Il 12 settembre 2016 non sembrava la giornata fortunata di Romelu Lukaku. Anzitutto per via della coppia africana al centro della difesa del Sunderland, Papy Djilobodji e Lamine Koné, che si alternavano per anticiparlo o comunque non farlo girare, lasciandolo giocare quasi solo di sponda. Secondo poi, per via del portiere del Sunderland, Jordan Pickford, che al dodicesimo del primo tempo gli aveva negato il gol su un bel colpo di testa. Lukaku – alla terza presenza in campionato, con Ronald Koeman seduto da poco in panchina – stava avendo la peggio persino nei duelli corpo a corpo e in quelli aerei; ma si può dire che stesse giocando diversamente dal solito? No. Che fosse più lento, o leggero, del solito? Neanche. Sembrava solo che non fosse il suo giorno fortunato.
Quel 12 settembre, dopo sessanta minuti di gioco, Lukaku non andava in gol da 13 partite giocate con la maglia dell’Everton (considerando la fine della stagione precedente e l’inizio di questa 2016-17; e se si contano anche le amichevoli estive e la partita di League Cup contro il Yeovil Town erano 16 le partite senza reti). Veniva anche da un Europeo così e così, in cui era finito decisamente in ombra nelle sconfitte decisive per il Belgio contro Italia e Galles, con un paio di occasioni fallite e 2 soli gol segnati (entrambi contro l’Irlanda); un Europeo così così per tutta quella generazione di calciatori belgi tanto dorata quanto, per ora, deludente, di cui Lukaku è uno dei simboli più appariscenti.
Lukaku che da adolescente nella squadra del suo paese ha segnato 130 gol, e nelle giovanili dell’Anderlecht ne ha segnati altri 121; che da professionista ha un record in costante aggiornamento migliore di molti dei migliori attaccanti della storia del calcio quando avevano la sua stessa età. Lukaku che, comprensibilmente, se interrogato sul tema dice che fare gol è «la migliore sensazione del mondo. Voglio dire, è tutta la vita che faccio gol».
Eppure, dopo un’ora di brutto calcio, con un periodo di astinenza da interrompere, sul suo volto, nell’atteggiamento del suo corpo, non si leggeva alcun segno di frustrazione. Persino intorno al cinquantesimo, quando ha mandato al lato da pochi passi un tiro-cross di Coleman, Lukaku non si è spazientito.
In quel momento, per mettere le cose nella giusta prospettiva e non perdere la pazienza, Lukaku poteva pensare fondamentalmente a due cose.
La prima, che vale per tutti gli attaccanti ma in particolare per un attaccante con le sue caratteristiche tecniche e fisiche, è che basta pochissimo perché la situazione si sblocchi. Che gli arrivi la palla giusta da un compagno, che esegua il movimento giusto, che sia più preciso o che abbia anche solo un po’ di fortuna in più.
La seconda è che, in fondo, lui stava facendo il suo. Lukaku sa che la sua influenza sulla partita non arriva al punto da trasformare una brutta giornata in una buona giornata e ci aveva già provato nelle settimane precedenti, scontrandosi con gli avversari e con i propri limiti. Lukaku sa che deve solo aspettare, vedere che succede e cogliere l’occasione giusta come l’ha saputa cogliere centinaia (migliaia, considerando gli allenamenti) di volte nella sua vita.
E infatti nella mezz’ora seguente Lukaku segna due gol: Di testa, con la difesa del Sunderland che deve ancora riordinarsi su una ripartenza; di testa su uno splendido cross di Yannick Bolasie. Poi arriva un terzo gol di piatto sinistro, a tu per tu con Pickford. Nell’ultima mezz’ora di gioco, in quel periodo delle partite di Premier League in cui gli spazi si aprono, Lukaku avrebbe avuto persino il tempo per un quarto gol (o, se fosse stato meno egoista, quanto meno per aggiungere un assist al tabellino).
A quel punto, contrariamente alle premesse, il 16 settembre 2016 sembrava decisamente il suo giorno fortunato.
Adesso, dopo altri 18 gol segnati in campionato (e almeno un altro paio di giornate decisamente fortunate: la quadripletta con il Bournemouth, la doppietta più assist contro l’Hull qualche giorno fa) possiamo guardare a quella partita con il Sunderland come allo spartiacque nella stagione di Lukaku. L’inizio di quella che sta per diventare (al momento gli mancano solo 4 gol) la sua più prolifica in Inghilterra e che, dato che non sta firmando il rinnovo con l’Everton e che Mino Raiola non è famoso per fare sconti, potrebbe ridefinire il suo valore all’interno del panorama calcistico europeo.
Considerando che deve ancora compierne 24, ma che ha già 8 stagioni di calcio professionistico alle spalle (questa è la nona, la sesta in Premier League), Lukaku è un caso di studio unico attraverso cui guardare il calcio di questi anni.
