Di seguito potete leggere un estratto di "Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale" di Fabrizio Gabrielli, che esce oggi per 66th and 2nd. Buona lettura!
Quando le appliques sulla testiera del letto si retroilluminano, accompagnate da un leggero ronzio di neon, quella che prende vita è una cosmogonia per principianti di Cristiano Ronaldo: negli undici quadretti, ognuno della dimensione di un azulejo, va in scena come in un teatro di ombre cinesi la nascita, la crescita e la celebrazione del portoghese. È il fregio centrale del timpano di un Arco di Trionfo, è una Via Crucis senza l’inconveniente della Passione.
Nei tratti abbozzati sono rappresentate le tappe più importanti, i misteri più gloriosi della vita di Cristiano Ronaldo: dormire sotto una volta così solenne incute un senso di ammirazione frammista ad angoscia, un’inquietudine accentuata dalla presenza perturbante di specchi – specchi in ogni dove, che mi costringono a scendere a patti con l’imperfezione della mia silhouette in pigiama, non così all’altezza, e con i miei sensi di colpa. Fuori dalla finestra, nel giardino c’è un Parco dei Mostri di Bomarzo fatto di attrezzi ginnici, cyclette che non userò mai e altre installazioni estemporanee di un Grande Museo Del Culto Fisico.
C’è ovviamente Madeira, negli azulejos retroilluminati, questo punto lussureggiante e impervio nel bel mezzo dell’azzurro oceanografico dell’Atlantico, più vicina alle coste marocchine che a quelle del Portogallo, a cui eppure appartiene; le sue case coi tetti spioventi e le guglie della chiesa di Santo António, nelle propaggini del capoluogo Funchal, spiagge vulcaniche sullo sfondo, il punto di origine e convergenza della sua parabola; e poi c’è il campo del Clube de Futebol Andorinha, la prima squadra dilettantistica di Cristiano, lui ragazzino, impegnato a stirarsi i muscoli con un’espressione seriosa dipinta sul volto, immortalato in un’immagine diventata famosa perché in qualche modo epitome e anticipazione del suo approccio all’allenamento: zelante, pieno di solitudine, spoglio dell’entusiasmo giovanile. La sua mimica del corpo mi ha fatto tornare in mente una poesia di Edgar Allan Poe, «Solo[1]», che inizia così:
Fin da bambino, io non sono stato
uguale agli altri; non ho mai guardato
il mondo come gli altri; le passioni
da una fonte comune non ho tratto.
Dalla stessa sorgente non ho attinto
il mio dolore; né ho accordato il cuore
alla gioia di chi mi stava accanto.
Ciò che io ho amato, l'ho amato da solo.
A differenza delle decorazioni sugli Archi di Trionfo, nella narrazione del mito di Cristiano Ronaldo schizzato sulle appliques di questa stanza superior del Pestana CR7 Hotel a Funchal, isola di Madeira, arcipelago delle Azzorre, il luogo che a Cristiano Ronaldo ha dato i natali, non ci sono schiavi prostrati e deportati o devastazioni di antiche culture millenarie, ma solo la devozione lievitante per un culto della personalità che si fa – di tappa in tappa, di stazione in stazione – da intimo a prepotente: abbiamo l’immancabile ritratto familiare nello stile delle antiche corti settecentesche e l’arazzo monumentale del momento in cui viene insignito della medaglia di Grand'Ufficiale dell'Ordine dell'Infante Dom Henrique, una delle massime onorificenze lusitane. E poi le istantanee dei riconoscimenti sportivi più importanti – i Palloni d’Oro, le Scarpe d’Oro – e soprattutto gli abbracci – dapprima empatici, poi asfissianti, quasi demolitori – delle piazze in cui il suo talento, la sua determinazione, l’unione mistica delle due, si sono messi alla prova e affinati, cioè di Manchester e Madrid. L’abbraccio finale, quello dell’ultima stazione, è per lo skyline di Manhattan, ed è come se fosse la scena finale di un'ucronia in cui CR7 ha conquistato anche gli Stati Uniti d'America. Ma è chiaro che a questo punto l’oggetto della magnificazione non è già più il calciatore Cristiano Ronaldo, ma l’icona, e forse in maniera ancora più massiva il brand.
Quando ho accettato la sfida di uscire in qualche modo dalla mia zona di comfort e scrivere questo libro su un personaggio che non ho mai amato completamente, senza riserve – forse perché ho sempre avuto la sensazione di un fascino inquietante in Cristiano – ho subito intuito che il primo posto in cui sarei voluto andare era l’isola di Madeira. Quello era il punto d’osservazione preferenziale per un’esplorazione della sua figura, non solo perché, banalmente, punto di partenza della sua esistenza. Piuttosto, proprio in virtù del suo essere punto di convergenza.
