Hugo Broos a fari spenti
Stefano Borghi
Hugo Broos , al primo impatto, ti mette diffidenza. Sembra uno che sta per fregarti, con quel ghigno beffardo da mercante mitteleuropeo e quel nome che pare il tarocco di un grande marchio. Hugo Broos è invece un grandioso ex difensore del calcio belga, uno che ha fatto una semifinale mondiale e ha giocato centinaia di partite per Anderlecht e Bruges, vincendo tantissimo. Prima in campo, poi in panchina. E pare che l’impressione sia proprio quella giusta.
La sua figura è un paradossale monumento alla coerenza tramite la dissimulazione, e il suo successo un'altra testimonianza di come le imprese più impreviste, in questo momento storico del calcio, arrivino non inventando cose nuove, ma tornando alla base. La sua idea è di mettersi nel solco di squadre, come il Leicester di Ranieri, che si sono messe la tuta operaia, vincendo con un ritorno alle basi del gioco e scardinando, pian piano ma con costanza e convinzione, l'apparente (molto apparente se parliamo di questa CAN) nouvelle vague.
Quando Broos è arrivato in Camerun, peraltro compilando una application form sul sito internet della Federazione e venendo considerato il miglior candidato, ha preso una Nazionale dal passato glorioso ma dal presente tellurico. Innanzitutto a causa delle profonde faide all’interno del movimento federale, sfociate poi nella decisione, da parte delle stelle più celebrate, di rimanere nel comfort dei rispettivi club europei piuttosto che mettersi in gioco per il proprio Paese. Il commento più diffuso nei “bar sport” di Douala era: «ma chi è questo e cosa ne sa del calcio africano?».
Bei problemi, non per lui. Primo perché il calcio africano lo conosceva bene: lo dimostra il fatto che in sedici partite ufficiali giocate abbia perso solo una volta, un'amichevole pre-Europeo contro la Francia. Nessuna squadra africana è stata in grado di batterlo. Secondo, perché ha capito che per vincere in questa parte del mondo non gli servivano per forza delle stelle, ma un gruppo: le stelle in Africa sono il sogno, ma la storia africana è una storia di sopravvivenza. Ed è l'unità, la convinzione, il saper trasformare la disperazione in forza quello che ti fa sopravvivere. Non il lusso.
Lo ha capito talmente bene che ha deciso di lasciare da parte – inizialmente - anche gli unici “big” che hanno risposto alla sua convocazione: N'Kolou e Aboubakar, riserve stabili di una formazione che, nella sua semplicità, ha saputo inventarsi e reinventarsi partita dopo partita attorno a figure totalmente inattese. Fino alla finale.
Ci ha fregato Hugo Broos facendoci intendere che il suo progetto per questo Camerun era quello di un gruppo di basso profilo, sostenuto da un portiere senza presenze nel calcio di club, da mestieranti provenienti dai confini più sperduti del calcio europeo, al massimo da un folletto di ventuno anni, Christian Bassogog, che dall’Africa è partito e in Africa è tornato per esplodere, dopo essere passato da una squadra universitaria del North Carolina e dal gelo della Danimarca: è stato giustamente eletto miglior giocatore della competizione, perché è stato l’unica nota veramente fresca e illuminante in una squadra votata al pragmatismo e in generale in un’edizione che, dal punto di vista strettamente calcistico, ha lasciato un’impressione di materiale riciclato.
Poi però, per rendere la sua opera una vera costellazione, Broos ha dovuto piazzarci due stelle vere. È stato lui o forse è stato il destino, perché se una finale te la risolvono i due grandi esclusi, peraltro entrati dalla panchina uno per necessità (N’Koulou) e uno per disperazione (Aboubakar), si coglie inevitabilmente un senso di predestinazione.
