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Calcio Daniele Manusia 7 aprile 2017 18'

Cosa non va nel calcio di Romelu Lukaku

Il belga è capocannoniere della Premier League ma il suo modo di giocare è un esempio di alcuni problemi del calcio contemporaneo.

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Insomma, puntare molto sul gioco aereo è poco conveniente a meno che non si abbia un Crouch o un Carroll (o Fellaini, che effettua meno duelli di un centravanti ma ne perde 1,6 ogni 90 minuti, è addirittura oltre la centesima posizione in quella classifica), o comunque qualcuno (Negredo, Llorente) in grado di pareggiare costi e guadagni di un gioco che implica la perdita momentanea del controllo sul possesso del pallone. Lukaku non fa parte di queste categorie statistiche.

 

Qualche mese fa Kevin De Bruyne ha raccontato della frustrazione di Pep Guardiola nei confronti del gioco di lanci di molte squadre in Premier: «Spende tempo ed energie a cercare soluzioni, dove potremmo trovare spazi, ma poi ci dice che tanto gli avversari lanceranno lungo». Il punto è che le squadre che ricorrono ai lanci sull’attaccante grosso solitamente non hanno grandi alternative tecniche (ed è tanto più frequente più è alto il ritmo del gioco), ma nessuno parlerebbe di Lukaku come di un giocatore da Burnley. Anzi, considerata la sua inefficienza di testa Lukaku è tutto tranne che un giocatore da Burnley.

 

Un’ulteriore conferma è arrivata dal derby dello scorso sabato, perso (1-3), in cui l’Everton è ricorso spesso al lancio lungo su Lukaku per sfuggire alla pressione del Liverpool di Klopp, senza grande successo. Lukaku ha vinto 4 duelli aerei su 12 effettuati nella metà campo offensiva, e non è importante il dato numerico in sé, quanto piuttosto la constatazione che quasi nessuno dei duelli aerei vinti ha effettivamente generato un vantaggio per l’Everton. Così come, invece, alcuni duelli aerei persi, proprio perché Lukaku è un ostacolo semplicemente troppo grande da aggirare o anticipare, hanno portato al recupero di una seconda palla. Detto questo, però, la sua partita si ferma praticamente qui.

 

 

 

Una vita da “target man”.

 

Lukaku può essere considerato un prodotto ancora più tipico della Premier League proprio perché la sua prima educazione, quella belga, aveva fatto di lui un giocatore decisamente diverso. Quella al calcio inglese, per Lukaku, è stata una rieducazione.

 

La generazione dorata del calcio belga, per quanto poi, per ora, possa aver portato a risultati inferiori alle aspettative, è frutto delle buone intenzioni della rivoluzione della federazione che (in estrema sintesi) dopo il disastroso Mondiale del ‘98 ha riformato il proprio sistema di formazione per “costruire” calciatori più tecnici per giocare un calcio maggiormente offensivo. Riempendo le periferie di campetti e convincendo le squadre principali ad adottare il 4-3-3 come modulo per le giovanili.

 

Un’idea di calcio in cui era centrale il dribbling, l’uno contro uno. Jean Kindermans, direttore delle giovanili dell’Anderlecht, dice che quando hanno iniziato a lavorare con Lukaku aveva meno di 13 anni ed era «un buon giocatore, ma non molto tecnico. Era forte e veloce ma abbiamo dovuto sgrezzarlo».

 

Nel tipo di gioco che avevano in mente in Belgio non esisteva neanche l’idea di centravanti di peso su cui appoggiarsi con i lanci lunghi per risalire il campo. E infatti il calcio belga di questi anni ha prodotto principalmente esterni d’attacco brevilinei, perfetti per giocare a piede invertito e rientrare dentro al campo. L’influenza di quel tipo di calcio su Lukaku si vede ancora oggi, ogni volta che si allarga per ricevere palla sui piedi e poi rientrare per il tiro, sia a sinistra che a destra, o puntare il diretto avversario sull’interno o sull’esterno.

 

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Il doppio passo da esterno navigato, il cross col piede debole.

 

Anche in transizione, la sua tendenza a correre nei corridoi esterni lo allontana dall’area di rigore al punto che forse beneficerebbe giocando con una seconda punta vicina.

 

Ma resta un problema per un giocatore con un cono di tiro molto stretto, cioè con un tiro che perde efficacia non appena è un minimo largo o quando ha dei giocatori davanti.

 

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Immaginate delle linee che partono dalla base dei pali di porta che possono allontanarsi con un angolo sulla linea più o meno ottuso. L’angolo di Lukaku – quello più macchiato di verde – è quasi di 90°. Rispetto all’anno scorso si è anche ulteriormente stretto.

 

Dopo la partita con il Liverpool, Koeman ha detto che Ross Barkley e anche Lukaku «non hanno giocato al loro livello», se l’è presa con la stanchezza dovuta agli impegni in Nazionale (dove, tra l’altro, Lukaku è allenato dal suo precedente allenatore all’Everton, Roberto Martinez), sottolineando ancora una volta la voglia di Lukaku di lavorare su se stesso come la chiave per azzittire le critiche. Sotto l’aspetto mentale lo ha paragonato a Ibrahimovic, nel senso che anche Zlatan ha dovuto imparare a fare cose nuove ad ogni step della sua carriera. Pochi mesi fa, alla domanda se sotto porta Lukaku gli ricordava Van Basten, Koeman aveva risposto che: «È uno dei migliori, anche al confronto con i giocatori dei miei tempi».