Il legame di Cristiano con le sue origini è infatti contraddittorio: una radicazione sentita, forse eccessivamente mitizzata, eppure reale, tangibile, permanente. Come è evidente che Cristiano Ronaldo sia diventato Cristiano Ronaldo andandosene dall’isola, allo stesso modo è innegabile il ruolo che questi luoghi hanno avuto nella sua educazione sentimentale non solo per il pallone, ma – più in generale – per la sua esistenza, e l’edificazione del suo mito, del culto del suo mito.
Ad affascinarmi più di ogni altra cosa era questa particolare angolazione della relazione tra Cristiano e Funchal: il rapporto con il proprio passato di un uomo interamente proiettato nel futuro. Più dei luoghi in cui ancora si percepisce il suo fantasma di fanciullo, più dei tavoli sghembi dei bar di periferia in cui sono appese le sue foto ingiallite, mi affascinava questo parallelepipedo rosé che si staglia sul lungomare, un boutique hotel con museo annesso, un luogo in cui i corridoi di erba sintetica ricordano il prato di un campo di calcio, e in cui le maglie firmate appese alle pareti sono simboli concreti – reliquie – più che del suo passaggio, della sua presenza. Se Funchal è il catino absidale di una grande cattedrale eretta al culto di CR7, la piazza che porta il suo nome e dove sorge il suo hotel, Praça CR7, è l’altare su cui si compie la transustanziazione di Cristiano, in cui il bronzo diventa corpo e sangue offerto alla venerazione.
All’inizio del corridoio che conduce alle stanze, appeso a una cordicella legata al muro, c’è un binocolo poggiato su una teca sulla quale c’è scritto «Where’s Cristiano Ronaldo?». Un’opera dadaista, una provocazione, un esercizio di stile? In ogni caso la domanda suona retorica, perché la risposta vera, la più plausibile, è ovunque. Da queste parti, ovunque.
Più prosaicamente, però, se guardi con il binocolo verso il punto di fuga del corridoio, ti viene restituita l’immagine di Cristiano esultante, con il dito rivolto al cielo, maglia del Real Madrid indosso, che decora la porta d’ingresso della suite. La stanza nella quale, a volte («ogni volta che si trova a Madeira», nelle parole di chi al Pestana CR7 ci lavora) soggiorna. Come un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora esatta, può capitare che la risposta all’oracolo del binocolo sia davvero laggiù, in fondo al corridoio.
«Quella di New York è la prossima apertura più attesa», mi dice Hugo, dando un senso al bozzetto sulla testiera del letto, quello dell’abbraccio di Cristiano Ronaldo alla Lower Manhattan. Hugo è il Guest Relationship Manager del Pestana CR7 Hotel, e quando racconta il senso più profondo del marchio per cui lavora, la sua mission, non dà mai l’impressione di star recitando un opuscolo aziendale, ma di esserne davvero entusiasta. «Ma non è la sola. Presto ci sarà un CR7 Hotel anche a Marrakech, e uno a Madrid».
Marrakech, New York, Madrid sono piazze molto distanti tra loro, e per nulla equidistanti dall’epicentro del fenomeno Cristiano Ronaldo. Se la capitale spagnola ne è stata l’arena d’elezione per anni, il palcoscenico dei suoi maggiori successi, cosa rappresenta CR7 per New York, e viceversa? Siamo di fronte alla massima esaltazione dell’aspetto più glam? O forse, come a me pare più convincente, della perfetta coincidenza tra la parabola di Cristiano e quel particolare spirito newyorkese immortalato da Jay-Z nel ritornello di «Empire State of Mind», secondo il quale N.Y. è la giungla di cemento in cui i sogni sono forgiati dallo spirito dell’infinitamente possibile?
Una storia che non emerge mai, quando si parla del Pestana CR7 Lifestyle Hotel, è quella dell’imprenditore che ha avuto l’intuizione di proporre a Cristiano l’operazione di branding, Dionisio Pestana, cioè il CEO di una holding leader nel settore turistico di lusso portoghese, e capace di offrire quasi undicimila camere nel mondo. Una storia interessante per i molti punti di contatto con la carriera di Cristiano, in cui privazioni, contesti disagiati, duro lavoro, fame di rivalsa, di successo sono la costante.
