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Cosa è rimasto del calcio di strada
02 feb 2022
02 feb 2022
Nostalgia di un genere rimasto vivo solo in Brasile.
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Alla fine del documentario Neymar: il caos perfetto vediamo il numero 10 del PSG uscire di casa per andare a giocare con il figlio e alcuni suoi amici in un piccolo campo da calcetto in cemento. Neymar dice che andrà in porta - una frase da adulto quando c’è da far giocare dei bambini - ma alla fine non resiste: si toglie le scarpe e inizia ad accarezzare il pallone a centrocampo con la suola, con quella corsa camminata da persona che non vuole far vedere che sta correndo, che si sta impegnando cioè, in una partita tra bambini. Sotto questa scena sentiamo la voce del padre di Neymar, Neymar Santos Senior, che fa un discorso interessante: “I bambini non si innamorano del calcio per lo sport. All’inizio si innamorano della palla. Non sono interessati al campo o alle regole del gioco. Giocano ovunque”.


 

Quella di Neymar Santos Senior non è una verità particolarmente brillante, ma è pur sempre una verità. D’altra parte è proprio il motivo per cui guardiamo giocatori come Neymar - giocatori infantili, si potrebbe dire - per vedere cioè cosa sanno fare con la palla. Devo ammettere che, vedendo il documentario, proprio per questo motivo sono rimasto un po’ deluso quando l’ho visto uscire dalla porta e fare quello che fa in partita tutti i giorni (più o meno): la curiosità di vederlo alle prese con qualcosa di insolito per lui come la difesa della porta era tanta: cosa avrebbe fatto se fosse dovuto uscire fuori dall’area? Avrebbe parato anche con le mani o si sarebbe contorto pur di parare solo con i piedi? Si sarebbe reso ridicolo? Si sarebbe spostato di fronte a un tiro sbilenco?


 

Si parla spesso dell’influenza del calcio di strada sul calcio brasiliano, senza rendersi conto che è una definizione standardizzata - antilingua direbbe Calvino, forse - per qualcosa di estremamente semplice ma dalle possibilità infinite: cosa succede quando si mette una palla in uno spazio che non è pensato per contenere una palla? In una vera strada, ad esempio, ci sono le macchine, parcheggiate o in movimento, i tombini, i pali della luce - la palla può rimbalzare in maniera impazzita su un marciapiede o su un sampietrino rialzato. È il trionfo delle possibilità e più cresciamo più ci dimentichiamo quanto è divertente vedere una persona alle prese con l’infinità delle cose che possono succedere all’interno di una strada. Da quant’è che non pensavo a quando - avrò avuto sette o otto anni - mi mettevo con mio padre a giocare a “palletta” nel lungo corridoio della vecchia casa dei miei, ognuno a un’estremità del corridoio, con due porte chiuse alle spalle, calciando una pallina da tennis? La pallina inevitabilmente schizzava sui battiscopa, sulle piccole librerie ai lati del corridoio, sulle pareti, sui quadri appesi che per forza di cose cadevano a terra mandando le cornici di vetro in mille pezzi. È così che ho imparato a giocare a calcio e se ci ripenso è assurdo.


 

Il calcio di strada lo vediamo anche nel calcio professionale - nel calcio standardizzato con il campo, le linee, l’arbitro e così via - nelle finte e nei trick dei giocatori più estrosi, soprattutto brasiliani, anche se sarebbe più esatto dire che lo immaginiamo. Immaginiamo quei giocatori, che ne so, sulla spiaggia, o letteralmente per strada, mentre sfidano qualcuno in uno contro uno, gli fanno passare la palla sopra la testa, o tra le gambe. Fantastichiamo di questo momento primordiale che ha forgiato la tecnica di quel giocatore, ma la verità è che il calcio di strada dopo averlo giocato nei primi anni della nostra vita (almeno chi ha potuto farlo) poi finiamo per non vederlo più, perché nella realtà dei fatti non è possibile. Che cos’è oggi il calcio di strada? In gran parte del mondo occidentale di fatto non è nemmeno più possibile giocare per strada, come faremmo a guardarlo? Il calcio di strada è nostalgia di un mondo che non esiste più nel peggiore dei casi, nel migliore una fantasia esotica di terra arancione, piedi scalzi e cieli azzurri.