Del destino, però, potete parlare solo al grande sconfitto. A Broos al massimo potete parlare di “cose giuste al momento giusto”: è arrivato per guidare i “Leoni Ingestibili” e li ha resi di nuovo “Indomabili” dopo quindici anni di attesa, lasciando sempre la sensazione di stare sul punto di essere smascherato ma trovando costantemente una sorpresa nuova. Hugo Broos ci ha fregato e ha fregato tutta l’Africa. Ha fatto la Storia, la solita storia da quelle parti. Ed è stato bravo.
La delusione egiziana
di Gabriele Anello
Parafrasando un famoso passo di Per un pugno di dollari: «Quando una striscia positiva incontra una maledizione targata Héctor Cúper, quella striscia sta per morire». Nonostante la cabala non possa sconfiggere le statistiche, in Africa è sempre tremendamente di moda, specie nel contesto di un ultimo atto. L'Hombre Vertical non ce l'ha fatta: ha perso la sua sesta finale, la prima da ct di una Nazionale, ma soprattutto ha intaccato la striscia da 24 partite senza sconfitte nella fase finale della Coppa d'Africa, che proseguiva dal gennaio 2004.
Dopo le tre mancate qualificazioni (2012, 2013 e 2015), era importante che l'Egitto potesse dare un segnale di vita, superando il girone e magari puntando a qualcosa in più strada facendo. È sembrato chiaro fin da subito che l'Egitto tri-campione tra 2006 e 2010 - quello guidato da Hassan Shehata - fosse una squadra più debole, ma di gran lunga più divertente rispetto a quella attuale. L'obiettivo dei “Faraoni” non è mai stato quello di divertire in questa edizione: il profilo di solidità e ripartenze proposto da Cúper è stato anzi più che mai funzionale in una Coppa d'Africa dal tasso qualitativo molto basso.
Una scelta ripetuta anche in finale, specie contro un Camerun apparso attivo, ma confusionario nella prima frazione. Dopo il vantaggio firmato Elneny e l'intervallo, l’impressione generale era che l’Egitto avesse la situazione in pugno, e un 2-0 avrebbe chiuso qualunque contesa. Ma l’atteggiamento estremamente difensivo, opposto alle forti motivazioni (e un paio di cambi azzeccati) hanno finito per regalare l'AFCON al Camerun. Tuttavia, si può dire che l'Egitto abbia perso questa partita senza bisogno di aiuti: zero tiri in porta dopo il gol dell'1-0, squadra poco veloce nel ripartire e spesso colta di sorpresa - soprattutto atleticamente - dalle transizioni avversarie. Il solo cambio di Sohbi non ha potuto cambiare questa situazione.
Salah ha contribuito a tutti e cinque i gol dell'Egitto in questa Coppa d'Africa (compreso quello in finale), ma ci sarà un motivo se alla fine il premio di MVP è andato a Christian Bassogog.
Al di là della delusione (ovviamente cocente), l'Egitto può contare comunque su un futuro luminoso, fatto di una qualificazione al Mondiale 2018 più che possibile. Cúper si è difeso prima della finale, rispondendo alle critiche per un gioco considerato difensivo: «Non posso soddisfare 90 milioni di tifosi: la responsabilità delle scelte, alla fine, ricade su di me». E in fondo ha ragione: El-Hadary rimane uno degli MVP della competizione (ha vinto il premio di miglior portiere), l'Egitto ha incassato tre reti in sei gare, l'età-media dei giocatori più forti è abbastanza bassa (dai 25 di Hegazy ai 19 di Sobhi). Soprattutto la nazionale ha di nuovo un futuro, confermato dall'esito della AFCON 2017. Per molti con Cúper. Per altri, nonostante l'argentino.
Il paternalismo degli Europei
di Andrea Bracco
Nel gennaio del 2013 Stephen Keshi, appena insediatosi sulla panchina della Nigeria, sconvolse il continente con alcune dichiarazioni: «Uno dei problemi più grandi del calcio africano sono i commissari tecnici europei. Vengono qui solo per soldi e spesso nemmeno vivono nel paese in cui lavorano. Ma qui non siamo in Europa: non esistono soldi facili».
