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Michele Cerfoglio
Cosa significa essere un giocatore di Pokemon in Italia
19 lug 2023
19 lug 2023
Gli esports minori, gli amici, la sconfitta: i campionati italiani Pokémon di Torino raccontati da dentro.
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Michele Cerfoglio
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«Ci fermiamo alla prossima?» Me lo chiede Guido dal sedile posteriore dell’auto che viaggia imprecisata tra Milano e Torino. Siamo sull’A4 verso Lingotto Fiere per i campionati italiani del videogioco Pokémon. Lui è il più nervoso tra noi e lo capisco: ha investito molto tempo nella preparazione di quest’evento e può ottenere un buon piazzamento, un po’ lo invidio. «Dai siamo in ritardo, prenderemo il caffè in fiera». Il tono è di rimprovero e mentre lo dico ho paura che l’invidia traspaia. Non credo che a Guido interessi poi molto del caffè, la sera prima mi ha pure confessato di berne poco. Credo voglia solo avere l’occasione di fermarsi e tirare fuori il quadernino su cui ha preso appunti: rileggerne qualche pagina, ripassare le strategie, i calcoli, le aperture. «Leggerlo in auto mi fa venire la nausea». È l’auto o l’ansia del torneo? «Ci pensate? Settimana scorsa avranno servito il caffè a Baricco e oggi dovranno servirlo ai giocatori di Pokémon». Guido commenta mentre l’area di sosta scorre via. Il riferimento è al Salone del Libro di qualche giorno prima e la battuta stempera una tensione sinceramente insostenibile. Abbiamo la convinzione che i giocatori competitivi di esports siano una specie un po’ aliena e ci fa sorridere immaginarci a contatto coi baristi, le hostess, i fotografi. In realtà questi professionisti sono poco permeabili alle stranezze e ogni volta ci stupiamo di quanto ci trattino con garbo. Oltre a me e Guido in auto, sonnecchiosi e disattenti, ci sono Giuliana e Cristiano. Veniamo da una stagione parca di soddisfazioni: allo Special Event di Utrecht siamo tutti finiti a metà classifica. «Almeno Cristiano ha battuto Alex Soto» ricorda Guido mentre rimuginiamo su quella giornata. Alex Soto è un giocatore spagnolo, molto in forma in questa stagione, quarto nei rankings europei e tra i favoriti di quel torneo. Nessuno di noi giocò davvero male ma ricordo che sul Ryanair di ritorno da Eindhoven tirai un sospiro di sollievo quando scoprii che il posto che mi avevano assegnato era lontano dagli altri. Non avevo voglia di parlare ancora di Pokémon. Nel dormiveglia un po’ gelido di quel volo promisi a me stesso che avrei smesso con il gioco competitivo, che mi sarei concentrato sul mio lavoro. Varcata la soglia di casa mia gettai lo zainetto per terra e scrissi a Giuliana su Telegram che quello era stato il mio ultimo torneo. Mi rispose soltanto al mattino dopo, ammettendo che anche per lei era arrivato il momento di concentrarsi sull’università. Quando mi sono messo in testa di scrivere questo articolo ho evitato di dirlo ai ragazzi. Innanzitutto non volevo distrarre troppo me stesso dalle mie giocate, poi non volevo aggiungere altra pressione sulle loro spalle. A cena a casa mia, la sera prima del torneo, avrei voluto tirare fuori l’argomento. Poi Cristiano mi ha detto che era così teso che stava meditando di cancellare la sua iscrizione alla competizione. Non sono riuscito a capire se stesse scherzando quindi ho lasciato perdere.

L’interno del Lingotto Fiere allestito per i campionati nazionali del videogioco Pokémon. Ritratti in foto Arash Ommati (torinese e campione del mondo 2013) insieme a Nico Davide Cognetta (poi vincitore della competizione). Foto di Justin Cerioni.