 

Eppure c’è una ragione per cui si parla così spesso si parla dell’influenza del calcio di strada sul calcio brasiliano, se quando guardiamo giocare Neymar pensiamo a campi sconnessi e palloni sbertucciati, e quella ragione è che in Brasile il calcio di strada esiste ancora, non come pensiero platonico di qualcuno che scende per strada e si mette a palleggiare, ma come qualcosa di concreto, di tangibile, sotto forma di gioco, ovviamente, e anche di cultura. Lo chiamano varzea, e già solo la parola traccia i limiti della questione.


 

Varzea è un tipo di foresta alluvionale tipica del bacino del Rio delle Amazzoni che, credo per osmosi concettuale, ha donato il suo nome a tutte le zone adiacenti ai fiumi che finiscono spesso per essere oggetto di inondazioni. Nel tempo il termine si è ulteriormente sublimato, passando dalla materialità della foresta all’intangibilità del pensiero, e oggi viene utilizzato anche in maniera più astratta, per indicare un generico spazio vuoto, desolato. È interessante, perché a San Paolo, e quindi di fatto in tutto il Brasile, a calcio si è iniziato a giocare proprio nella varzea, e la ragione, secondo un articolo di alcuni ricercatori brasiliani, è che era uno spazio con un valore immobiliare talmente basso da renderlo immune alla veloce urbanizzazione che rivoluzionò la città nella seconda metà dell’Ottocento. In altre parole, mentre San Paolo assumeva la forma che conosciamo oggi, e lo spazio veniva sottratto alla natura per costruire palazzi, strade e case, la varzea rimaneva intatta e garantiva all’interno della città una porzione di terra improduttiva su cui poter giocare a calcio, anche se, essendo spesso alluvionata, credo fosse adatta a qualsiasi cosa tranne che a giocare a calcio - cioè il calcio standardizzato, con il campo, le linee, le porte, e così via. Non è un caso, dice lo stesso studio, che la nascita dei club professionistici a San Paolo sia stata guidata dallo sviluppo della ferrovia, che collegando punti lontani nello spazio, costringeva l’uomo a bonificare la terra che trovava in mezzo preparando letteralmente il terreno all’urbanizzazione, e quindi anche ai campi per come li conosciamo oggi. La ferrovia portava gli inglesi, che alla sua costruzione ci lavoravano e che il calcio in Brasile ce l’hanno fisicamente portato; permetteva di organizzare tornei tra zone lontane; ma soprattutto preparava lo spazio a una standardizzazione che permetteva di giocare il calcio alla stessa identica maniera anche in posti diversissimi tra loro. Ci sono intere zone di San Paolo nate solo perché ci passava in mezzo una ferrovia, e spesso si può tracciare una linea diretta tra l’inaugurazione della ferrovia e la nascita di un club lì.


 

È difficile capire come da quel momento le due cose abbiano continuato ad andare a braccetto per circa un secolo e mezzo, fatto sta che ancora oggi in Brasile esiste il calcio - il calcio vero e proprio, o istituzionale, come definirlo? - e il calcio varzea. Che cos’è il calcio varzea? Difficile dare una definizione univoca, proprio perché con il termine varzea in Brasile si indicano anche le partite improvvisate, fatte per strada o in piazzetta, o in qualsiasi altro posto che può accogliere una palla. Tra il 2016 e il 2017 Simon Di Principe ha scattato diverse belle foto tra San Paolo, Belo Horizonte e Manaus che vi danno una prima idea visiva. Alcune le trovate su Zeta, dove Giuseppe Masciale ha descritto il calcio varzea come l’insieme dei “tornei amatoriali totalmente disorganizzati, legati a comunità punk delle favelas” (molte altre le trovate sul sito di Di Principe stesso). Qui già troviamo qualcosa di più vicino allo stereotipo che il nostro occhio si aspetta: terra arancione, petti nudi, creste alla moicana, sguardi di gioia e tatuaggi ridicoli.