Quattro anni dopo, in Gabon, le parole di Keshi (tragicamente scomparso nel giugno scorso) risultano ancora attuali. Poche ore dopo il successo del Camerun ci si ritrova a fare i conti con la realtà di una Coppa d’Africa che ci lascia ben poco. L’impressione complessiva è di un torneo fine a sé stesso, molto - forse troppo - “europeizzato” da tecnici che hanno importato tanta tattica scadente in un calcio che vive invece di tutt’altro.
L’Algeria è stata senza dubbio la più brutta delusione di questa Coppa d’Africa. Nella guida introduttiva l’avevamo definita “Il Belgio d’Africa”, e ce lo ha confermato in negativo.
Ciò che distingue lo stile del calcio africano per originalità, ovvero una certa anarchia nel modo di stare in campo, è anche ciò che, storicamente, ne ha segnato il maggiore limite. Un’anarchia che le squadre hanno esportato anche nelle varie edizioni dei Mondiali, sin dagli anni ‘90.
Quando Keshi sparò a zero sui colleghi europei si riferiva all’importanza di sposare la causa dell’Africa entrandoci in simbiosi senza paternalismo. Un concetto confermato anche da Claude Le Roy, africano d’adozione: «I giocatori locali non hanno bisogno di ricevere ordini. Loro sanno ciò che devono fare e bisogna lavorare sui loro pregi».
Hugo Broos ed Héctor Cúper, che domenica sera si sono giocati il titolo, sono due esempi di come nell’immediato si possano ottenere buoni traguardi, facendo di necessità virtù e adottando la sempre attuale filosofia del “primo, non prenderle”. Il calcio africano però non è evoluto come quello europeo, e avrebbe bisogno di tecnici “programmatori”.
Un paio di esempi sull’attualità delle parole di Keshi: George Leekens e Michel Dussuyer. Il primo, tecnico dell’Algeria, aveva in mano una delle migliori rose della competizione, ma in tre partite i solisti sono rimasti completamente slegati dal contesto di squadra e il fallimento è stato il più roboante. Dussuyer doveva invece facilitare il ricambio generazionale della Costa d’Avorio, ma la squadra si è dovuta affidare, ancora una volta, all’eterno Kalou. Non aiutano forse alla coltivazione di un senso dell’identità neanche i tanti giocatori nati all’estero, che spesso scelgono la Nazionale d’origine come ripiego in cui cercare una vetrina internazionale.
Il calcio africano, insomma, nel tentativo di somigliare di più a quello Europeo sembra anche aver smarrito le qualità che in qualche modo lo rendevano speciale. Il futuro, purtroppo, non appare roseo.
Eccezioni virtuose
Giulio Di Cienzo
Florent Ibengé e Aliou Cissé, allenatori rispettivamente della Repubblica Democratica del Congo e del Senegal, sono gli unici due autoctoni ad essere riusciti a portare le loro squadre oltre i gironi della Coppa d’Africa, suscitando peraltro anche legittime speranze di vittoria.
Un lavoro non banale quello dei due ct, soprattutto in un calcio che ha una marcata tendenza ad affidarsi a santoni stranieri per portare ordine e idee diverse, come se l’anima africana delle squadre andasse in qualche modo “domata” da qualcuno di esterno.
Ibengé e Cissé invece sono stati capaci di costruire le loro squadre proprio sulle caratteristiche che differenziano e caratterizzano i giocatori locali, e probabilmente non è un caso che siano nati nelle nazioni di cui allenano la selezione.
In Coppa d’Africa infatti non è mai facile far scendere a patti le diverse anime che vanno a comporre le squadre e conoscere nazione, lingua, dinamiche, modi di fare, approccio e spiritualità dei giocatori può essere un vantaggio. Poi serve intelligenza calcistica, ed è qui che Florent e Aliou hanno fatto la differenza.
