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Cosa sono tutti questi atleti religiosi?
28 lug 2018
28 lug 2018
Federico ci ha chiesto come dobbiamo interpretare queste vocazioni religiosi nel calcio. Risponde Fabrizio Gabrielli.
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Gentile Redazione,

Mi permetto di sottoporvi una questione forse spinosetta. Negli ultimi anni pare che si sia verificata una incredibile impennata delle "vocazioni" religiose nel mondo del calcio.

 

Osserviamo ogni partita una buona parte di giocatori che si fanno il segno della croce, più e più volte, sulla testa, sul petto, che allargano le braccia e guardano verso il cielo pregando, che baciano croci anelli e collane, aspergono acqua santa, ostentano tatuaggi a tema religioso, specie se a favore di telecamera.

 

I calciatori quindi, tanto bistrattati per la loro presunta ignoranza e frivolezza, in realtà sono persone profonde, che riflettono sul senso della vita, sulle parole dei testi sacri, che ascoltano e soprattutto ne seguono i relativi precetti.

 

Quindi dobbiamo pensare, conseguentemente, che osservino questi precetti anche in campo, e soprattutto nella vita. Perciò dovremmo vedere in campo la massima correttezza, mai più simulazioni, proteste, turpiloqui.

 

E, così illuminati, questi calciatori capirebbero che sono molto fortunati. Quindi fuori dal campo dovremmo osservare sobrietà e prodigalità: nell'abbigliamento, nelle auto, nei tatuaggi, nella scelte sentimentali. E poi dei molti soldi che percepiscono una buona parte la girerebbero ai bisognosi, non a sprechi, non per le auto di lusso e patetici status symbol vari.

 

E dovrebbero farsi il segno della croce, baciare icone, pregare ecc ecc anche e soprattutto nella vita vera, fuori dal campo, dove stanno solo semplicemente, da ragazzi bravi e fortunati, giocando.

 

Ma... che sia proprio così?

 

Mi torna in mente una cosa che si sente dire da sempre nello sport, specie italiano e specie nel calcio: che c'è molta, moltissima scaramanzia. Un appiglio molto risibile, ma a cui si rivolgono spesso le persone con pochi riferimenti culturali o morali.

 

E altra cosa strana: le chiese sono sempre più vuote e i calciatori sempre più religiosi... Come si spiega questa apparente contraddizione? Dunque... facendo due più due: e se fosse che questi ragazzi si rivolgono a forze ultraterrene non per vocazione, ma semplicemente per avere dei vantaggi personali?

 

E se quindi questi gesti che paiono religiosi fossero in realtà pura e semplice scaramanzia, travisando così completamente il significato, ed anzi insultando la vera fede?

 

Del tipo: "Chiunque Tu sia, per favore fammi vincere, fammi segnare, non farmi infortunare" o simili?

 

D'altronde: una persona realmente colma di fede si rivolge al proprio Dio o ai propri santi per avere vantaggi immediati e terreni? Come se essere giovane, in salute, ricco, con un bel lavoro, non fosse già più che abbondantemente un "segno" della compiacenza divina!

 

Dietro il mistero della fede vediamo ogni giorno, oltre a vite e gesta rette, commoventi, ammirevoli ed altruiste, tese al bene disinteressato, anche tante, tantissime piccole o grandi sopraffazioni di diritti o anche vite.

 

Se veramente i calciatori rispettassero la religione, non dovrebbero disturbare queste forze superiori per motivi ben più degni, come la pace, la fame, le malattie, la serenità nel mondo o perlomeno delle persone care?

 

Federico

 



 

Wow, Federico,

la tua non è una domanda, è un’intera compilation di quesiti, tenuti insieme da un filo sottilissimo che lega il macro e il micro come le Parche al Destino. Una domanda che smuove le acque torbide di un Loch Ness sotto l’increspatura del quale, da qualche parte, forse si dimena tra le sue spire la verità sul rapporto tra spiritualità e atleti, nella fattispecie calciatori.

