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Gianni Montieri
Cosa resterà di Kalidou Koulibaly
18 lug 2022
18 lug 2022
Lettera malinconica al difensore senegalese appena comprato dal Chelsea.
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Gianni Montieri
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Cosa resta, quali tracce lascia, quali (e quanti) residui di quello che è stato il suo attraversamento rimangono, di una persona cara, di un affetto andato, perduto, non importa se morto oppure no? E per un calciatore amato, un campione, cosa resta? E vale anche per lui il discorso malinconico, l’ancora alla quale ci appoggiamo, per dirci che l’importante è quello che è stato, che è stato consumato sul campo per noi, e quello che verrà, a distanza dalle nostre aree di rigore, è secondario, avrà valore sportivo (certo), magari un maggior valore sportivo (si capisce, può essere), ma non avrà mai il valore primario - quello che ci incatena e fa sì che ci leghiamo a un calciatore sì e a un altro no – il valore sentimentale. Una sentenza, una condanna. Perciò, cosa resta?


 

I ricordi, si capisce, i gesti compiuti, le azioni, il tempo impiegato per andare da una stanza all’altra, dal cervello al cuore. Il modo di portarci fuori pericolo e di trascinarci in una zona di comfort, di stabilità, un regno dentro il quale domina il verde, in cui si possano appoggiare i piedi – tutti quanti i piedi – sulla zolla giusta. La speranza di un gol, di un assist, se si tratta di un centrocampista, di un attaccante, l’attesa per quell’istante e poi la nuova attesa, il tempo sospeso, la sosta a occhi spalancati in cui si aspetta che quell’attimo torni. L’appassionato, il tifoso, aspetta soltanto che la cosa si ripeta, uguale o diversa, o leggermente diversa, possibilmente bella, possibilmente meravigliosa. E cosa resta se il calciatore amato è un difensore, un fortissimo difensore, un fenomeno di difensore, potente ed elegante allo stesso tempo?


 

Restano altrettanti istanti, frame, fotogrammi, sensazioni che hanno comunque a che fare con il gol, ma con la sua negazione. Amiamo l’attaccante che si beve i difensori avversari, amiamo il difensore che in maniera pulita, elegante, si prende gioco del centravanti della squadra rivale, togliendogli spazio, respiro, possibilità e pallone, fino a lasciarlo là da solo, magari al limite dell’area, o meglio ancora all’altezza del dischetto di rigore, senza palla, senza futuro, privo di quel bagliore, quel desiderio chiamato gol che aveva progettato, immaginato. Cosa resta in questi giorni di luglio troppo caldi, troppo fermi - adatti a un bagno ma non a un addio - di un difensore come Kalidou Koulibaly, forse – insieme a Krol – il più forte difensore che il Napoli abbia mai avuto?


 

Vittorio Sereni scrive «Solo, di me, distante / dura un lamento di treni, / d’anime che se ne vanno», sono versi d’amore, molto belli che precedono la chiusa di una poesia molto famosa: In me il tuo ricordo, ma come sappiamo i versi non appartengono più a chi li ha scritti ma a chi viene dopo, perciò noi qui oggi possiamo usarli, ergendo il nostro monumento malinconico a Koulibaly, in fondo sempre d’amore si tratta, o no? Sì, altrimenti smetteremmo subito di guardare le partite, il pallone senza sentimento non è pallone, è un’altra cosa che ci interessa meno, che ci avrebbe già stufati. La città e la sua gente si fa distante, perché chi sarebbe stato il capitano s’allontana, e il lamento di treni è il rombo di un aereo sulla pista, il suo atterraggio in uno degli aeroporti londinesi, le anime che se ne vanno, sono quella di Kalidou e le nostre, immortalate per sempre in quel blu della maglia del Chelsea che non è l’azzurro del Napoli, ma che cromaticamente non è poi così lontano, fissate in un verso di Sereni, nella prima foto ufficiale del nostro fenomeno con un’altra maglia, mentre indossa un’altra vita, le mani nelle tasche di un bermuda (!?) bianco. «Te ne vai sul vento / ti perdi nella sera», continua e chiude Sereni e la sera non è altro che il nostro campionato a venire, minore, di nuovo minore. Noi di nuovo chini a coltivare un’assenza, a sperare in un nuovo centrale che arrivi da chissà dove a controllare lo spazio davanti al nostro portiere, a salvarci la pelle.


 



La prima cosa che resterà di Koulibaly, la più importante, è l’entrata in scivolata – in anticipo o sulla corsa dell’attaccante. La discesa a terra del corpo del difensore che compie un guizzo al contrario, un salto verso il basso e - allungandosi verso il terreno di gioco – toglie il pallone dai piedi dell’avversario, fermandogli il sogno, sprangando l’orizzonte; e da lì riparte, rialzandosi con leggerezza, con l’agilità del gatto, testa alta e pronto all’impostazione. L’entrata in scivolata di Koulibaly vale il diritto di Federer, il dribbling di Messi, l’uscita palla al piede dall’area di Franco Baresi. Qualche volta mi è capitato di dire (o di scrivere) che la scivolata di Koulibaly la si sarebbe dovuta applicare al campionato e alla vita in generale.


