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L'impero colpisce ancora
06 lug 2022
06 lug 2022
Il serbo ha iniziato a dominare Sinner nel momento in cui sembrava sconfitto.
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Ci sono dei pesci del lago Malawi, i Nimbochromis, che si fingono morti. Si distendono di fianco sul fondale marino, assumono una colorazione che gli permette di mimetizzarsi e cercano di farsi scambiare per delle carcasse. Quando altri pesci più piccoli si avvicinano, il Nimbochromis approfitta dell’effetto sorpresa per attaccare.


 

Ci sono animali che si fingono morti per evitare di essere predati, come l’opossum, e altri che si fingono morti per predare gli altri. È una tecnica di caccia che possiamo riconoscere anche in Novak Djokovic. Gliel’abbiamo vista praticare così spesso che dovremmo anche aver smesso di sorprenderci. Djokovic si aggira per il campo floscio, senza idee ed energie vitali. Commette errori grossolani, tira servizi che a malapena superano la rete. Sembra fare uno sforzo immane, quasi in preda a una crisi cardiaca, per giocare semplicemente a tennis. Ha l’aria di quei demoni a cui è stata spirata la vita e di cui è rimasto un fioco involucro che si aggira tormentato per il mondo. Djokovic prende il nastro con la seconda di servizio, si rimette in posizione e tira questo servizio stanco e lacrimevole che muore a rete. Concede il break, abbassa la testa mentre torna alla sedia, triste e indifeso.



Djokovic finisce due set sotto e francamente pare sconfitto. Rimontare due set in una partita di tennis è una delle imprese più difficili e irragionevoli nello sport. Per darvi un riferimento statistico, a Wimbledon succede all’incirca nel 3% dei match. È difficile perché il solo pensiero di riuscirci dà le vertigini: è richiesta la perfezione, contro un avversario che ha già dimostrato di poterci dare due set. Djokovic pare riuscire a malapena a reggersi in piedi, come dovrebbe fare, a rimontare uno dei migliori giovani del circuito se non il migliore, Jannik Sinner, che a vent’anni sta volando e lasciando solchi sul campo?


 

Eppure, quando vediamo Djokovic allontanarsi verso il bagno, alla fine del secondo set, una parte di noi sa già quello che sta per succedere: lo abbiamo già visto avverarsi. Contro Lorenzo Musetti, al Roland Garros 2021, Djokovic era sotto di due set, dominato dalla brillantezza di uno dei bracci dorati del circuito in giornata di grazia. Al termine del secondo set era andato negli spogliatoi, si era sciacquato la faccia, indossato una maglietta pulita e, guardandosi allo specchio, si era convinto di essere un giocatore nuovo. Aveva vinto 6-1 il terzo set, 6-1 al quarto e sul 4-0 per lui, nel quinto, Musetti era stato costretto al ritiro, confuso e mezzo morto. Nella finale dello stesso torneo, la buca in cui si era trovato contro Stefanos Tsitsipas pareva ancora più profonda. A Djokovic non riusciva niente in campo, mentre il suo avversario si stava affermando come il miglior giocatore su terra della sua generazione. Poi, alla fine del secondo set, era andato in bagno, si era cambiato la maglia e puff: tre set consecutivi e coppa dei moschettieri alzata.



Chi ricordava quei momenti, vedendolo allontanarsi verso il bagno, ha temuto il peggio per Jannik Sinner. Una sensazione perturbante, e irrazionale, di aver intravisto l’ombra della sconfitta partorita direttamente dalla vittoria quasi raggiunta. Come se aver vinto quei due set producesse il paradosso enigmatico di consegnare la vittoria a Djokovic.


 

In uno degli episodi più truci di Game of Thrones, Oberyn Martell e Gregor Clegane si sfidano a duello sotto la cittadella di Approdo del Re. Oberyn sembra un moscerino rispetto al suo nemico, ma attraverso la sua agilità e la destrezza nell’uso di una lancia avvelenata riesce a sovrastarlo, a lasciarlo sulla schiena con l'arma conficcata nel petto. Il problema è che Oberyn non si accontenta di battere la Montagna, esige la sua redenzione. Vuole che Gregor Clegane confessi i suoi crimini di fronte a tutti, tra cui lo stupro e l’assassinio di sua sorella e dei suoi figli; «Non puoi morire ancora, devi confessare», dice mentre gira attorno al gigantesco corpo della Montagna. In quel momento noi spettatori intuiamo che qualcosa possa andare storto, per l’eroe della vicenda. Sta indugiando troppo, reclamando un ordine morale che in una serie come Game of Thrones - fondata sul nichilismo dell’essere umano e del mondo - non è concesso. La Montagna riesce a sgambettarlo, a portarlo a terra e a fargli esplodere il cranio bucandogli gli occhi, mentre confessa i suoi crimini.


