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Antonio Moschella
Cuore francese, sangue portoghese
10 lug 2016
10 lug 2016
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Robert Pires e gli abbiamo chiesto per chi tiferà stasera.
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Antonio Moschella
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Parigi si sveglia afosa e pesante nel giorno che i francesi aspettano da sedici anni, da quando a Rotterdam infransero il cuore di milioni di italiani convinti di aver messo le mani sull’Euro 2000. Quel giorno, a cambiare la partita non fu solo il gol di Sylvain Wiltord, entrato a fine partita, ma anche l’ingresso di Robert Pires, che confezionò praticamente da solo il golden gol di Trezeguet, volando sulla fascia sinistra e servendo un assist al centravanti. Un’azione che potremmo definire "alla Pires".

 

Oggi Pires è ambasciatore dell’Arsenal nel mondo e opinionista calcistico di

durante l’Europeo francese. Pires vive a Londra ma la sua seconda casa è nella provincia di Braga, nord del Portogallo, paese dove è nato suo padre Antonio e dove l’ex calciatore trascorreva le vacanze estive durante gli anni dell’adolescenza.

 

Con quasi un milione di abitanti la comunità portoghese è una delle più numerose in Francia e Pires sente questa dicotomia che per molti lusitani ha i contorni di una possibile vendetta sociale e sportiva. Sedici anni fa la Francia eliminò il Portogallo in semifinale dopo un rigore assegnato ai “Bleus” per un fallo di mano di Abel Xavier. Dall’altro lato del telefono, Robert non ha però dubbi: tiferà Francia.

 


No, affatto. Vedi, io sento nelle mie vene sangue portoghese, ma sono nato e cresciuto in Francia e con la maglia dei “Bleus" ho giocato e vinto, quindi oggi non avrò dubbi.

 

Un’altra finale sedici anni dopo quella in cui sei stato determinante.
È vero, e proprio contro di voi! Quella vittoria fu la sublimazione del lavoro di una grande squadra che non aveva paura di niente ed era capace di ribaltare qualsiasi risultato. Proprio come accadde a Rotterdam.

 



 


La tensione mi aveva bloccato le gambe, e non solo a me. Mentre David festeggiava io ero a bordo campo e non mi resi conto di quanto avevo fatto. Ero stanchissimo, dopo una lunga stagione, e in quel momento di liberazione rimasi senza fiato. E non ero l’unico: Thuram e Zidane vennero ad abbracciarmi nonostante fossero esausti, e anche loro provarono una sensazione simile di appagamento dopo un enorme sforzo.

 


È ovvio che sulla squadra attuale posso dirti solo cosa vedo dall’esterno. Mi sembra un gruppo solido, che ha fatto del lavoro il suo punto di forza. Conosco Deschamps da tanto e so come ha impostato la squadra, dando molta importanza alla creazione di un gruppo, un po’ come fu la nostra.

 


Vedi, io credo che una grande squadra abbia bisogno essenzialmente di due cose: di un portiere sicuro e capace di non fare errori e di un attaccante che la butti dentro. E oggi la Francia ha Hugo Lloris e Antoine Griezmann…

 


Non c’è dubbio però che entrambe hanno migliorato il loro gioco e la concretezza sotto porta poco a poco. La Francia era già tra le favorite del torneo, mentre il Portogallo è stato bravo ad approfittare degli errori avversari per arrivare fin qui. Santos ha impostato un gioco prevalentemente difensivo per poi sfruttare le caratteristiche di alcuni suoi solisti per risolvere le partite su singoli episodi. E alla fine se sei in finale è perché lo hai meritato.

 


Ero convinto delle loro possibilità. Non ti nascondo che l’Italia è stata una bella sorpresa di questo Europeo, ma io l’avevo comunque messa tra le favorite alla vittoria. Conte ha saputo creare un gruppo unito e determinato partendo dall’umile consapevolezza di non avere a disposizione grandissimi nomi. E alla fine questo atteggiamento ha pagato.

 


Quando ero all’Arsenal sono stato cercato varie volte dalla Juventus, ma non ho mai voluto prendere in considerazione quest’ipotesi. Non tanto per un rifiuto verso il calcio italiano, che allora era importante, ma perché stavo benissimo all’Arsenal e il calcio inglese mi affascinava.