Cissé sembra essere l’uomo destinato a far rinascere il Senegal, nazionale di talento che però fatica a trovare risultati da circa un decennio. L’attuale allenatore infatti è un ex centrocampista con 35 presenze con la maglia dei Leoni: nel 2002 ha giocato l’ultima finale disputata dal Senegal, persa ai rigori, e i Mondiali in Corea e Giappone. In carica dal 2015, in realtà respira l’aria della Nazionale dal 2012, quando ha iniziato a fare l’assistente in Under 23 poco dopo aver smesso di giocare. Ci troviamo di fronte quindi a un uomo che ha una conoscenza profonda del Senegal calcistico, anche parlando di giocatori futuribili, esperienza ad alti livelli avendo giocato in Ligue 1 e Premier per vent’anni, credibilità e carisma sui suoi connazionali.
In questa Coppa ha avuto un innegabile vantaggio rispetto al collega della RDC: poter contare su una rosa di alto livello, con talento diffuso in tutti i reparti. Un lusso ad ogni latitudine, ancora di più dovendo competere a livello africano.
Cissé ha dato un’impronta tattica chiara, assecondando lo spirito offensivo dei suoi giocatori, con attenzione particolare ai due migliori, Keita e Mané. Il Senegal è stato tra i migliori attacchi dei gironi con 6 gol segnati, mostrando transizioni offensive letali grazie all’uso delle fasce laterali. Il talento, anche fisico, e la capacità di correre sono stati i principali ingredienti dell’idea di calcio del Senegal, in pieno stile africano.
Più importante però è stato il lavoro di creazione del gruppo. Cissé ha sposato tecniche motivazionali tradizionali europee con modi di fare legati allo spirito locale. La conoscenza dei due mondi gli ha permesso di entrare nella mente dei suoi, ottenendo risposte sul campo.
Ibengé ha un curriculum molto diverso. Classe ’61 senza esperienze da calciatore, ha iniziato ad allenare la Repubblica Democratica del Congo nel 2014 partendo sostanzialmente dal nulla. Prima ha lavorato da allenatore nelle serie minori francesi finché Anelka, un suo amico che nell’occasione ha dimostrato un certo occhio per il talento, non lo ha chiamato a fargli da assistente nella sua esperienza da player-manager a Shanghai. Da quel momento in pochissimi anni Ibengé ha dimostrato una certa solidità: nel 2015 FourFourTwo lo ha inserito nella lista dei 50 migliori allenatori del mondo.
Il Congo è stata senz’altro una delle squadre più divertenti della competizione. Qui quando ha piallato il Togo di Adebayor.
Il suo impatto con la RDC è stato immediato col terzo posto nella CAF 2015, ma soprattutto dopo i quarti raggiunti sembra aver gettato basi importanti e durature. La squadra di Ibengé colpisce per corsa, sicurezza nei propri mezzi e idee verticali. I giocatori puntano ad attaccare gli spazi a grandi velocità, sia sugli esterni che tagliando verso il centro, cercando con insistenza la verticalità e la porta. Idee semplici, ma tremendamente efficaci. Non a caso hanno segnato 6 gol nella fase a gironi, migliore attacco come il Senegal, e Junior Kabananga è il miglior marcatore della Coppa con 3 reti.
Cissé e Ibengé possono indicare una strada importante per lo sviluppo del calcio africano.
Uniscono esperienza europea a mentalità e radici africane, un aspetto che gli permette di entrare in contatto empatico coi giocatori locali e contemporaneamente trovare soluzioni tattiche adatte a valorizzare i tratti dominanti degli atleti africani, senza ingabbiarli né snaturarli.
Nella CAF 2017 solo quattro squadre si sono presentate al torneo con allenatori del posto: Senegal, RDC, Zimbabwe e Guinea Bissau. Magari grazie all’esempio di Cissé e Ibengé in futuro sarà diverso.