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Cosa può cambiare l'incontro tra Ngannou e Tyson Fury
26 ott 2023
26 ott 2023
Come siamo arrivati a vedere il miglior peso massimo contro un fighter di MMA?
(copertina)
IMAGO / Avalon.red
(copertina) IMAGO / Avalon.red
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Negli ultimi anni, il mondo del fighting e degli sport da combattimento si è adattato ad un trend che porta visibilità, un giro economico mastodontico e, tra i molti puristi indignati, anche scandalo. Un po’ come i calciatori attratti dal modello arabo (cioè da un’offerta economica fuori scala che annulla qualsiasi loro interesse in un progetto sportivo), i combattenti di MMA sono sempre più favorevoli a confrontarsi sui ring di pugilato contro veri e propri pugili con il chiaro obiettivo di aumentare la propria popolarità e incassare delle borse che nel mondo delle MMA vedono praticamente in venti o più incontri.

Si è partiti al contrario, in realtà, almeno dal punto di vista storico: la prima volta (anche se a regole miste) rimane quella tra Antonio Inoki, leggendario wrestler nipponico, e l’iconico Muhammad Alì. Era il 26 giugno 1976 e alla Nippon Budokan Arena di Tokyo due delle figure sportive più mitiche del loro tempo si affrontarono concludendo la loro sfida in pareggio, con Alì che rischiò la cancrena ad una gamba a causa dei dropkick gentilmente offertigli dal gigantesco Inoki, soprannominato “Pellicano” da Ali a causa del prognatismo.

Inoki era conosciuto, oltre che come personaggio popolare, anche per aver sperimentato alla ricerca di una forma di wrestling che fosse la più “vera” ed estrema possibile, non c’è da stupirsi allora se ha trasformato quello che doveva essere un match d’esibizione, con una sceneggiatura precisa, in un odioso gioco al massacro, nel quale andando appunto fuori copione decise di combattere schiena a terra e tartassare le gambe di Alì con i calci, evitando di subire qualsiasi colpo pericoloso. Una bizzarria, se volete, che mostra bene quanta possa essere la distanza tra i due mondi.

Brevissima storia dei pugili che si sono azzardati a combattere nelle MMA

Più di recente i pugili che hanno approcciato le MMA sono stati parecchi, ma nella maggior parte dei casi quando lo hanno fatto con delle regole miste, in un ring o in un ottagono, hanno avuto la peggio.

Art Jimmerson è ricordato come il primo pugile puro ad aver combattuto con le regole delle MMA, ingolosito da una buona offerta per l’epoca da parte degli organizzatori del primissimo UFC (tra i quali figurava lo sfavillante Rorion Gracie). Jimmerson si presentò con un guantone sì e uno no, con una mano lasciata libera, si diceva, per controllare eventualmente quelli che successivamente sarebbero stati conosciuti come “grappler” - molto più verosimilmente la mano senza guantone serviva per segnalare un’eventuale resa all’arbitro John McCarthy, qualora il suo avversario, il piccolo brasiliano Royce Gracie, ultimo discendente della famiglia che ha inventato in America il Brazilian Jiu Jitsu, l’avesse messo in una posizione dalla quale sarebbe sembrato impossibile uscire.

Jimmerson voleva solo accumulare qualche spicciolo in attesa di essere richiamato per combattere qualche match che l’avrebbe rispedito nel contesto titolato nella boxe, ma quell’esperienza nella nuova arte marziale non andò bene: si arrese ad una non meglio specificata sottomissione, probabilmente neanche chiusa bene, in preda al panico. Anche il colossale James Toney tentò la fortuna, ma si trovò davanti, a UFC 118, nientemeno che Randy Couture e la sua esperienza rimase infatti unica, chiusa con una sconfitta. Per ogni Jimmerson e Toney, però, può esserci una Holly Holm (kickboxer con dieci anni di esperienza alle spalle) che sconvolge il mondo e batte Ronda Rousey: una delle più grandi atlete mai viste nell’ottagono di MMA, quella, anzi che ha fondato la sezione femminile della UFC.