 

 




 

Qualche tempo fa Raphinha, che ci ha giocato agli inizi della sua carriera, ne ha dato una descrizione più vivida in un articolo su The Player’s Tribune. «È il Far West. Una specie di rete di partite indipendenti e tornei organizzati dalle comunità locali. Il livello non è più basso di quello delle accademie. Qualsiasi giocatore può partecipare, non c’è bisogno di un contratto. Giochi sulla terra battuta. Al caldo cocente. Polvere e sabbia. Qualcuno si porta il pallone da casa. Spesso non c’è la rete, solo i pali. Pettorine? Dimenticatele. Una squadra semplicemente gioca senza maglietta. E i giocatori sono degli emarginati. Giocano di rabbia. Giocano per sopravvivere. Giocano come se la loro vita dipendesse da quelle partite […] Spesso vedi i capi della zona a bordo campo con un’arma in mano. Magari stai per segnare e improvvisamente parte un colpo di pistola».


 

Anche senza vedere con i propri occhi le scene western raccontate da Raphinha si può provare una versione anestetizzata, artificiale della pressione del pubblico del calcio varzea attraverso Instagram che vi permette di saltare a piè pari tutte le sciocchezze retoriche sulla povertà, le leggende, le interpretazioni raffazzonate di un cultura troppo lontana. Io per esempio seguo Ney Silva, “la voce della varzea” come si autodefinisce nella sua bio, che da qualche anno entra letteralmente in campo per mostrare volti, giocate, panorami del calcio varzea, e che ha una storia assurda almeno quanto il contesto che lo circonda.


 

Nato Waldney in quartiere settentrionale di Recife, Ney Silva è stato abbandonato dal padre dopo pochi mesi dalla sua nascita ed è cresciuto con la madre in una povertà tale che per paura di non mangiare si conservava il pane anche per quattro giorni, quando il suo corpo ormai non ne poteva più e il pane era talmente duro da essere praticamente immangiabile. Dopo aver provato a svoltare vendendo CD piratati nel centro città, Ney Silva è stato spinto ancora più vicino alla disperazione dalla nascita di un figlio, chiamato Neymar, a cui è stato diagnosticato prima l’epilessia e poi l’autismo. Alla ricerca dei soldi necessari per le medicine del figlio, Ney Silva chiede aiuto a un amico che ha un campo da calcetto e quest’ultimo cerca di aiutarlo chiedendogli di pubblicizzare un torneo su Facebook. Da lì l’idea di utilizzare i social per aprire una finestra sul calcio varzea - per creare un’immagine, una grammatica definita di qualcosa che per definizione non dovrebbe esserlo. «Tutti vogliono essere dei calciatori professionisti, anche chi gioca nel calcio varzea» ha detto a Globo Ney Silva, che ha iniziato intervistando i giocatori del suo quartiere con microfoni finti perché «tutti vogliono sentirsi importanti». «Ho nuotato contro corrente. Il calcio varzea era un oceano blu in cui nessuno stava nuotando». Oggi Ney Silva ha quasi un milione di follower: sul suo account trovate decine di video da migliaia di like e visualizzazioni, nonché storie con Ronaldo “il fenomeno”, Ronaldinho, Adriano e molte altre leggende del calcio brasiliano.


