers, gente che lavora sodo dalla mattina alla sera, e che tiene in alta considerazione chi va in campo grazie al duro lavoro».


 

La folle quantità di lavoro e impegno di Bryant finì per influenzare non solo gli altri giocatori, ma anche la dirigenza stessa. «Ecco il motivo per cui Buss lo metteva su un piedistallo,» spiega Adande «e sono sicuro che, entro certi limiti, il fatto che fosse così popolare tra i tifosi lo ingraziasse ancora di più agli occhi del capo, perché incrementava il valore della franchigia».


 


Foto di Lisa Blumenfeld/Stringer 


 

Ora però Bryant sembrava davvero deciso ad andarsene, e non si faceva troppi problemi a mettere in imbarazzo il proprietario. La situazione si fece ancora più tesa durante la off season 2007, quando Buss diede ordine alla dirigenza di cominciare a sondare il mercato in vista di una possibile cessione di Kobe. Nel corso dell’estate e dell’autunno la faccenda rimase delicata, e difficile da sbrogliare. La frustrazione di Bryant e il suo sfogo rabbioso contro la squadra avevano portato tra l’altro a nuove fratture tra lui e i compagni, oltre che con la tifoseria. Quell’estate bastava accennare al nome di Bryant e si finiva presto per ascoltare qualcuno pronto a raccontare quanto Bryant fosse un bamboccio viziato, un mangia-palloni e un frignone.


 

L’unica voce a favore era, al solito, quella di Tex Winter, che, pur ammettendo che Bryant era stato troppo emotivo nell’esprimere le sue ragioni, sottolineava anche che il ragazzo aveva dato anima e corpo alla franchigia per undici stagioni, lavorando come un pazzo ogni singolo giorno, quasi senza prendersi una pausa. E si era guadagnato perciò un diritto che altri giocatori non avevano. Winter sosteneva che la squadra, per migliorare, avesse bisogno di una sferzata, e dal momento che il leader del gruppo era Bryant, il compito spettava a lui. «È l’unico ad avere quel potere» disse Winter. «Chi altri ha il carisma per dire ad alta voce quello che non va?». Anche sull’ipotesi che Bryant fosse un mangiapalloni ormai in parabola discendente, Winter offrì la propria opinione. «In realtà, noi studiamo i filmati di tutte le partite» disse Winter. «Nella maggior parte dei casi, non è che Kobe forzi così tanti tiri. A volte si scalda e si prende qualche tiro discutibile, ma molti poi entrano lo stesso. Si prende dei tiri che la maggior parte degli altri giocatori non potrebbe mai segnare, e li mette comunque».


 

Quello che faceva invece scuotere la testa a Winter era che Bryant fosse selezionato quasi ogni anno nel miglior quintetto difensivo della lega. «Mi piacerebbe che difendesse meglio» disse Winter. «Pensa di dover giocare in un certo modo, e questo modo non comprende una difesa come Dio comanda. Gli piace cambiare spesso sui blocchi, e gioca anche un po’ a zona, cercando sempre di rubare la palla o intercettare i passaggi. In pratica è come se giocasse a zona da solo». Winter voleva vedere Bryant concentrarsi di più sulla difesa e fidarsi un po’ di più dei compagni.


 

Nell’agosto di quell’anno, Bryant avrebbe compiuto ventinove anni, ed era arrivato alla dodicesima stagione NBA con addosso la pressante consapevolezza di dover a tutti i costi tornare a vincere. Winter, che di anni ne aveva ottantacinque, la sapeva lunga in fatto di tempo. «A questo punto della sua carriera, Kobe comincia a provare un senso di urgenza,» disse l’anziano coach. «Ha voglia di vincere. Non è così che dovrebbe essere?». Quell’estate, Bryant rispose alle critiche con i fatti durante i provini di Team Usa. C’era chi aveva predetto che l’egoismo di Bryant avrebbe affondato la nazionale. Al contrario, Bryant aveva risposto con tutto il suo amore per il gioco, affrontando le gare con l’energia difensiva di un ragazzino.