 

Il campo nel quale mi chiedi di avventurarmi è così irto di trappole che mi vedo costretto a cercare di capire da subito di cos’è che vogliamo parlare: il rapporto che hanno i calciatori con la spiritualità, con la fede, o la rappresentazione verso l’esterno dello stesso? Perché mi pare pacifico che tutte le storture, tutte quelle che evidenzi, si annidino nel secondo aspetto. La spettacolarizzazione della nostra società porta connaturato in sé il rischio della banalizzazione, e del macchiettistico: così qualcosa di profondo come il rapporto con l’Alto rischia di sembrare, ripreso da una telecamera in mondovisione, un teatrino squallido.

 

Però dovremmo metterci subito in testa che non è detto che la spettacolarizzazione comprometta per forza la genuinità. Mi spiego meglio: non sono certo che tutte le “vocazioni” siano reali fino in fondo, chiaramente, così come non sono del tutto convinto che si tratti sempre di una messinscena. Dopotutto siamo tutti, anche io e te, sempre in bilico: saggi ma non tutte le volte, simpatici ma anche stronzi, se capita. Fedeli, ma non per forza così attenti a rispettare ogni precetto.

 

Una volta, in un libro che si chiama 

, ho letto una tesi curiosa sul fatto che partendo da un sito di apparizioni mariane con un numero ristretto di clic si finisce sempre su un sito porno. Questa specie di teoria dei gradi di separazione dimostra che sacro e profano vivono così immersi nello stesso brodo di vita che è difficile segnare un passo preciso: a differenza della politica, sulla quale si può tacere in certi contesti, la religione è così connaturata al nostro modo di essere, influenza così profondamente i nostri comportamenti in modo istintivo (tipo la scelta di tatuarsi un Gesù Cristo) che è praticamente impossibile, a volte, reprimerli. E forse anche ingiusto.

 

Avrai visto, durante i Mondiali, Lukaku inginocchiarsi e i giocatori dell’Arabia Saudita ringraziare con la fronte a terra dopo il loro successo nella sfida tutta musulmana all’Egitto: gesti dettati più dall’istinto che premeditati, che peraltro non tutti capiscono (Lineker, nel 2012, è stato costretto a scusarsi dopo aver commentato il festeggiamento di un calciatore musulmano come quello di qualcuno che sembrava stesse «mangiando l’erba del prato»). Sapevi che, di contro, la Federcalcio brasiliana ha vietato i festeggiamenti “di matrice cattolica” a Russia 2018 giustificandolo col fatto che avrebbero potuto «distogliere il focus dalla competizione e offendere atleti che sostengono altre confessioni o sono agnostici»?

 

Per chi facciamo il tifo, allora? Per chi reprime un sentimento così profondo o per chi decide di manifestarlo?

 

Certo, nella rappresentazione del rapporto tra i calciatori e la loro religiosità c’entra molto anche la scaramanzia. Ho letto da qualche parte, credo fosse Daniil Charms, che a San Pietroburgo, in Prospektiva Nievskij, c’è un posto in cui inserendo due copechi sotto un’icona della Madonna questa ti segue con lo sguardo. Credo volesse dire che la fede, alla fine, esiste per chi ci crede. Marvelous Nakamba, un calciatore dello Zimbabwe che gioca in Belgio, si fa ritrarre spesso insieme a un predicatore evangelico abbastanza discusso in patria perché sembra che questo gli abbia predetto, durante una sua predica, un successo strepitoso in Europa (e un recupero da un infortunio che sembrava precluderglielo): non me la sento, come mi sembra di sentir serpeggiare nel tuo ragionamento, a volte un po’ livoroso come sono livorosi tutti i discorsi sulla religione, di dovergliene fare una colpa. Sapevi che ci sono reverendi (e imam) che hanno incoraggiato i loro fedeli a non presentarsi alle funzioni religiose con maglie tipo quella del Manchester United o del Real Madrid perché portano nello stemma diavoli e croci? Gli estremi si attraggono sempre un po’, alla fine.

 

La parte del tuo discorso in cui metti a confronto i comportamenti religiosi con la presunta disattenzione, poi, dei precetti nella vita di tutti i giorni credo sia quella che fa più acqua: se neppure alcuni sacerdoti riescono a seguire tutti i comandamenti tutti insieme, figuriamoci se possono riuscirci esseri umani (giovani, mediamente ricchi) costantemente esposti al tipo di tricks che inscenava il diavolo nel deserto con Gesù Cristo!