 

Tra i miei video preferiti, dicevo, ci sono quelli in cui il pubblico è più presente. In generale fa sempre impressione vedere la quantità di persone presente a bordo campo o sugli “spalti” per questo tipo di partite, ma qui stiamo parlando di decine se non centinaia di uomini e donne che entrano letteralmente in campo (o quello che è) per un calcio di rigore. In realtà, più che di rigori, questi video sono la rappresentazione visiva di un incubo, come se avessero chiesto a Darren Aronofsky di metterli in scena. Non è solo il numero di persone - che formano un cono strettissimo intorno alla rincorsa del tiratore fino alla porta, anzi fin dietro la porta, dando l’impressione che ci siano almeno una decina di portieri - o il fatto che queste urlino qualsiasi cosa quasi nelle orecchie di chi sta tirando, e che arrivino praticamente a toccarlo quando questo prende la rincorsa, ma anche la presenza di diversi altri dettagli irreali che rende il tutto straniante, simile davvero a un incubo: in uno ad esempio la folla è tenuta a distanza “di sicurezza” da uno spago sottilissimo, ed è presente un arbitro in perfetta tenuta nera che dopo il suo errore, come se non bastasse la folla che impazzisce e inizia a prenderlo in giro, gli intima con fare serissimo di uscire da quel girone infernale. Il povero tiratore non può concedersi il lusso di avere una reazione: il suo viso è talmente rigido che sembra uscito dal suo stesso corpo, e per allontanarsi dal dischetto è costretto ad entrare nella folla che lo sta umiliando in ogni modo, come se venisse fagocitato da un demone fatto di mille facce.


 



Nei video di Ney Silva non si vedono i fenomeni raccontati dalle leggende metropolitane sul calcio amatoriale, ma esattamente le persone che ci aspettiamo: persone spesso sovrappeso, a cui non va di correre, a volte con tocchi palla nemmeno così dolci, alle prese con campi che semplicemente non potrebbero essere definiti campi. Non è un caso che un grosso filone dei suoi video è quello sulle persone che inciampano, o che sbagliano gol impossibili da sbagliare, o che comunque fanno qualcosa di ridicolo e quindi memabile. In uno, ad esempio, si vede un gruppo di persone giocare in una specie di buco pieno di sabbia marrone (intorno sempre una quantità di persone che farebbe invidia a una partita di metà classifica di Serie B) con un pallone minuscolo dello stesso identico colore del terreno - incredibilmente ci sono delle linee segnate sul terreno. Uno dei giocatori controlla a fatica un pallone spalle alla porta alzando un piccolo campanile e attirando un avversario alle spalle, ma quando il pallone ricade si gira di scatto su se stesso per riportare il pallone in avanti. L’avversario ci casca, letteralmente: va a vuoto sull’intervento e appoggiando il piede su una specie di calcinaccio va rovinosamente a terra. Solo in quel momento ci accorgiamo che sta giocando con quei sandali di gomma che si usano per andare sugli scogli.


 

I “campi”, ormai l’avrete capito, per me sono la principale attrattiva di questi video. Ci sono rigori tirati (e segnati questa volta) in un campo fatto solo di acqua e melma (intorno la solita folla tenuta con lo spago), interventi vigorosi dentro a quello che sembra un quadro di Escher (è una prigione? Un complesso industriale?), punizioni impossibili seguite da parate altrettanto impossibili in mezzo a un buio irreale, come se il campo fosse l’unica cosa illuminata nel raggio di chilometri, e punizioni sotto al sette su spiazzi polverosi al centro di una foresta - sembra che l'abbiano appena disboscata solo per giocarci.