 


È vero, anche perché in Inghilterra il livello di competitività è estremo e i salari medi sono più elevati. È inutile negarlo, il denaro comanda dappertutto e il calcio è ormai un business. E per me lo spettacolo e l’intensità della Premier League sono ineguagliabili. Detto questo credo che quanto fatto dall’Italia in questo europeo possa rappresentare una svolta positiva anche per la stessa Serie A.

 



 


In Premier il fisico è importante e io venivo dall’Olympique Marsiglia e da un tipo di calcio meno “mordi e fuggi”. Arsène Wenger lo sapeva, mi chiese di essere paziente e il tempo gli diede ragione. Poco a poco, dopo molto lavoro fisico, iniziai ad adattarmi a quel gioco veloce, ma anche di qualità, giocato dall’Arsenal.

 


È forse il mio più grande rimpianto. Eravamo maturi per sollevare la Champions e siamo crollati psicologicamente contro il Chelsea ai quarti, perdendo 2 a 1 a Highbury. Eppure lo sapevamo da subito, se c’era una squadra capace di batterci in quel momento, quella era proprio il Chelsea di Ranieri.

 


Vedi, questo è il bello della Premier! Ci sono tante squadre che competono allo stesso livello come il Chelsea, l’Arsenal, lo United, il City, il Tottenham, l’Arsenal… E quest’anno arriva il Leicester e vince. Sono cose che accadono solo in Inghilterra.


Quella sera abbiamo dato spettacolo. Quante squadre possono dire di aver dominato così una squadra italiana a casa sua? Ricordo di aver esultato tantissimo dopo aver segnato il quinto gol perché l’adrenalina era al massimo e volevo assolutamente suggellare quella grande prestazione con la mia firma. Se ci fai caso appaio in tutti i gol di Henry, che quel giorno volava, ma solo come spettatore. Perciò decisi di farmi giustizia finendo anch’io sul tabellino dei marcatori.

 



 


Senza alcun dubbio, sia in Nazionale sia all’Arsenal. Il mio compito era di servirlo affinché facesse gol e giocare al suo fianco era un piacere. Con lui ci trovavamo benissimo anche fuori dal campo. L’avere tanti giocatori francesi in quella squadra favorì il lavoro di Wenger al momento di creare un gruppo vincente, anche se alla fine con gli altri giocatori parlavamo in inglese e l’integrazione tra tutti noi fu fondamentale per dar vita a quella squadra storica.


Puro divertimento. A cominciare dagli allenamenti, quando li restavo a guardare basito mentre provavo a imparare e a crescere insieme a loro.

 


Assolutamente! Sebbene dopo l’arrivo in Inghilterra avessi cambiato un po’ l’approccio alle partite e agli scontri fisici, il mio stile di gioco è sempre stato basato sull’improvvisazione, sul cambio di direzione e sul dribbling. Sono cose sulle quali si può lavorare, certamente, ma che devi avere dentro, che devi sentire…

 


Lo avevamo preparato in precedenza su suggerimento di Thierry, ma in quel momento non so cosa accadde e l’errore fu mio. È come se non avessi

la giocata, proprio perché era stata preparata quasi a tavolino. In effetti ero proprio un calciatore istintivo.

 



 


Ecco, parlando di delusioni quella fu probabilmente la più forte della mia carriera. Avevamo fatto una stagione straordinaria e, seppur a pari punti a fine stagione con il Lens (68

), finimmo secondi per una questione di differenza reti. Sarebbe stato un titolo storico per un club come il Metz, dove ero cresciuto. Ci consolammo con la Coppa di Lega, ma non era la stessa cosa.

 


Credo proprio di sì. Ho sempre cercato di identificarmi molto con i tifosi delle squadre dove giocavo e da loro ho sempre ricevuto tanto affetto, da Metz a Villareal, passando per Marsiglia e Londra. La mia vera ricompensa era sentire il loro calore mentre facevo quello che più amo, ossia giocare a calcio.

 


Ho sempre preferito mettere i miei compagni in condizione di segnare. Quindi, nonostante adorassi far gol e lasciare sul posto i miei avversari, ti dico assist tutta la vita.


Sarò sincero: quello a Trezeguet contro l’Italia nella finale dell’Euro 2000. Prima di farlo avevo comunque lasciato sul posto Cannavaro…

 

 

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