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Dario Saltari
Cosa non torna nell’allarme lanciato dal calcio italiano sul Decreto Crescita
06 dic 2023
06 dic 2023
L'AD del Milan ha detto che «toglierlo significherebbe distruggere il calcio italiano».
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Dario Saltari
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IMAGO / Marco Canoniero
(foto) IMAGO / Marco Canoniero
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«È un modo per dare al calcio un piccolo aiuto che magari non è stato dato prima, per esempio nella lotta alla pirateria».

«Toglierlo adesso? Non sarebbe il momento giusto. Aspettiamo di raccogliere dati e capire se ha funzionato o no intanto».

«È l’unica leva che ci rende competitivi con gli altri campionati europei. Toglierlo a me sembra una follia a livello di economia nazionale».

«Che si decida ora di cancellarlo direi che è irragionevole».

«Più che eliminarlo ora, bisogna magari fissare la sua scadenza più in là».

«Dovessimo riportare De Zerbi a casa, per esempio, non ce la faremmo senza».

«È l’unico beneficio che ha il calcio italiano. Ogni tanto sento dire che si vorrebbe toglierlo, ma senza di esso di certo non verrebbero più i grandi giocatori e il fisco incasserebbe meno».

«È un'autentica manna». «Speriamo che i politici non lo eliminino, se no tutta questa europeizzazione finisce».

«Se lo tolgono viene a cadere ogni discorso sulla sostenibilità e l’equilibrio tra risultati sportivi ed investimenti. Toglierlo significherebbe distruggere il calcio italiano».

Se non sapete di cosa si sta parlando, forse vi stupirà sapere che il soggetto mancante in tutte queste dichiarazioni è il Decreto Crescita. Le parole sono del presidente del Torino, Urbano Cairo; del presidente della Lega Serie A, Lorenzo Casini; dell’amministratore delegato del Milan, Giorgio Furlani; dell’amministratore delegato dell’Inter, Beppe Marotta; del presidente del Milan, Paolo Scaroni; del direttore dell'area tecnica dell'Udinese, Pierpaolo Marino; del presidente del Napoli, Aurelio de Laurentiis; e del presidente della Lazio e senatore di Forza Italia, Claudio Lotito. Gran parte del management del calcio italiano è d’accordo su una cosa, quindi: la fine del Decreto Crescita sarebbe una catastrofe per l’intero movimento e senza di esso è meglio dimenticarsi le semifinali di Champions League. «Con il Decreto Crescita siamo tornati a fare risultati in Europa che prima non si ottenevano», ha detto piuttosto esplicitamente Furlani.

Il calcio italiano avverte l’urgenza di una possibilità che si sta chiudendo. Già a metà ottobre il governo, attraverso la bozza della legge finanziaria, aveva fatto intendere di voler cancellare il Decreto Crescita, e in particolare la norma sui cosiddetti “impatriati”, cioè le persone residenti all’estero da almeno due anni che decidono di trasferirsi in Italia e soprattutto di rimanerci per almeno altri due. Era una misura che era stata introdotta nell’aprile del 2019 dal governo Conte I per favorire il cosiddetto "rientro dei cervelli”, com’era stato chiamato proprio l’articolo del Decreto Crescita che disciplinava questa materia, e che per gli sportivi professionisti prevedeva nella pratica un imponibile ridotto del 50% nel calcolo dell’IRPEF. La norma era stata già aggiornata nel maggio del 2022, limitando la sua applicazione alle persone con redditi di almeno un milione di euro e che abbiano già compiuto vent’anni (per calciatori, ciclisti, golfisti e cestisti professionisti).

Il vantaggio prodotto da questa norma per i club di Serie A è facilmente intuibile ma è stato quantificato in maniera più precisa da Benedetto Giardina per Fanpage, utilizzando i dati sugli stipendi pubblicati dalla Gazzetta dello Sport e le elaborazioni di Calcio e Finanza sui monte ingaggi dei club di Serie A. Secondo i calcoli fatti da Giardina, i club più grandi della Serie A (cioè Milan, Inter, Juventus, Napoli, Lazio, Roma e Atalanta) hanno beneficiato solo per il 2023 di sgravi fiscali per un totale di oltre 21 milioni di euro. Un esempio, tra i tanti fatti nel pezzo, è Ruben Loftus-Cheek, acquistato quest’anno dal Chelsea, per il quale il Decreto Crescita permette al Milan di pagare un ingaggio lordo di oltre due milioni di euro inferiore rispetto a quello che pagherebbe con una tassazione non agevolata (circa 5,2 milioni di euro invece di 7,4). Come detto, però, non è solo il Milan. Si potrebbe fare anche l’esempio di Pavard (da 9,2 milioni lordi a 7,9) o di Timothy Weah (da 3,7 a 2,6), tra gli altri.