Insomma, è vero che in genere i pugili non hanno avuto grosse fortune in gabbia, ed è vero anche che non sono in moltissimi a decidere per il passaggio definitivo, viste pure le borse non proprio invitanti e il rischio maggiore, ma è vero anche che ci sono state eccezioni a questa regola.

La boxe degli influencer ha cambiato le regole

Se si inverte la direzione e si parla di fighter di MMA che si danno al pugilato d’esibizione (poi anche pro), quello di Jake Paul e dei suoi avversari, per capirci, la questione cambia e accoglie un altro tipo di pubblico che, magari, non si sarebbe avvicinata a questo tipo di sport senza celebrità coinvolte.

Ecco, se i puristi disdegnano questo tipo di pubblico definito “casuale”, il colore dei loro dollari è verde proprio come quello dei più fedeli appassionati e il loro numero è ben superiore. Ragion per cui i promoter che hanno buon occhio non disdegnano questo tipo di incontri in cui l’interesse non è solo sportivo.

Al contrario dei colleghi pugili, quando ai fighter di MMA si propone l’accesso sul ring in genere non si fanno scappare l’occasione di tentare il miracolo, rimpolpando il proprio conto in banca nel processo. La transizione dalle MMA al pugilato sembra più naturale, anche se poi a conti fatti la distanza sembra troppo grande anche facendo il viaggio al contrario.

Il minore dei fratelli Paul ha tessuto una buona carriera da mestierante contro fighter semi-ritirati (spesso più piccoli fisicamente di lui) anche se con un passato ad alto livello: persino l’ex campione dei pesi welter UFC Tyron Woodley, e quello di One Championship Ben Askren, sono finiti faccia a terra con lui; e alla fine il modello ha acquisito un certo rispetto. Dopo la vittoria ai danni di Nate Diaz, Paul si è guadagnato ulteriore credibilità anche se i più critici, colpiti nell’orgoglio da questa forma esibizionistica di successo, continuano a snobbarlo se non peggio.

Personalmente, appartengo alla fazione di più aperte vedute. Se un match è decente, se l’impossibile è dietro l’angolo, allora credo sia legittimo provare interesse, con un’eccitazione magari infantile che non deve mai scomparire. In fin dei conti l’idea che con due uomini sul ring possa succedere di tutto è alla base di ogni incontro, ad ogni livello. Questa illusione, questa sospensione del giudizio, è la cosa che accomuna il tipo di incontri che qualcuno definisce “freakshow” agli incontri più classici.

Come si arriva al match tra Ngannou e Tyson Fury?

Il 28 ottobre, in Arabia Saudita, a Riyad, andrà in scena un match che nonostante non sia stato accolto bene dai puristi rappresenta un’altra pietra miliare di questo scontro che non è tra discipline ma tra uomini che vengono da percorsi diversi. Il campione dei pesi massimi WBC, uno dei più grandi pesi massimi di ogni tempo, l’inglese Tyson Fury, affronterà l’ex campione dei pesi massimi UFC (che non ha mai perso il titolo dopo averlo conquistato contro Stipe Miocic) Francis Ngannou, che dopo un’odissea ha raggiunto la Francia dal Camerun per iniziare a dar forma ai propri sogni, trasferendosi poi negli Stati Uniti. Ngannou è un ferreo esempio di come, grazie anche agli indubbi mezzi che madre natura gli ha concesso ma anche a una determinazione adamantina (le multiple traversate in mare ne sono il più grande esempio contemporaneo, credo) ha realizzato i propri sogni. Il sogno di Ngannou era proprio quello di fare il pugile: quando è venuto in Europa voleva diventare campione dei pesi massimi e adesso, anche se in palio non c’è nessuna cintura, avrà la sua occasione.