 

Mentre Oberyn reclamava giustizia con la Montagna a terra, da spettatori abbiamo cominciato a covare un sinistro senso di paranoia. È il funzionamento di quella serie che ce lo ha suggerito: una delle dinamiche principali di Game of Thrones è la disattesa dei desideri dello spettatore, nel modo più brusco e violento possibile. Lo abbiamo imparato durante il Red Wedding, una delle scene rivoluzionarie della serialità televisiva proprio per questo. La ricompensa e la sanzione positiva di una situazione è stata a lungo costruita solo e soltanto per essere dolorosamente cancellata in un istante, per diventare il suo opposto proprio mentre lo spettatore ha la guardia abbassata.


 

La scena del Red Wedding ha una sua potenza scioccante perché ci coglie di sorpresa, ma non c’è niente a cui uno spettatore non possa abituarsi. Col tempo costruisce una propria competenza esperienziale sulle dinamiche di una serie tv, e nelle scene più estreme di Game of Thrones sa bene che può verificarsi quel meccanismo di ribaltamento da un momento all’altro. È una nozione che attiva inconsciamente, pescando da quella che Umberto Eco definisce “Enciclopedia”, l’insieme di conoscenze che abbiamo accumulato e che regolano la nostra interpretazione del mondo.


 

In modo simile, quindi, quando abbiamo visto Djokovic allontanarsi verso il bagno, sotto di due set, conoscevamo già quelle circostanze e quelle dinamiche. Sapevamo che Sinner non poteva stare tranquillo. Per una lunghissima fase di partita, da quando era 4-1 in vantaggio nel primo set, Djokovic non era riuscito a giocare turni di risposta pericolosi. Nel secondo set Sinner aveva vinto il 100% di punti con la prima palla (!). Eppure, con la prevedibilità matematica di uno sceneggiatore un po’ grossolano, Djokovic ottiene il break all’inizio del terzo set. Ha bisogno di un game di rodaggio, il primo di servizio di Sinner, dove lascia che quello gli annulli una palla break; ma al secondo compie il suo affondo, strappando il servizio a zero. Sullo 0-30 ammazza Sinner di variazioni in back, finché quello non arretra la lunghezza dei suoi colpi un poco alla volta, e poi lo crocifigge con un attacco incrociato di dritto all’incrocio delle righe, seguito da una volée in campo aperto. Uno di quegli scambi che equivalgono ai calci sulle gambe in un incontro di MMA: ti piegano per accumulazione. Nel punto seguente Sinner commette un errore non forzato, si arrende.


 



 

Djokovic era stato dominato nei primi due set, lui stesso lo ha ammesso. «In bagno ho urlato un po’ davanti allo specchio, serve quando non succede niente di positivo in campo e l’avversario ti sta dominando». Dal terzo in avanti è salito a un livello di gioco che per gli altri è semplicemente inaccessibile. Si è aggiustato sugli appoggi, apparsi fiacchi e scoordinati nei primi due set, ha aumentato la velocità dei colpi e, soprattutto, ha limitato gli errori. Anzi, ha proprio smesso di sbagliare. Le variazioni hanno cominciato a far male, le accelerazioni a penetrare, le palle corte a morire sempre più vicine alla rete. Sinner aveva speso molto nei primi due set ma, va detto, nel terzo non si è concesso grandi cali. Un solo passaggio a vuoto, in quel game comunque giocato in modo impeccabile dal suo avversario.


 

Nel game successivo, poi, Sinner si porta 30 pari. Gioca uno scambio a una velocità folle, eccessiva persino per Nole, costretto a fare il tergicristallo difensivo. Gioca una buona palla corta, che nei primi set gli avrebbe dato il punto ma su cui stavolta il serbo arriva. Sinner è avanzato (avrebbe dovuto rimanere indietro e fidarsi del suo passante?) e ha sbagliato il colpo al volo di rovescio. Il suo punto debole, la parte del gioco in cui è ancora imperfetto.