 

Ma c’è qualcosa di più: la finta in scivolata. La avete presente? Andare giù, l’avversario viene giù con te, tu fingi di toccare il pallone (sei già a terra), l’altro va a vuoto e tu a quel punto completi l’intervento, toccando il pallone e rialzandoti, tra l’incredulità e lo stupore generale. Oppure la doppia scivolata, una prima entrata stoppa il pallone togliendolo al primo avversario, la successiva (già da terra) lo sottrae al secondo e siamo nell’area piccola, a due metri dalla porta. E poi l’accelerazione, la spinta prima della corsa che gli fa guadagnare cinque metri su qualunque avversario in poche frazioni di secondo. Questa è una cosa che resterà. Già da tempo, qualche amico, a una battuta particolarmente riuscita abbina il commento: “Si trasute pulito, comme fa Koulibaly”, i lettori dell’Ultimo Uomo ricorderanno che tali consuetudini a Napoli sono state concesse in passato solo a Maradona. E cos’altro resterà?


 

I pochi falli, la correttezza, il senso della posizione, la sicurezza trasmessa ai compagni di squadra, il rispetto per gli avversari, gli anticipi di testa, l’uscita palla al piede dall’area di rigore, i lanci molto precisi a innescare l’azione d’attacco, la grinta e la serietà, il non esaltarsi troppo per l’intervento riuscito, il non affliggersi per l’errore, l’autogol contro la Juve, il colpo di testa contro la Juve. Quel gol su angolo di Callejón che illuse il pianeta e migliorò – per qualche giorno – le nostre vite. Quello stacco che metteva tanto spazio tra i piedi e il terreno di gioco, quell’anticipo che lo fece sostare di parecchio sopra le teste dei calciatori bianconeri, l’impatto col pallone di tale forza che la velocità sembrava impressa da un calcio, lo stupore imparabile dipinto sul volto di Buffon. Ecco, altre cose che resteranno di Kalidou, sono tante e più di quelle che mancheranno, fanno parte della sfera malinconica, della nostra intimità di tifosi del Napoli e di appassionati del gioco, di chi conosce le regole e le supera, le adatta al fisico, al tempo, allo spazio.


 

Mark Haber nel suo romanzo molto bello, Il giardino di Reinhart (Keller, 2022, traduzione di Gabriella Tonoli) racconta la malinconia, come utopia da raggiungere, come l’unico vero sentimento che valga la pena di incontrare, a un certo punto scrive: «[...] malgrado la geografia, nella teoria, abbia poco a che fare con la malinconia, nella pratica la geografia ha tutto a che fare con la malinconia». E se questo assunto è vero, a Napoli si concretizza il vertice, il punto massimo di incrocio tra malinconia e geografia, la prima trova casa nel luogo, e il luogo forse nemmeno esisterebbe senza quel sentimento, che non è mai tristezza e non è nostalgia, ma solo uno strato emotivo cucito sul cuore, che fa accettare le cose, i cambiamenti, scuotendo la testa, magari camminando sul lungomare, rimpiangendo non quello che non potrà mai più essere, ma quello che è stato.


 

La malinconia è il vestito di Napoli e dei tifosi azzurri, è lo sguardo di Koulibaly che saluta e ringrazia commosso, e secondo me è sincero, anche se ci sono in ballo le sterline e la carriera. Napoli e Koulibaly si sono capiti e si sono scambiati la pelle, in città sono nati i figli del difensore, perciò malinconici per nascita. Nel Napoli, Kalidou è diventato uno dei difensori più forti del mondo, ricordiamolo che, quando Benitez andò a pescarlo in Belgio, non sapevamo chi fosse, ora con la stessa malinconia aspettiamo il prossimo sconosciuto sperando che si avvicini al nostro numero 26, senegalese, francese e napoletano.


 

In casa devo avere una maglietta con su stampato il gol di Koulibaly alla Juve, non l’ho mai usata. Qualche giorno fa a Olbia, un uomo parcheggiava un camper, ho riconosciuto l’accento napoletano e mi sono voltato. Non era bello a vedersi, ma era decisamente pittoresco: baffoni, canottiera bianca, collana d’oro grossa. Sul cruscotto aveva due sciarpe del Napoli, su una c’era la scritta Figli del Vesuvio, sull’altra Koulibaly 26, ho sorriso e ho continuato a camminare, ma una parte di me avrebbe voluto fermarsi e domandare qualcosa. Avrei voluto chiedere a quel tizio apparentemente così distante da me, e dalla mia camicia di lino blu, se avvertisse la mia stessa malinconia, se sentisse da qualche parte una specie di buco, un vuoto improvviso impossibile da capire, da riempire. Ma poi forse è stato meglio così, la malinconia – anche quando è geografica, collettiva – è un fatto individuale, ognuno sente la sua, ognuno troverà il modo – tifando Chelsea o meno – di andare avanti, di affezionarsi a un altro calciatore.


 

Ho chiesto ad alcuni amici quale fosse la parola che abbinerebbero a Koulibaly, hanno risposto: Rispetto; Sicurezza; Amore; Potenza; Classe. Uno mi ha detto di essere troppo arrabbiato in questo momento. Un altro mi ha domandato, e tu? Ho risposto Bellezza, ma ho pensato Malinconia.


 

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