Alla luce di questi dati non stupisce che i club di Serie A stiano cercando di attirare l’attenzione sull’argomento adesso che il governo sta ragionando se togliere o meno questa misura nella nuova legge di bilancio, con lo stesso melodrammatico allarmismo con cui i calciatori si agitano dopo un fallo per spingere l’arbitro a fischiare. Era già successo alla metà di ottobre, quando sembrava che il governo volesse togliere la norma già per il 2023, con un effetto quindi retroattivo. Quello scenario alla fine è stato evitato, anche grazie alle voci che si sono levate dalla Serie A, ma adesso le parole si sono fatte più definitive, e c’è l’impressione che questa opportunità potrebbe non tornare.

Fa un po’ impressione sentire questo catastrofismo da parte dei club e delle istituzioni del campionato italiano nell’anno delle tre squadre italiane semifinaliste di Champions, delle finali di Roma e Fiorentina in Europa e Conference League, e del trionfalismo che ne è derivato sul presunto ritorno del calcio italiano al vertice della piramide europea. Queste dichiarazioni sollevano innanzitutto una questione di credibilità, perché le possibilità in questo caso sono solo due. O i dirigenti del calcio italiano stanno volutamente bluffando per tenere in piedi un espediente fiscale che gli permette di risparmiare qualche milione di euro l’anno; oppure i dirigenti italiani sono sinceri, e l’intera competitività della Serie A a livello europeo (anzi, secondo l’amministratore delegato del Milan, la sua stessa esistenza) si basa su un espediente fiscale che gli permette di risparmiare qualche milione di euro l’anno.

Io non sono un contabile e non ho mai lavorato sui bilanci di un club professionistico di calcio, come credo la maggior parte di voi. Non avendo quindi le competenze per ipotizzare la malafede, ed essendo costretto a credere alla sincerità dei dirigenti dei club di Serie A, cosa dovrei pensare? Che il raccontato rinascimento del calcio italiano è nato da un cavillo nascosto in una legge pensata per far tornare in Italia i ricercatori all’estero e che, alla fine, frutta complessivamente qualche decina di milioni di euro l’anno? Uno potrebbe anche dirsi che se mancano solo pochi milioni di euro per essere competitivi in Europa, allora il calcio italiano non sta messo così male come si dice. Ma se invece ci sono solo pochi milioni a dividerlo dalla sua distruzione allora forse la situazione è più cupa di quella che si sbandierava solo pochi mesi fa.

Qualcuno potrebbe dire che, anche se fosse così, non ci sarebbe nulla di male. L’Italia non è di certo il primo Paese a introdurre delle agevolazioni fiscali per favorire la competitività del proprio campionato (basti pensare all’introduzione della celebre “legge Beckham” in Spagna) ed effettivamente le notizie che arrivano dalla solidità finanziaria della Serie A non sono delle più rassicuranti. Perché non si dovrebbe discutere apertamente delle misure che possono rilanciare il nostro campionato? Queste effettivamente sono settimane in cui il dibattito sul rilancio della Serie A dovrebbe essere al centro del discorso. Gli stessi Furlani, Marotta e Cairo, alla fine, hanno parlato a margine di eventi che proprio di questo si dovrebbero occupare, come il RCS Sport Industry Talk e il Social Football Summit. E il dato certo che abbiamo è che tra tutti i temi su cui avrebbero potuto spostare l’attenzione grazie alla propria rilevanza mediatica hanno scelto proprio questo: chiedere al governo il mantenimento del Decreto Crescita, affermando che senza di esso il calcio italiano non può andare avanti.

Ora, non voglio girarci troppo intorno: l’isteria con cui i club di Serie A stanno trattando il tema mi sembra problematica. Innanzitutto da un punto di vista della legittimità politica di un provvedimento simile. Detta in altre parole: perché lo Stato, cioè i contribuenti, dovrebbero pagare per il rilancio o il salvataggio del calcio italiano al posto dei club più ricchi e importanti di questo Paese? E perché alcuni calciatori dovrebbero essere trattati dal fisco italiano come i migliori ricercatori e i professori universitari? Per quanto si possa amare il calcio, e insomma vi parla uno che lo ha reso la propria vita professionale, è difficile o per lo meno discutibile definirlo un settore strategico per l’economia italiana, su cui lo Stato dovrebbe investire. Il calcio, tutto sommato, è un gioco e anche a volerlo prendere molto sul serio rimane una parte relativamente piccola del PIL dell’Italia (meno del 3%, secondo uno studio realizzato da Banca Ifis).

