Cosa resta di questa Coppa d’Africa
Cosa abbiamo imparato dall’inaspettata vittoria del Camerun.
Il paternalismo degli Europei
di Andrea Bracco
Nel gennaio del 2013 Stephen Keshi, appena insediatosi sulla panchina della Nigeria, sconvolse il continente con alcune dichiarazioni: «Uno dei problemi più grandi del calcio africano sono i commissari tecnici europei. Vengono qui solo per soldi e spesso nemmeno vivono nel paese in cui lavorano. Ma qui non siamo in Europa: non esistono soldi facili».
Quattro anni dopo, in Gabon, le parole di Keshi (tragicamente scomparso nel giugno scorso) risultano ancora attuali. Poche ore dopo il successo del Camerun ci si ritrova a fare i conti con la realtà di una Coppa d’Africa che ci lascia ben poco. L’impressione complessiva è di un torneo fine a sé stesso, molto – forse troppo – “europeizzato” da tecnici che hanno importato tanta tattica scadente in un calcio che vive invece di tutt’altro.
L’Algeria è stata senza dubbio la più brutta delusione di questa Coppa d’Africa. Nella guida introduttiva l’avevamo definita “Il Belgio d’Africa”, e ce lo ha confermato in negativo.
Ciò che distingue lo stile del calcio africano per originalità, ovvero una certa anarchia nel modo di stare in campo, è anche ciò che, storicamente, ne ha segnato il maggiore limite. Un’anarchia che le squadre hanno esportato anche nelle varie edizioni dei Mondiali, sin dagli anni ‘90.
Quando Keshi sparò a zero sui colleghi europei si riferiva all’importanza di sposare la causa dell’Africa entrandoci in simbiosi senza paternalismo. Un concetto confermato anche da Claude Le Roy, africano d’adozione: «I giocatori locali non hanno bisogno di ricevere ordini. Loro sanno ciò che devono fare e bisogna lavorare sui loro pregi».
Hugo Broos ed Héctor Cúper, che domenica sera si sono giocati il titolo, sono due esempi di come nell’immediato si possano ottenere buoni traguardi, facendo di necessità virtù e adottando la sempre attuale filosofia del “primo, non prenderle”. Il calcio africano però non è evoluto come quello europeo, e avrebbe bisogno di tecnici “programmatori”.
Un paio di esempi sull’attualità delle parole di Keshi: George Leekens e Michel Dussuyer. Il primo, tecnico dell’Algeria, aveva in mano una delle migliori rose della competizione, ma in tre partite i solisti sono rimasti completamente slegati dal contesto di squadra e il fallimento è stato il più roboante. Dussuyer doveva invece facilitare il ricambio generazionale della Costa d’Avorio, ma la squadra si è dovuta affidare, ancora una volta, all’eterno Kalou. Non aiutano forse alla coltivazione di un senso dell’identità neanche i tanti giocatori nati all’estero, che spesso scelgono la Nazionale d’origine come ripiego in cui cercare una vetrina internazionale.
Il calcio africano, insomma, nel tentativo di somigliare di più a quello Europeo sembra anche aver smarrito le qualità che in qualche modo lo rendevano speciale. Il futuro, purtroppo, non appare roseo.