 

Le sue prestazioni sul palcoscenico internazionale resero Winter ancora più curioso di scoprire come avrebbe reagito Bryant, se fosse stato possibile costruirgli intorno un roster dei Lakers più forte. Una squadra con più giocatori di qualità avrebbe tolto dalle spalle di Bryant la pressione di dover sempre e comunque segnare, ragionava Winter. Eppure, mentre l’autunno si avvicinava, la pressione rimaneva pesante, se non altro per via delle altissime aspettative che Bryant continuava a nutrire su sé stesso. Era quello l’aspetto che aveva affascinato tanta gente fin dal suo arrivo nella Nba, quando aveva solo diciassette anni, la sua determinazione nel voler raggiungere il successo a prezzo di qualunque sacrificio. Nel 2007, tutto quello che poteva fare era aggrapparsi alle sbarre della gabbia in cui era rinchiuso e gridare la sua frustrazione all’indirizzo dei ricchi e potenti, a costo di attirarsi il disprezzo dei tifosi. Le sue richieste pubbliche erano solo l’ennesima accezione di una medesima volontà: era disposto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi.


 

Agli occhi della gente, Bryant era uno che volava sempre troppo in alto, senza rete di sicurezza, con un approccio così coraggioso da essere sfrontato. Ecco perché, a dispetto dei problemi, la sua rimaneva la vicenda più appassionante nella storia dello sport professionistico americano. Nessun altro era pronto come lui a rischiare il tutto per tutto. La posta in gioco era così alta che, per quanto potesse sembrare un personaggio giovanile e affascinante, la sua parabola sembrava destinata a una conclusione catastrofica, il peggior finale possibile per il racconto delle sue imprese.


 

Nell’autunno del 2007 la giovinezza gli scappava tra le dita, e i punti interrogativi continuavano a sommarsi. La società stava trattando una sua possibile cessione a Chicago o a Detroit, e gli accordi erano già sul tavolo. Così ora toccava a Bryant scegliere. Che si fa adesso, caro signor Bryant? Qual è la risposta alla domanda che ha posto con tanta insistenza? Resta o se ne va? A che punto sono i suoi rapporti con i Lakers di Jerry Buss? Andrà meglio? Oppure peggio?


 

Risoluzione


Una situazione di quel tipo non poteva che risolversi con un accordo tra i due uomini, avrebbe compreso in seguito J.A. Adande. «Sapete,» ricorda Adande «ho sempre pensato che fosse stato un errore da parte del dottor Buss liberarsi di Phil e Shaq, e che fosse quello il motivo per cui si era ritrovato in una brutta situazione a metà degli anni Duemila. Mi sembrava che fosse profondamente sbagliato dare tutto quel potere a Kobe, mettendo in pratica il futuro della franchigia nelle sue mani. Il dottor Buss però riuscì a correggere l’errore. Riportò indietro Phil, e mise Kobe al suo posto, almeno in parte».


 





 

Fu soltanto al funerale di Jerry Buss, nel 2013, che i tifosi dei Lakers poterono ascoltare la versione di Bryant sulla vicenda, ricorda Adande. «Dopo la morte di Jerry Buss, fu molto interessante sentire Kobe che raccontava come Buss lo avesse convinto che per lui non c’era posto migliore dei Lakers. Kobe era deciso ad andarsene e pretese un incontro con Buss, che gli disse: “Ascoltami bene. La questione è che A) non posso scambiarti, non posso svalutare la squadra in questo modo; e B) se te ne vai, finirai in un posto peggiore di questo”. A quel punto finalmente Kobe capì come stavano le cose. “Ok, ho capito. Non posso obbligarvi a cedermi. È impossibile”».