Anche a voler ignorare questi interrogativi, e spero che il governo non lo faccia sia chiaro, c’è poi la questione della reale utilità del Decreto Crescita: siamo sicuri che sia davvero una soluzione per rilanciare la competitività del calcio italiano? Qui il discorso si complica perché una delle poche voci che si è levata contro il mantenimento del Decreto Crescita lo ha fatto per denunciare una presunta distorsione creata da questa norma a favore dei calciatori stranieri. È quella del presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, Umberto Calcagno, secondo cui il Decreto Crescita sarebbe «difficile da giustificare solo per il mondo del calcio, quando oggi sappiamo bene che verrà eliminato negli altri settori». Soprattutto, dice Calcagno, il mantenimento del Decreto Crescita sarebbe «devastante, sia per i nostri giovani che per chi gioca già ad alto livello: poter beneficiare di una detassazione del 50% crea una disuguaglianza che ha acuito ancora di più la percentuale di stranieri in Serie A». «Capisco che sia un risparmio per le società, ma non può essere a danno della Nazionale e di tutto il movimento», ha continuato Calcagno «Guardiamo al minutaggio: Lippi nel 2006 contava sul 70 per cento di italiani e 30 per cento di stranieri; Mancini prima e Spalletti poi fanno i conti con percentuali invertite».

Quella sui troppi stranieri è una polemica che si ripresenta ciclicamente nel nostro calcio. Certo, è significativo del clima politico che stiamo vivendo il fatto che venga sollevata di nuovo per il Decreto Crescita, che si applica anche ai cittadini italiani (quindi anche a un eventuale ritorno di Donnarumma, per esempio) e che, come detto, interviene solo per i redditi sopra il milione di euro e per le persone con più di vent’anni. Non parliamo di settori giovanili (già l’anno scorso Daniele V. Morrone aveva dovuto ricordare come in realtà nelle Primavere “la proporzione tra italiani e stranieri non è così allarmante”), ma anche nel calcio professionistico è un ragionamento controverso. In Serie A, infatti, la percentuale di utilizzo dei giocatori stranieri è stabile dalla stagione 19/20 tra il 62% e il 64% e non è detto che i giocatori che sono residenti in Italia da più di due anni siano necessariamente italiani (pensiamo per esempio ad Amrabat, che era in Italia dal 2019 e che poteva essere scelto dal Milan come alternativa a Loftus-Cheeek).

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La teoria per cui il Decreto Crescita favorirebbe i giocatori stranieri sembra insomma smentita dai fatti ancora prima che se ne possa discutere il suo reale valore. Forse bisognerebbe ricordarsi, quando si parla di questi temi, che la Premier League, unanimemente considerato il campionato più ricco e competitivo al mondo che in questi giorni ha venduto i propri diritti TV domestici a un valore più che doppio rispetto a quello della Serie A, ha la percentuale più alta di stranieri tra i cinque principali campionati europei (quasi il 69%). E sinceramente non mi sembra che la Nazionale inglese abbia molti problemi con la produzione di nuovi talenti.

Certo, Roma non è stata costruita in un giorno e lo stesso si può dire della Premier League. Ma la domanda rimane: le norme contenute nel Decreto Crescita sarebbero davvero un passo verso questo orizzonte utopico rappresentato dal campionato inglese? Nessuno per esempio ha provato a spiegarci perché l’intero movimento dovrebbe avvantaggiarsi del Decreto Crescita, che interviene solo sui redditi sopra al milione di euro, quindi su quei contratti che orientativamente possono permettersi solo le squadre che stanno alla sinistra dei vostri schermi quando guardate la classifica di Serie A. Parliamo delle squadre più ricche, consolidate, quelle più in grado di attirare sponsor e investimenti, le uniche in Italia che quei contratti potrebbero permetterseli anche senza agevolazioni fiscali: perché avvantaggiarle ulteriormente dovrebbe aiutare l’intero calcio italiano a colmare il proprio gap competitivo con il resto d’Europa? C'è anche chi ha proposto di mantenere il Decreto Crescita alzando la soglia dei redditi oltre il milione di euro. E su questo va dato atto a Calcagno di aver per lo meno sollevato il tema: «Perché alzare il tetto significherebbe far usufruire di questo beneficio solo i grandi club, in una Serie A dove già ci sono grandi diseguaglianze in termini di proventi dai diritti televisivi: così creeremo ancora più distacco».

Cos'è allora? Una questione di trickle-down economics, la discutibile teoria economica per cui arricchire i già ricchi porterà questi a spendere ancora di più facendo girare l’economia? Oppure di ranking UEFA, dando per scontato che siano sempre e solo le “sette sorelle” a doversi qualificare alle coppe europee? Sarebbe interessante conoscere la risposta dei dirigenti dei club italiani a queste domande. Se davvero il calcio italiano sta andando incontro alla sua distruzione penso che discuterne apertamente sia l’unico modo per evitarlo.

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