Se però non ci è riuscito prima, e per aprirsi la strada è dovuto passare per le MMA, è proprio perché i suoi allenatori lo avevano giudicato non in grado di raggiungere il livello più alto nella boxe. Questo è il paradosso più grande all’interno di una storia che altrimenti filerebbe dritta: Ngannou si è persino scontrato con Dana White - arrivando a separarsi dalla UFC - e con tutti gli scettici che non ritenevano possibile un simile incontro, proprio per arrivare a incontrare l’imbattuto (forse imbattibile) Tyson Fury.

Per Ngannou era una questione di prestigio, certo, ma anche di soldi. Nei suoi ultimi match da contratto in UFC dovrebbe aver percepito circa 600mila dollari a incontro. Per il solo match contro Fury si parla di un numero a 8 cifre, per un minimo di 10 milioni di dollari. Si sente la differenza, no? Ngannou, soprattutto grazie agli highlights che ha collezionato nelle MMA, è diventato via via sempre più conscio del proprio valore mediatico, e del proprio incessante lavoro, rifiutando sdegnato le offerte di rinnovo della UFC, per convergere con la promotion PFL, che gli ha proposto un contratto mostruoso di cui non si conoscono esattamente i dettagli. Solo alcuni ce li rivelati proprio Ngannou, che ha detto ad esempio che ogni suo nuovo avversario nelle MMA percepirà una borsa minima di 2 milioni di dollari.

Quindi sì, sicuramente con White le incomprensioni principali riguardavano i soldi, ma Ngannou voleva anche essere libero una volta per tutte: alla UFC non aveva chiesto solo un adeguamento del contratto ma condizioni migliori per sé e per i fighter, cosa che è stata accolta con estremo malumore. Alla fine la più importante promotion di MMA ha preferito lasciar andare uno dei più grandi draw degli ultimi anni e rinunciare all’organizzazione del papabile match contro Jon Jones per non rischiare di incappare in uno stravolgimento anche minimo della presa e del potere che ha sugli atleti sotto contratto (tipo, garantendo un’assicurazione medica).

Ngannou ha avuto ragione e ha vinto la sua prima battaglia, per poi veder realizzata anche la seconda, grazie pure alla libertà che gli lascia PFL (l’UFC invece pretende l’esclusiva durante la durata del contratto). Realizzerà così il sogno di una vita, quello di affrontare uno dei campioni in carica della Grande Boxe.

Il precedente di Conor McGregor

Ovviamente non si può parlare di questo incontro senza ricordare quello tra Conor McGregor e Floyd Mayweather. A quei tempi McGregor era campione UFC in due categorie di peso diverse e ottenne la licenza da pugile professionista dalla Commissione atletica della California. Aveva un contratto in essere con la UFC ma voleva comunque affrontare Floyd Mayweather, pound for pound il pugile più forte della generazione appena passata. Mayweather mostrò altrettanto interesse, conscio sicuramente della portata mediatica dell’incontro, probabilmente in cerca di grosso rumore per quella che sarebbe stata la sua vittoria numero 50 da professionista (a fronte di nessuna sconfitta). Quindi l’economia, certo, da tenere in conto, ma anche l’interesse di avvicinare un pubblico più ampio non necessariamente alla boxe in sé, ma alla propria immagine, al proprio brand. L’idea di battere McGregor, più giovane e anche lui invincibile nella sua disciplina, fresco per giunta di un’impresa colossale e senza precedenti, era troppo ghiotta.

Così, nei primi mesi del 2017, McGregor venne contattato dall’entourage del pugile e in quel caso la UFC non ebbe niente in contrario nel fare un’eccezione, associandosi anzi nell’organizzazione dell’evento. Nel giro di qualche mese era già tutto pronto e ci ricordiamo tutti, credo, come andò a finire. McGregor non sfigurò ma il match fu fermato per TKO alla decima ripresa. Prima del match, immaginavamo come sarebbe potuta andare, e non ci siamo andati troppo lontani, ma se non altro McGregor ha sorpreso un po’ tutti per la sua incredibile resistenza al ritmo e ai colpi dello statunitense.