 

«Kobe voleva provare a sfidare il modo in cui venivano gestite le cose,» spiega Rudy Garciduenas «ma a volte le cose non vanno come vorresti. Ha imparato che il dottor Buss non era un uomo da sfidare. Se era questo il senso del suo ultimatum, Buss era pronto a raccogliere la sfida. Il dottor Buss era uno stimato e apprezzato uomo d’affari. Non potevi pensare di sfidarlo, o magari ricattarlo in qualche modo, e aspettarti che lui non avrebbe reagito». Entrambi uscirono da quel confronto con nuovi stimoli e nuove motivazioni.


 

Un’altra buona notizia fu che Derek Fisher fece ritorno in squadra dopo che un’ottima stagione negli Utah Jazz, coronata dalla partecipazione ai playoff, aveva fatto capire che Fish aveva ancora parecchio da offrire all’inizio della sua dodicesima stagione nella lega. Fish portava in dote la sua straordinaria professionalità e la capacità di tenere testa a Bryant pur rimanendone un fido alleato. Questo di per sé portò a un passo avanti nell’alchimia di squadra e nella tanto rarefatta «fiducia». Non guastava poi che Fish fosse ancora in grado di applicare una discreta pressione sulla palla e di infilare qualche tiro aperto in caso di necessità.


 

Fisher aveva sempre avuto problemi a difendere sul pick and roll ed era adesso più vulnerabile che mai se doveva marcare guardie giovani e rapide, ma il suo arrivo serviva comunque ad alleggerire un po’ il carico sulle spalle di Bryant. «Molte delle responsabilità che Bryant si era sempre assunto potevano ora essere divise con Fish» osserva Garciduenas. «Fish era il capitano, quindi potevano condividere la leadership, e Kobe poteva contare su Fish perché si occupasse di interagire di più con gli altri compagni».


 

Fisher aveva i suoi metodi per fare in modo che l’alienazione di Bryant non finisse per scaricarsi sui compagni. «Fish sapeva che Kobe non aveva la pazienza per rapportarsi con i compagni, che avrebbe creato soltanto problemi» spiega Garciduenas. Il magazziniere aveva avuto la sensazione che Fisher avesse osservato attentamente la squadra nel corso delle due stagioni precedenti, anche se da lontano. Con Fisher a dare una mano sul fronte dei rapporti fuori dal campo, Tex Winter si mise al lavoro per aiutare Kobe a modificare il suo stile in modo da rimanere efficace senza dover contare sempre sul suo atletismo, che iniziava a dare segni di cedimento. Questo significava in gran parte lavorare sui movimenti in post basso.


 

Bryant era arrivato nella NBA già con un’ottima padronanza del gioco in post basso, solo che non c’era mai stata l’opportunità di mandarlo a giocare in post, visto che l’area era sempre occupata da O’Neal quando i due erano compagni nei Lakers. In passato, però, Winter aveva visto Jordan diventare uno dei migliori giocatori in post basso della sua epoca, pur non essendo un lungo tradizionale. Sotto molti punti di vista, Bryant era abile quanto Jordan in post basso, fatta eccezione per un aspetto fondamentale. «Quello che succede a Kobe, che è un ottimo giocatore di post basso,» diceva Winter «è che spesso prende palla al di fuori dell’area, e i difensori lo spingono ancora più verso l’esterno, verso la posizione di ala».


 

«È difficile per lui prendere una posizione profonda in post» spiegava Winter. «Michael sapeva prendere posizione un po’ meglio di Kobe. I difensori molto forti fisicamente riescono a spostare Kobe fuori dall’area. Quando succede, sarebbe meglio cambiare strategia invece di provare a sfidare la difesa da lì. Non va bene che lui parta per ricevere in post basso e finisca per giocare sul perimetro».


 

Questo portò molti a chiedersi se le difficoltà di Bryant in post basso non lo spingessero ogni tanto ad affidarsi troppo al tiro da tre punti. «Mi piace che si prenda un tiro da tre quando ce l’ha» disse Winter. «Kobe è un eccellente tiratore da tre punti. Mi piace vedere che si prende quei tiri quando c’è la giusta spaziatura in campo e la difesa non riesce a chiudere in

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