 

Aprendo una finestra sul calcio varzea, Ney Silva è diventato talmente popolare da ideare e commercializzare format propri. Uno di questi è il futmesa, quella specie di ibrido tra il calcio-tennis e il ping-pong giocato su un tavolo bombato con una rete rigida. Potete trovare diversi video di tornei di questo sport giocati dentro palazzetti gremiti mentre lui fa la telecronaca in diretta, ma i più divertenti, ancora una volta, sono quelli in cui il futmesa viene contaminato da un oggetto o un ambiente che non è pensato per quello scopo. In uno, ad esempio, due coppie si sfidano usando come piano di gioco uno di quei piccoli tavolini rossi di plastica da bar. Siamo in mezzo a quello che sembra un campo da calcetto, alle spalle degli strani edifici, come se il campo fosse costruito dentro un condominio, e la solita folla. All’interno della desolazione post-industriale il livello tecnico è altissimo e la palla danza come una libellula tra le teste e i petti delle due coppie. Quando alla fine uno dei quattro giocatori ha l’idea di smorzare la palla con la testa sullo spigolo più lontano del tavolino, la folla alle loro spalle esplode, come se avesse appena ricevuto la notizia che la guerra è finita.



Il format che ha fatto davvero svoltare Ney Silva è però l’uno contro uno, di cui nella sua bio di Instagram si definisce un “pioniere”. Il funzionamento è semplice e intuitivo, soprattutto per chi, come scommetto molti di voi, ci avrà già giocato: in un campo da calcetto si sfidano due soli giocatori in uno contro uno, con le porte però difese da un portiere (c’è anche la versione a mezzo campo, con un solo portiere, e il due contro due). Ney Silva ha avuto la furbizia di applicarci l’estetica degli sport da combattimento, che calza alla perfezione sugli uno contro, con tanto di cinture, poster promozionali da mitomani e quant’altro. I campi, poi, che ve lo dico a fare: guardatevi questa traversa colpita in un due contro due e ditemi se non vi sembra di stare in uno scenario post-apocalittico di Tekken.


 

Questo, utilizzato per l’uno contro uno tra Livinho e Dada Boladão, sembra davvero costruito dentro il cortile di una prigione, con gli spettatori che si affacciano su dei balconi interni fatti di cemento e reti metalliche. Nel pezzo del Globo che parla di Ney Silva si legge che “fuori dal campo le persone tirano fuori i soldi dalle proprie tasche per scommettere su un giocatore”. Quando qualcuno segna, entrano due o tre uomini con il cellulare in mano a fare il primo piano. Oltre alla folla che assiste, le dirette su Instagram sono seguite a casa dalle 30mila alle 90mila persone. Il format ha avuto un successo tale che adesso Ney Silva adesso può permettersi di dare consistenti premi in denaro a chi vince le finali. Secondo un articolo, non so di quale affidabilità, la pratica aspirerebbe addirittura a diventare una disciplina olimpica.


 

Non so se è vero, ma devo ammettere che mi dispiacerebbe. Già vedere l’erba sintetica con i pallini neri simile a quello del mio campo da calciotto, la telecronaca, le magliette sintetiche ufficiali mi sembra un oltraggio all’autenticità del calcio varzea, nato in un campo che non era un campo e diventato uno sport che non è uno sport. Cosa succederebbe se andasse incontro all’inevitabile standardizzazione che richiede lo sport istituzionale? In questa nostalgia di una realtà che non ho mai vissuto, mi rifugio nei video più grotteschi.


 



In questo qui sopra è lo stesso Ney Silva a giocare in un cortile di cemento piccolissimo chiamato Arena Colombia, evidentemente per i  muretti bassi dipinti del giallo, del blu e del rosso della bandiera colombiana. I piedi scalzi, gli alberi tropicali che si vedono sullo sfondo, i murales delle scimmie sono un balsamo per il voyeurismo del mio occhio occidentale e borghese. Il giallo delle mattonelle di ceramica che ricoprono i piccoli muretti bassi, poi, mi ricorda quelle del pavimento del vecchio salone dei miei, dove con uno dei miei migliori amici chissà quanti anni fa mettevamo due sedie a fare da porte, e giocavamo in uno contro uno con una piccola palletta della Nike grigia e nera, da cui periodicamente si staccavano dei pezzi cuoio (o più probabilmente plastica).


 

Giocavamo quasi solo di suola, con l’unico intento di farcela passare tra le gambe, e quando venivamo superati cercavamo

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