La portata dell’evento fu gigantesca, dal punto di vista mediatico fu il secondo incontro di boxe più venduto di sempre, dopo quello tra Mayweather e il campione filippino Manny Pacquiao. Anche le piattaforme illegali fecero il pieno, si contarono quasi 3 milioni di views attraverso siti pirata a fronte dei 4,5 milioni di acquisti legali in PPV.

Quindi Ngannou ha qualche possibilità di battere Fury?

Quello tra Fury e Ngannou potrebbe avere molte similitudini con il match tra McGregor e Mayweather. Ngannou si è subito messo in moto chiedendo l’aiuto di Mike Tyson, che ne parla come di una macchina da guerra, assicurandoci che il match non sarà a senso unico. Tutti conoscono la potenza che possiede Francis Ngannou, ma la storia ci insegna che la boxe è un altro sport, che necessita una diversa contestualizzazione e un diverso approccio. Non parliamo solo dei guanti da 10 once che vanno a sostituire quelli classici delle MMA da 4 o 6 once, ma dell’impostazione totale di un incontro che va a cambiare numero di round, durata, regolamento generale e gestione dei momenti.

La potenza di Ngannou è leggendaria. Quando non erano ancora in conflitto, Dana White raccontava come avessero misurato la potenza del suo pugno e che equivalesse ad essere investiti da una Ford Escort.

Il montante col quale ha messo KO Alistair Overeem, sollevandolo da terra come Brad Pitt in “Snatch”, è tanto iconica quanto altri grandi gesti del passato - come il frontale di Anderson Silva su Vitor Belfort, per fare un esempio; un’immagine da antologia, l’equivalente del coast-to-coast di Maradona contro l’Inghilterra (sì, insomma, più o meno). Ma non fate l’errore di pensare che Fury non abbia mai avuto a che fare con una potenza esplosiva simile a quella di Ngannou.

Nel suo primo scontro con Deontay Wilder, Fury ha ricevuto un colpo secco che gli ha spento la luce per qualche secondo: è andato giù, è stato contato, ma poi è resuscitato ed è riuscito a terminare l’incontro in pareggio. Dentro l’ottagono non si è mai visto un uomo che riesce ad esprimere la potenza esplosiva mostrata da Ngannou (proporzionalmente forse pareggiata dal compianto Anthony Johnson, che però era un massimo-leggero circa trenta chili meno pesante e conseguentemente meno potente) ma quel colpo di Wilder aveva, a mio avviso, una potenza molto simile alle bordate del camerunese.

Tyson Fury è un genio dello spazio delimitato dalle quattro corde, uno dei più grandi pesi massimi di sempre. Al rientro nel 2018 dopo tre anni di stop (e dopo una dipendenza dalla cocaina) ha avuto la meglio su Deontay Wilder vincendo i due incontri successivi al primo (pareggiato, appunto) e che in carriera ha battuto pugili del calibro di Dillian Whyte, Derek Chisora (per ben 3 volte) e Wladimir Klitschko. Ma è un genio anche per la personalità mostrata, per la capacità di frustrare gli avversari, di subire e rientrare in corsa, di gestire i match.

Fury è un pugile estremamente intelligente e il suo stile è in completa antitesi col suo fisico apparentemente sgraziato: un ottimo footwork e un jab leggendario aprono la strada ai diretti, ai montanti al corpo, ai movimenti rapidi e repentini che gli consentono di incrementare il volume dei colpi rimanendo sempre sul pezzo con precisione millimetrica. Tyson Fury però pur non si è ancora scontrato contro pugili come Anthony Joshua, Oleksandr Usyk e Andy Ruiz jr., ed è anche per questo che si è attirato le ire dei grandi fan della boxe: forse combattere con Francis Ngannou è una perdita di tempo. Per calmarli, forse, Fury ha già fissato la data del suo prossimo incontro: a dicembre, contro Usyk.