La mia tesi, tanto vale dirlo subito, è che Lukaku – pur essendo un’anomalia fisica (191 cm x 94 kg) difficile da riprodurre con qualsiasi metodo di allenamento o di selezione – sia il prodotto esemplare di un calcio estremamente professionalizzato, che la sua storia di successo sia anche una storia di omologazione, che ci dica qualcosa sulla scuola calcistica inglese, su quella belga e sulla standardizzazione verso il basso di alcuni aspetti fondamentali per un’idea di calcio più pura di quella moderna. Tipo la sensibilità.
«La maggior parte delle volte quando corro alla massima velocità e il difensore prova a spostarmi non devo fare niente, perché sono troppo forte». Da una delle sue interviste.
Probabilmente Lukaku verrà inserito nella lista della spesa delle squadre migliori al mondo, perché il mercato calcistico ormai va così e se qualcuno sente il bisogno di spendere molti molti soldi per un nuovo giocatore che difficilmente da solo potrà cambiargli la squadra – perché i giocatori che da soli cambiano le squadre, anche di poco, sono molto più rari di quelli che servono a un mercato così ricco – perché no Lukaku, che quanto meno sta giocando il suo miglior calcio?
Prima che succeda vale la pena riflettere su come Lukaku è cambiato in questi anni. Facciamo una prova: cercate di ricordare la prima volta che lo avete sentito nominare, sono sicuro che una risposta valida più o meno per tutti sarebbe: molto tempo fa. Adesso, volete sapere altri giocatori che avete sentito nominare per la prima volta molto tempo fa e che sono coetanei o più giovani di Lukaku? Pogba, Kondogbia, Draxler, Oxlade-Chamberlain, Deulofeu. Quello che voglio dire è che Lukaku non è l’unico giovane a giocare come un veterano nel senso più stretto del termine: come qualcuno che ha prestato a lungo servizio, e che è stato cambiato profondamente da un’esperienza professionale forgiante (come la guerra). Come i giocatori citati qui sopra, Lukaku è lontano anni luce dal giocatore che era all’inizio della sua carriera.
Se insisto su questo punto non è per arrivare alla retorica del giovane più maturo della sua età, quanto per sottolineare come i sistemi selettivi del calcio dei nostri giorni siano così duri che i talenti venuti a galla più prematuramente, che poi solitamente sono anche i talenti più cristallini, che in teoria avrebbero meno bisogno di sovrastrutture, quando hanno poco più di vent’anni si sono già dovuti reinventare. Il calcio cambia i calciatori, li ridefinisce esternamente e, con grande probabilità, internamente.
Anche se il calciatore in questione si presenta sulla scena come una palla demolitrice troppo grossa e troppo veloce per qualsiasi difensore.
Quattro stagioni fa, arrivato all’Everton dopo una delle migliori annate giocate da un rookie in Premier League (17 gol in 35 con la maglia del West Bromwich), dopo un’estate con il Chelsea da “futuro Drogba” , dopo un rigore sbagliato in Supercoppa contro Neuer e la rapida bocciatura di Mourinho, Lukaku aveva la media impressionante di un gol ogni 64 minuti. Nel corso della stagione 2013-14 il suo rendimento si è normalizzato su una continuità comunque invidiabile, 15 gol nonostante un infortunio alla caviglia che gli ha anche fatto perdere più o meno un mese.
In maniera controintuitiva, Mourinho ha convinto il Chelsea a cederlo definitivamente all’Everton. Certo non gliel’hanno regalato: 26 milioni di sterline, il giocatore più caro della storia del club.
Per la stagione successiva Lukaku sceglie di indossare la maglia numero 10. Un dettaglio che ci rivela da una parte come immagina se stesso, dall’altra che tipo di calcio ha in mente.
Quel Lukaku, in effetti, aveva velleità da giocatore completo. Più completo di quello che si sarebbe accontentato di diventare, ma decisamente meno efficace. Quel numero 10 può essere letto come il segno di un’ambizione magari ingenua, ma condivisibile, come la voglia di cambiare il calcio, letteralmente, sulle proprie misure. E invece è Lukaku ad essere cambiato.
Ad esempio, si è allenato a tirare con il destro raddoppiando la propria efficienza sotto porta. Se ne è accorto anche Carragher, analista televisivo raffinato, che gli ha lasciato il destro per tirare.
Anche se gli capita ancora di passare dei periodi più o meno lunghi di astinenza (e magari in futuro riuscirà ad essere ancora più costante) globalmente ha raggiunto uno standard di performance piuttosto alto, confermato dal fatto che le ultime due stagioni sono anche le sue più prolifiche in assoluto.
Ma la trasformazione in un giocatore maturo non è coincisa con un totale annullamento dei suoi vezzi, che sopravvivono ancora in qualche sporadica giocata (a cui, tra l’altro, riesce a dare un senso pratico più spesso del contrario) quanto piuttosto con una revisione generale del suo stile. Niente di strutturale, Lukaku ha ripulito il suo gioco dalle sfumature non necessarie, insistendo su alcuni aspetti che, razionalmente, gli avrebbero permesso una carriera. È meno ingenuo, ma anche meno ambizioso. Nel suo gioco non c’è più ricerca, ma ripetizione di schemi prevedibili.