Come Cristiano, Dionisio è un figlio di Madeira. Suo padre Manuel, cresciuto senza la possibilità di frequentare una scuola, senza un orizzonte cui puntare, negli anni Cinquanta era fuggito dall’isola per emigrare in Sudafrica, dove aveva lavorato nelle cave di diamanti. Con i primi guadagni aveva investito in un negozio di verdure, poi in una fabbrica per l’imbottigliamento di conserve alimentari. Con la perseveranza avventuriera di chi cavalcava senza troppi scrupoli gli ultimi colpi di coda del colonialismo, Manuel aveva acquistato dapprima dei piccoli appartamenti a Maputo, all’epoca Lourenço Marques, in Mozambico, poi dei ristoranti. Scoperta una vocazione per il mondo dell’accoglienza, aveva deciso di comprare l’Hotel Residence Atlantico a Madeira. Quello scoglio in mezzo all’Atlantico, luogo odiato e abbandonato, sarebbe diventato invece la sua salvezza: nel 1974, con la caduta di Salazar e l’inizio dei processi di indipendenza delle ex colonie, la famiglia Pestana avrebbe perso tutte le proprietà in Mozambico, e subîto sulla sua pelle la recessione dell’economia portoghese, per poi scoprire il valore di avere una casa non solo dalla quale andarsene, ma nella quale poter tornare, riscoprire le tracce di sé, ritrovare una via, un insegnamento. E fare dei soldi.
Si può dire che Dionisio, come Cristiano, ami Madeira nella misura in cui l’isola, con la sua morfologia fisica e sentimentale, gli ha fornito gli strumenti culturali per architettare un piano che fosse allo stesso tempo di fuga, e di permanenza. Dionisio e Cristiano sono il prodotto dello stesso ambiente, del medesimo genius loci, e il Pestana CR7 è il mausoleo che ne celebra la contiguità di mind asset.
Soggiornarci è un’esperienza che può rivelarsi straniante. Seduti ai tavoli del bar ci sono tedeschi attempati che passano ore a fissare i culaccini sotto le birre stiepidite e pellegrini provenienti dal Sudest asiatico, intere tavolate di divise – del Portogallo, del Real Madrid, del Manchester United – col numero sette stampato sulla schiena, che si scattano selfie davanti alla maglia incorniciata vicino all’ascensore. Nel molo di fronte attraccano con regolarità i grossi transatlantici che a Funchal fanno tappa intermedia prima di approdare a Faro, o all’opposto immettersi nella navigazione dell’Atlantico. Dalle stive si riversano sui marciapiedi eserciti di marinai e macchinisti del Bangladesh, delle Filippine, dello Sri Lanka, che si collegano al wi-fi dell’hotel per inviare a Dacca o a Manila la foto in cui stringono la mano alla statua bronzea di Ronaldo.
Quello asiatico, mi spiega Hugo, è uno dei mercati di riferimento creati ex-novo dal Pestana CR7, che esula del tutto dall’identikit di chi tradizionalmente visita l’isola di Madeira, vale a dire nordeuropei attratti dal clima mite, dalle palme, da un panorama che non è già più europeo, pur non essendo del tutto tropicale. Chi viene a Madeira dall’Asia, in soldoni, lo fa per Ronaldo. O perché lavora come macchinista su un transatlantico.
Quando sono arrivato, subito dopo avermi chiesto di scegliere il mio drink di benvenuto tra un cocktail con soda e vino liquoroso di Madeira e una centrifuga energizzante – perché al Pestana CR7 Lifestyle Hotel ogni soluzione cammina in bilico tra lo spirito tradizionale e quello salutista ispirato da Ronaldo – Hugo mi ha raccontato di aver avuto ospite di recente un cardiochirurgo pakistano che gli ha candidamente confessato di essere arrivato fin là per vedere se il contesto difficile dal quale Ronaldo è partito, come aveva letto, somigliasse un po’ a quello in cui era immerso lui prima di impegnarsi con tutto sé stesso nell’operazione apparentemente impossibile di emancipazione. «Ci pensi a che effetto fa sulle persone? Che impatto globale?», ammicca Hugo.
Sono sincero, la storiella del cardiochirurgo pakistano mi è sembrata poco credibile: buona se usata in un workshop motivazionale, ma fin troppo perfetta per essere vera. Nonostante fossi anche io, lì, in fin dei conti, in una maniera o nell’altra, per via di Cristiano Ronaldo, mi riusciva complicato credere che qualcuno potesse davvero impegnarsi in un pellegrinaggio di oltre diecimila chilometri verso Madeira.
Poi, però, ho incontrato Luo.