Ma questa è forse anche una strategia per innervosire ulteriormente Ngannou, per farlo sentire sottovalutato. Così come quando ha detto, facendo sorridere chi conosce le MMA, di poter battere Ngannou anche in gabbia, affermando che batterebbe addirittura Jon Jones.

L’ultima volta che si sono incontrati Fury si è tolto la maglia mostrando fiero la propria pancia, chiamando “Little Man” Ngannou (che è appena più basso di lui e piccolo proprio non è). Ngannou sembrava sorpreso: «Lui voleva che io pensassi di avere davanti un maiale. Ma io sapevo che no, avevo davanti il campione del mondo dei pesi massimi».

Dentro l’ottagono da MMA sono stati in pochi ad aver accettato lo scambio con Ngannou e hanno fatto tutti la stessa fine: sono finiti addormentati, svenuti dopo il primo scambio. Ngannou, inoltre, è dotato di un mento granitico che gli ha consentito di uscire sulle proprie gambe dopo il primo match contro Stipe Miocic nel quale il più esperto statunitense ha fatto stancare Francis con il wrestling, con degli atterramenti, controllandolo al suolo, malmenandolo in ground and pound. Nel secondo scontro tra i due, però, dopo il primo tentativo di takedown da parte di Stipe fermato da Ngannou, si è capito subito che la musica sarebbe stata diversa e poco dopo, quando Miocic ha pensato bene di accettare lo scambio con Ngannou, anche lui si è ritrovato KO, piegato all’indietro come un portafoglio gettato sul tavolo.

Insomma, se Ngannou ha una chance, è quella del KO. Va detto che i guanti da 10 once fanno stancare più rapidamente ed entrano meno agilmente nella guardia avversaria, e probabilmente lo stile aggressivo e brutale di Ngannou non avrebbe lo stesso successo contro una guardia ben chiusa e un mento solido come quello di Fury. Finirebbe per stancarsi, con Fury che potrebbe anche limitarsi a danzare e demolirlo dalla distanza, senza correre rischi. Per questo la condizione atletica con la quale si presenterà Ngannou sarà centrale, anche solo per sperare di mettere in difficoltà Tyson Fury.

Dal punto di vista del pugilato puro, Ngannou di certo non sarà il miglior pugile affrontato da Tyson Fury e realisticamente le sue chance sono basse: sarebbe pretestuoso dire il contrario; ma come si può non credere, anche minimamente, ad un uomo che ha mostrato una così grande fiducia in se stesso, così ostinato, che si è trasformato in un moderno eroe di ventura all’inseguimento di un sogno e lo ha realizzato contro tutto e tutti?

Il 28 ottobre è ormai vicino, la logica vorrebbe Fury vincitore: e il pugilato è uno sport in cui la logica di solito ha la meglio, a differenza delle MMA dove l’impossibile accade spesso. Tyson Fury, con tutta probabilità, riuscirà a portare la vittoria a casa, ma che conseguenze potrebbe avere una vittoria di Francis Ngannou sull’intero mondo degli sport da combattimento? Sarebbe un punto dal quale non si torna più indietro, una sliding door che aprirebbe scenari finora inesplorati.

Francis Ngannou ha la chance di cambiare per sempre il modo in cui si guarda alle MMA, e di far tremare le fondamenta di un mondo come il pugilato, in i campioni siedono saldi sul loro trono e la fanbase che si lamenta dell’immobilità (specie nelle categorie dei giganti). Potrebbe essere una ventata inaspettata di freschezza, anche se forse non il tipo di freschezza che si aspettano i puristi della boxe.

Francis Ngannou avrà la possibilità di sovvertire il mondo della boxe, di metterlo sottosopra in una notte. Il guardiano del cancello, però, è il migliore che i fan del pugilato potessero desiderare. Fury sarà l’ostacolo inamovibile che si oppone alla forza incontrastabile di Ngannou: magari non succede niente, ma se succede…

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