Da quel momento in poi è un monologo, uno spettacolo a tratti violento. Djokovic ha soffocato Sinner piano piano, poi sempre più forte. Ha iniziato a servire come una macchina, ottenendo sempre più punti diretti da un colpo che vive sempre grandi oscillazioni di rendimento. Djokovic, col servizio, può essere Schwartzman o Berrettini all’interno della stessa partita. Nel terzo set ha servito con l’80% di prime palle, vincendo l’85% di punti. Nel quarto ha servito il 64%, ma vincendo il 94% dei punti. Nel quinto ha servito il 71% di prime, vincendo il 100% dei punti.


 

Sinner ha avuto un vistoso calo di rendimento solo nel quarto, mentre nel quinto ha provato a rimettere insieme i pezzi. Non ha più giocato al livello dei primi due set, è vero, ma i confini tra meriti altrui e demeriti propri, nel tennis, è molto difficile da decifrare. Il problema è che nel quinto Djokovic ha giocato su una nuvola, a un livello che è appartenuto a pochi, a quasi nessuno, in questo gioco. Cosa avrebbe potuto fare, il pur talentuosissimo Jannik Sinner? Ecco un punto che somiglia a un’improvvisa coltellata nel costato. Dopo il colpo Djokovic rimane a terra, apre le ali per dire a tutti che si sente così, che ha l’impressione di volare. Mentre dà spettacolo, con la pancia a terra, alza gli occhi verso il pubblico e controlla di aver trasmesso il giusto entusiasmo.


 



Non solo in Italia, in molti speravano nella vittoria di Sinner, che dopo il trionfo su Alcaraz sembrava poter scrivere una storia nuova nel torneo più prestigioso. Sarebbe stato il segno più tangibile del rinnovamento che nel tennis viene reclamato da anni, e che i Big-3, in periodi alterni, si preoccupano di scacciare con moti di restaurazione sempre più spaventosi. A 35 anni Djokovic sembra quasi aver bisogno di trovarsi sconfitto, a terra, per ritrovare la disumana fiamma competitiva che lo anima. È la storia di un tennista che prolifera nell’avversità, il cui gioco si nutre in pari misura di tecnica e nervi, e che quando il volume del conflitto si alza mostra più spirito di chiunque altro. Il tennis in cinque set gli permette di scrivere il romanzo di queste partite, di prendersi lunghe pause, di lasciarsi dominare sembrando inoffensivo, per poi tornare ancora più feroce e potente, un demone nutrito delle speranze di gloria altrui.


 

La consolazione di Sinner è di uscire da un quarto di finale a Wimbledon senza rimpianti, pur nel paradosso di essere stato in vantaggio di due set. Il Djokovic visto dal terzo set in avanti è semplicemente il più forte di tutti, anche a 35 anni, anche in una stagione controversa e non particolarmente fortunata. Un tennista che gioca un tennis enigmatico, la cui forza è tanto evidente quanto misteriosa. Anche nelle giornate più difficili, nell’epoca più tarda della propria carriera, i big-3 sanno dimostrare la differenza tra sé e il resto dei giocatori. Fra il divino e l’umano. Oggi Djokovic, ieri Nadal, l’altro ieri Federer - che agli Australian Open del 2017 aveva un anno in più di quelli che ha ora Nole.


 

Nel frattempo il tennis continua a vivere questa temporalità congelata, incapace di muoversi in avanti. La sensazione di essere privilegiati testimoni della storia, che continuiamo a vivere, e anche ieri abbiamo vissuto attraverso il tennis di Nole, si alterna sempre più spesso a una sensazione di noia e frustrazione (ieri certamente acuita dalle nostre speranze per Sinner). Non esiste spettacolo più consunto, di quello in cui l’imprevedibile diventa prevedibile, in cui le trovate sceniche diventano la norma. È il segno che una serie tv, in genere, ha esaurito la propria brillantezza, la propria capacità di parlarci in modo interessante. Quando la violazione dell’orizzonte delle aspettative diventa più frequente del suo rispetto, cade la grammatica naturale che regola ordinario e non ordinario, e non sappiamo più che farcene, di queste grandi imprese. Il mondo ci sembra aver perso colore. In attesa del prossimo Djokovic-Nadal.


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