 

Papiss Cissé, tempo fa, ha fatto discutere per il suo rifiuto di indossare una maglia, quella del Newcastle, per via di uno sponsor legato al mondo delle scommesse, che sono vietate dall’Islam. Poi però ha sollevato un polverone anche per il fatto di essere poligamo (sembra abbia abbandonato una moglie tredicenne, e un’altra ancora, insomma che fosse poligamo all’insaputa di ogni compagna), e allora mi chiedo: non sarà che questo nostro atteggiamento ipercritico derivi da quell’eurocentrismo che ci porta a soppesare ogni comportamento con la tara puntata sulla nostra scala di valori? Estrinsecando la sua religiosità, un uomo-calciatore non ci sta aprendo una finestra sul suo mondo?

 

A me, personalmente, non danno fastidio le immagini di calciatori musulmani ritratti mentre fanno il dua, l’invocazione/supplica tipica dell’Islam («E il vostro Signore ha detto: “Invocatemi, vi risponderò”», Sura 40 Al-Ghafir, verso 60), né i profili Instagram dei brasiliani pieni di versetti biblici: non ci vedo quella volontà di avere «vantaggi immediati e terreni», come dici tu, ma più una legittima volontà di ringraziare, qualcuno o qualcosa, per il fatto di vivere i momenti che stanno vivendo, magari dopo esser stati sottratti a una possibilità di futuro molto meno agiata, o tranquilla. Ringraziano per i successi professionali, ma anche mettendo a nudo tutta la loro umanità: i calciatori che si espongono su concetti così sensibili, dopotutto, si caricano sulle spalle una grossa responsabilità. Nella Bhagavadgītā c’è scritto «Qualsiasi azione un grande uomo intraprenda, gli uomini comuni lo seguono». Credo valga anche per la rappresentazione del rapporto tra calciatori e divino.

 

Per carità, capisco il tuo punto di vista, che poi peraltro è anche lo stesso di Mario Zagallo, agnostico coi fiocchi mi viene da pensare, secondo il quale l’elevazione della fede fa sì che la percezione del successo venga fuorviata, perché così ragionando la si concepisce troppo collegata e consequenziale all’atto di fede, in una maniera che finisce per ridimensionare la dedizione, e gli sforzi, degli atleti.

 

Non credo che tutte le manifestazioni di fede, poi, siano posticce: anzi, alcune mi sembrano davvero genuine, sincere. Il reverendo Simon Oriedo, un parroco della diocesi di Nairobi della Chiesa Anglicana, comunque ha scoperto un trucco interessante per smascherarli, una specie di metal detector della fede: per capire se la vocazione di un giocatore è reale «basta osservarli dopo che hanno vinto: raramente dicono «Dio ci ha dato la vittoria», preferiscono congratularsi con l’allenatore».

 

Anzi, ti dirò di più: credo che l’esternazione del proprio credo possa addirittura, come dire, servire. Chi ci dice che Pogba, che non ha mai fatto mistero della sua fede, non possa aiutare i francesi nel Nirvana della vittoria mondiale a riappacificarsi con l’idea di Islam che si sono fatti negli ultimi tempi?

 

Per chiudere, voglio regalarti questa foto:

 



 

Sono tre calciatori del Bali United, campionato indonesiano. Uno hindu, uno musulmano, uno cattolico. Stanno esultando, anche se non sembrerebbe, dopo un goal: ognuno esternando la propria fede.

 

Pochi giorni prima che venisse scattata questa foto, nel distretto di Jakarta si erano tenute le elezioni per il nuovo governatore: il vecchio era stato arrestato con l’accusa di blasfemia.

 

I giocatori del Bali United, inscenando questa esultanza, hanno voluto lanciare un messaggio di tolleranza.

 

A volte, come vedi, affondare le mani nella fanghiglia di un tema così importante, così irrilevante rispetto alla dimensione del gioco che mette la palla al centro di ogni interesse, conserva ancora quella rilevanza che tu vedi affievolita.

 

Chissà che il cosiddetto mistero della fede, in qualche modo, come da migliaia di anni a questa parte, quando ce ne ricordiamo, cerca di suggerirci, non possa davvero ancora contribuire a renderci - in qualche senso - migliori.

 

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