Devo incontrare Roberto Parente all’ingresso di Lingotto Fiere. Siamo arrivati in ritardo, appena in tempo per l’inizio del torneo, vedo Roberto chiacchierare coi suoi compagni di squadra, lo saluto rapidamente prima che il sorteggio riveli il nostro avversario: «Fammi giocare il primo round, mi sciolgo e ci rivediamo dopo». Roberto è un giocatore napoletano, classe 2002, tra i più forti in Europa. Ha chiuso la stagione 2019 quindicesimo nel ranking europeo, ha raggiunto gli ottavi di finale ai Mondiali di Londra 2022 ed è un membro del Team Aqua: si tratta del team di Pokémon competitivo con più risultati in Italia e ha sede a Livorno (Pokémon è un esport individuale ma i giocatori tendono ad organizzarsi in team per trovare nuove strategie, farsi da sparring partner e studiare il gioco). L’idea è che trascorrerò parte della giornata con lui per farmi raccontare come vive un evento del genere un giocatore del suo calibro. Mentre si allontana per raggiungere il tavolo da gioco lo vedo tirare fuori dallo zaino un peluche di Mewtwo. «Ci sono particolarmente legato, l’ho portato con me ai mondiali del 2019 a Washington», mi dirà poi.

Roberto discute con Francesco Pardini dopo il match che l’ha eliminato dalla competizione. Francesco pubblicherà poi un video dove ammetterà il suo rammarico per aver conquistato la qualificazione ai Mondiali eliminando il suo amico.

Non appena conclude il suo primo round lo vedo passeggiare serenamente verso l’esterno del capannone. Indossa la maglietta blu del suo team, non posso fare a meno di notare i suoi sponsor: l’acquario di Livorno, un negozio che vende carte Pokémon, un pastificio. «Non è un po’ poco per uno dei giocatori più forti d’Europa?» esce dalla mia bocca e subito me ne pento, ho paura che si offenda. «Pokèmon è un esport minore, pochi spettatori, pochi soldi, pochi sponsor». Effettivamente davanti al palco su cui si avvicendano i migliori giocatori del paese il pubblico non è numerosissimo. Una buona parte è collegato da casa e sta guardando i match in diretta su Twitch, anche in questo caso i numeri sono lontani da quelli di altri esports più blasonati come League of Legends o Counter Strike. «Purtroppo si tratta di un esport che non ti permette di sopravvivere con solo gli introiti dei tornei, i montepremi sono spesso bassi e i costi di viaggio molto alti. Nintendo paga il cosiddetto stipendio ai giocatori piazzati meglio nei ranking, è un rimborso delle spese di viaggio sostenute, ma si ottiene giocando una stagione lunga e faticosa». Per questa ragione molti giocatori svolgono attività parallele: «molti sono degli streamer, altri svolgono attività di coaching». L’altoparlante del Lingotto annuncia i sorteggi del secondo round, mentre ci dirigiamo ai tavoli gli sorrido e gli dico che non gli chiederò i risultati delle sue partite perché non è quello che mi interessa. Prima di incontrare il mio avversario tiro fuori il cellulare e come una faina vado sul sito della competizione a controllare se Roberto ha vinto o no (per il resto della giornata Roberto non si porrà invece questo problema e continuerà a chiedere molto gentilmente i miei risultati, ignaro dell’ansia ingestibile che questo confronto mi crea).

Roberto Parente sul main stage dei Mondiali di Londra 2022, durante la partita contro Yosuke Takanagi. In primo piano il suo peluche portafortuna di Mewtwo.