 

E però, sempre Koeman, in alcune sue dichiarazioni ha accennato ai problemi strutturali di Lukaku, che non sono trascurabili per un attaccante né così semplici da risolvere con l’allenamento. Ha detto che a volte Lukaku «si prende dei rischi nella posizione sbagliata, tipo davanti al difensore centrale di destra, anziché tra i due difensori centrali».

 

Ma durante la partita contro il Manchester United, un’altra partita opaca (anche per merito di Rojo e Bailly), era abbastanza evidente quale fosse la vera differenza tra un giocatore costruito come Lukaku e un genio naturale come Ibra. Perché d’accordo la mentalità, d’accordo l’allenamento e persino l’immagine da duro indistruttibile che litiga con i difensori, ma almeno metà dell’unicità di Zlatan Ibrahimovic sta nella sua sensibilità. Quella non l’ha imparata davvero da nessuno.

 

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Uno dei suoi rari movimenti senza palla efficaci.

 

Lukaku è un Frankenstein assemblato in parte sui principi del calcio belga e in parte su quelli del calcio inglese. Ma se non era abbastanza dotato tecnicamente per il primo, non è stato formato per il secondo, per cui invece era più adatto fisicamente.

 

Il Belgio ha aggiunto tutta la tecnica possibile sul suo talento fisico e non si può dire che Lukaku sia in assoluto poco tecnico, soprattutto rispetto a molti pari ruolo: ci sono cose che fa molto meglio di quasi tutti gli attaccanti a cui potremmo confrontarlo, e la sua conduzione in corsa ad altissime velocità, anche perdendo contatto con la palla, è notevole. In tutto il resto però, la tecnica di un’ala e quella di un centravanti hanno davvero poche cose in comune.

 

Forse una delle abilità tecniche più sottovalutate del gioco è la protezione spalle alla porta. Lukaku non ha gli accorgimenti che giocatori nati e cresciuti spalle alla porta, magari meno tecnici di lui, devono imparare per forza di cosa per sfruttare il proprio corpo; né tanto meno il primo controllo di quelli che non perdono la distanza dalla palla. Lukaku commette anche errori gratuiti, il suo corpo diventa un ostacolo anche nelle giocate più semplici, e non eccelle neanche nel puro uno contro uno in modo da creare un reale vantaggio in isolamento. A che serve un attaccante così? La risposta, nel bene e nel male, è racchiusa nei 22 gol segnati fin qui.

 

L’educazione belga e quella inglese, che hanno dato vita a un calciatore così poco naturale, si fondono con armonia solo in quei momenti in cui Lukaku fa cose che solo Lukaku può fare. Non sto parlando di quei gol – contro il Manchester City, o il Leicester – in cui perde semplicemente il controllo e si trasforma in una valanga vivente che trascina la palla in porta. Il meglio che Lukaku può offrire allo spettatore inglese è rappresentato dal gol al Bournemouth: un attaccante che pesa quasi un quintale, che va veloce come uno sprinter e con un sinistro abbastanza dolce da mettere la palla a giro sul secondo palo.

 

 

Sono passati tre anni e mezzo dall’ultima volta che ho scritto di Romelu Lukaku e il mio giudizio su di lui è cambiato radicalmente. Allora andava di moda il 4-2-3-1 e potevo lamentarmi della presenza di 3 giocatori ad occupare la trequarti di campo, solitamente due esterni offensivi più un trequartista moderno, magari con meno visione rispetto ai trequartisti del passato ma con più capacità di creare superiorità con un dribbling o una conduzione. Un secondo attaccante che partisse tra le linee e facesse anche assist insomma.

 

In Lukaku vedevo la possibilità di tornare a un tipo di attaccante che facesse rallentare il gioco. In assenza di un trequartista vecchio stile, avrei voluto un attaccante vecchio stile, che venendo tra le linee, con un gioco di sponde e protezioni del pallone spalle alla porta raffinate.

 

Lo vedevo come l’antidoto di quel tipo di giocatori che il calcio belga ha prodotto in quantità industriale in questi anni e al tempo stesso come agente segreto in grado di sabotare l’intensità del calcio inglese.

 

Mi sbagliavo, Lukaku ha finito con l’incarnare gli aspetti più convenzionali di entrambe le scuole calcistiche. Semmai, paradossalmente, Lukaku è un esempio di come le doti atletiche, anche eccezionali, non bastino e di come anche la tecnica, quando è appresa in assenza di una visione originale del calcio, di sensibilità e di fantasia, diventi prevedibile.

 

Di come, in definitiva, per avere una reale influenza sul gioco non basti avere influenza sul risultato. Non basta neanche segnare 22 gol in stagione.

 

 

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Tags : evertonpremier league 2016/17romelromelu lukaku

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020).

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