«A te piace, Ronaldo?» mi ha chiesto mentre scendevamo in l’ascensore del Pestana CR7. Mi era parsa una domanda totalmente assurda, per quanto coerente: era come se stesse cercando una rassicurazione, per entrambi, al nostro essere lì, insieme, in un ascensore tappezzato con una foto di paparazzi intenti a fotografarti, come se fossi proprio tu Cristiano Ronaldo.
Luo viene da Chengdu, il capoluogo del Sichuan, e fa l’installatore di apparecchiature tecnologiche. Dice di aver fatto molta carriera, nel suo lavoro, grazie all’autodisciplina, alla perseveranza e alla tenacia.
«Tutte cose che mi ha insegnato Cristiano Ronaldo», aggiunge guardandomi serio negli occhi.
Poi mi invita al CR7 Corner, il bar dell’hotel, dove un maxischermo proietta senza soluzione di continuità frammenti di partite. Luo ordina un’insalata CR7, un poke con mango, riso, insalata, gamberi. Quando dalla cucina, con l’affabilità di cui sono capaci i «FanCReator» – chiunque lavori al Pestana CR7 si fregia di questa carica che è prima di tutto ambasciatoriale – gli mandano a dire che non ci sono i gamberi, non ci rimane poi così male. Anche se per un attimo ho pensato che si sarebbe tuffato in mare per prenderseli da sé…
Funchal è la penultima tappa del suo viaggio in Europa. La prossima, mi dice, è in Italia: Luo ha già acquistato il biglietto per Juventus-Milan, che è prevista un paio di giorni dopo il nostro incontro. Non possiedo tutto il coraggio che servirebbe per confessargli che Cristiano quella partita non la giocherà mai, perché infortunato. Luo ha già visitato Manchester, Madrid, Lisbona. Mi mostra alcune foto sul suo smartphone, prodigandosi in spiegazioni. «Vedi questo scorcio? Adesso guarda qua!». Avrà almeno venti foto che sono l’esatta riproduzione di foto che immortalano Cristiano Ronaldo: con le mani dietro la nuca, in accappatoio, sul terrazzo della suite del Pestana CR7 Lisbona, in posa proprio come il suo idolo. «Questa mi è costata un sacco di soldi», sorride. Vedo Luo con i pollici alzati dentro al Santiago Bernabeu. E poi in un angolo del Bairro Alto di Lisbona che è esattamente lo stesso in cui Cristiano è stato fotografato per un servizio durante il suo periodo allo Sporting.
Luo ha aperto un profilo Facebook non appena è arrivato in Europa – in Cina Facebook non si può tenere. Ha solo amici conosciuti durante questo viaggio. Solo gente con cui, mi confessa, parla di Cristiano tutto il giorno. Quando si dice stare nella bolla.
Dopo avermi aggiunto ai suoi contatti, mi chiede se posso scattargli una foto vicino alla statua di bronzo che si erige di fronte all’ingresso del Museu. La statua bronzea ha delle macchie più chiare, quasi dorate, all’altezza delle mani, e del pube, le parti più provate dall’usura, dallo sfregamento. Luo si avvicina timidamente, poi stringe la mano del Cristiano metallico, guardandolo con tenerezza.
Qualche settimana dopo, poco prima dell’inizio della sfida di andata dei quarti di finale di Champions League ad Amsterdam, contro l’Ajax, proprio mentre risuona l’inno della Champions, le telecamere riprendono una scena dolcissima. Il ragazzino davanti a Bonucci, che sta proprio a lato di Cristiano, si gira verso il portoghese con uno sguardo che travalica l’ammirazione per sconfinare nella venerazione. Lo fissa, sembra non capacitarsi della vicinanza al suo idolo. Cristiano intercetta il suo sguardo, e per un momento si avverte una tensione, un senso di soggezione che porta il ragazzino a distogliere gli occhi, accennare una ritirata. Proprio in quell’istante, però, Cristiano sorride, e l’espressione di sollievo estatico che ho visto in quel ragazzino diventato virale sui social, io l’avevo già vista qualche giorno prima in Luo, mentre gli scattavo una foto con il cellulare che sarebbe finita per essere la foto più artistica che abbia mai fatto in vita mia. In quel momento ho provato quel qualcosa che in Giappone si esprime con una parola specifica, intraducibile nelle altre lingue, aware: la sensazione che si prova quando ci si accorge di star vivendo un momento di estrema bellezza, dolce e malinconica a un tempo. Perché alle spalle di Luo, dopo essere piovuto tutto il giorno, proprio mentre scattavo, un arcobaleno ha scelto di incorniciare l’intera scena, il trionfo celeste di Cristiano.
[1] Edgar Allan Poe, «Solo» in Il Corvo e altre poesie, Feltrinelli, Milano, 2014. Traduzione di Raul Montanari.