«Ho cominciato giocando a scacchi, mio nonno mi accompagnava ai tornei di scacchi da bambino, poi nel 2018 ho cominciato a giocare il VGC» (VGC sta per Video Game Championship ed è il nome del circuito ufficiale di Pokémon competitivo gestito da Nintendo). In effetti il gioco degli scacchi e lo strategico a turni alla base di Pokémon competitivo condividono uno skillset comune. Sono entrambi giochi posizionali con una componente di gestione delle risorse in campo, per questo il fatto che Roberto abbia un background da scacchista non mi sorprende. «Poi ho cominciato a girare l’Europa, sempre insieme al nonno, mentre ero ancora minorenne, per giocare ai Pokémon. Nel 2019 ho ottenuto la qualificazione ai Mondiali. Nel 2021 sono entrato nel Team Aqua: è lì che ho cominciato a crederci, a voler fare questa cosa non soltanto come un passatempo». Mentre Roberto parla con me diverse persone gli ronzano intorno: suoi amici, compagni di team. Interrompe la chiacchierata di continuo, poi torna con l’attenzione al discorso: «oggi sto giocando con poche pressioni, ho già ottenuto i punti necessari alla qualificazione al Mondiale». Per partecipare ai mondiali Pokémon bisogna ottenere un buon numero di punti qualificazione nell’arco della stagione partecipando a tornei nazionali e continentali. Roberto ha raggiunto il cutoff molto presto e in questo finale di stagione può permettersi di sperimentare nuove soluzioni strategiche. «Però voglio giocare, ho voglia di sedermi al tavolo e giocare aggressivo, al di là della qualificazione al mondiale». C’è una cosa che mi sorprende molto di Roberto: parla con me del gioco come se io potessi comprenderlo al suo livello. Tra me e lui ci sono centinaia di posizioni nel ranking ma lui mi spiega le sue giocate, le sue scelte, i suoi processi cognitivi, come se io potessi comprenderne l’essenza. Mi accorgo che lui può vedere il gioco a un livello per me inaccessibile e resto lì a chiedermi se mai la mia scrittura potrà catturare la sensazione di inadeguatezza che sto provando. Mi accorgo inoltre che il gioco per lui è una cosa tremendamente seria. Non si tratta della serietà un po’ ironica che motiva la mia partecipazione ai tornei (ho trent’anni ed è come se ammantare d’ironia la mia partecipazione esportiva sia l’unica strada percorribile per non sembrare ridicolo). La serietà di Roberto è la stessa serietà di qualsiasi altro sportivo. Mi chiede se ho voglia di prendere una boccata d’aria. Seduti sui gradoni appena fuori dal Lingotto io espiro la tensione accumulata, lui gioca qualche partita blitz di allenamento contro dei giocatori casuali su internet. Ci salutiamo per giocare: al torneo ci sono ottocento partecipanti e il sorteggio mi mette contro Giuliana. «Non vorrei mai essere eliminato da un amico o eliminarne uno», è una verità molto banale che Roberto sciorina con una saggezza che non dovrebbe appartenere ad un ventunenne. Tornando a casa, prima di scrivere questo pezzo, mi metterò a guardare le sue interviste post-partita, ritrovando lo stesso aplomb vacuo e condivisibile dei calciatori di Premier League su Sky Sport. In tutta onestà vivo la sfortunata coincidenza come un presagio. Quando ritrovo Roberto lui mi corre incontro per dirmi che è stato sorteggiato contro “Il Pardo”. Il Pardo è Francesco Pardini: uno dei giocatori italiani più esperti, amico e compagno di squadra di Roberto, streamer professionista e personaggio molto in vista nella community esportiva. A Francesco serve una vittoria per ottenere i punti necessari alla qualificazione al Mondiale. Roberto perderà poi quella partita e si farà quindi eliminare dalla competizione. Mi verrebbe da chiedergli se, date le circostanze, non sia stato motivato dall’idea di aiutare un suo compagno di team giocando la partita in maniera un po’ molle. Mentre ci incamminiamo verso il Burger King per schimicare via la stanchezza vedo Roberto nervoso e affranto. Continua a ripetermi che avrebbe voluto vincere «principalmente per continuare a giocare, fare esperienza in vista dei Mondiali» (che si terranno ad agosto a Yokohama). La frustrazione nelle sue parole mi fa capire che ha giocato la partita al massimo delle sue possibilità e che la domanda fa meglio a restare per sempre sul mio taccuino.

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