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Giuseppe Pastore
Cosa lascia Mino Raiola
02 mag 2022
02 mag 2022
Qual è l'eredità del famoso procuratore, scomparso pochi giorni fa.
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Giuseppe Pastore
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Quando muore un un personaggio controverso, un “cattivo”, come dobbiamo comportarci? In Quei bravi ragazzi Martin Scorsese fa uscire di scena l'ingestibile psicopatico Tommy (Joe Pesci) in maniera atroce: ingannato dagli scagnozzi della cosca da cui lui si aspetta una promozione e che invece lo freddano sparandogli in faccia, “così la madre non poteva fargli il funerale con la bara aperta”. In “Scarface” Brian De Palma pone fine al delirio di Tony Montana (Al Pacino) in modo spettacolare, grand-guignolesco, un'orgia di mitragliate che ha contribuito alla costruzione del Mito per le generazioni future. I nemici di Batman, quasi tutti più interessanti dell'Uomo Pipistrello stesso, ci incollano allo schermo ed è la loro morte a porre fine al film.


 

Il paragone tra Mino Raiola e questi pilastri della criminalità cinematografica può suonarvi poco delicato, a maggior ragione a poche ore dalla sua morte, eppure era proprio il suo personaggio a cavalcare l’estetica della malavita, del gangster con il pelo sullo stomaco - ovviamente in chiave pop, nella maniera fumettistica e stereotipata di un videogioco di mafia. Ad esempio, a pagina 167 dell’autobiografia del suo alleato più fedele, Zlatan Ibrahimovic, si legge: “In jeans e t-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava davvero uno dei Soprano”. Due pagine prima, Zlatan accetta di incontrarlo per la prima volta perché la persona che gliene sta parlando (il giornalista olandese Thijs Slegers) ha usato proprio quell'aggettivo: mafioso. “Mafioso mi suona bene!”. Mino Raiola non era affatto un mafioso, né ha mai fatto le cose poco commendevoli per cui sono tristemente famosi i mafiosi, la sua vita però pareva replicarne lo stile e i giornali, i libri in cui veniva citato, non avevano altra narrazione con cui raccontarlo.


 

Prima della sua scomparsa molto prematura ad appena 54 anni, la FIFA gli stava facendo la guerra da un bel po’. Il meccanismo delle commissioni era ormai sfuggito di mano a tutti i grandi club europei e prima o poi avrebbero trovato un cavillo per incastrarlo - sulla falsariga, si pensava, dell'evasione fiscale per Al Capone. Ma sapete come sono le cose del pallone: non vanno mai prese troppo seriamente, e soprattutto molto di rado le sensazioni collimano con la realtà oggettiva. Celebrato in queste ore come “il numero uno”, “il re del mercato” dal momento che era il più riconoscibile e scimmiottato degli agenti, in realtà – per esempio – Raiola occupava appena il terzo posto della classifica dei procuratori più ricchi stilata lo scorso ottobre da Forbes, alle spalle non solo di Jorge Mendes ma anche dello sconosciuto (da noi) Jonathan Barnett, capo della ICM Stellar Sports, che nel 2021 ha traghettato Grealish dall'Aston Villa al Manchester City per la cifra apparentemente fuori scala di 100 milioni di sterline.


 

Nelle ore immediatamente successive a un lutto, le suggestioni e le memorie personali pesano più dei fatti accertati, e sicuramente in questi vent'anni Mino Raiola ha fatto l'impossibile per restare nei nostri pensieri (sicuramente molto più di Jonathan Barnett). Ha bordeggiato con abilità impareggiabile sull'equivoco, sul “ci è o ci fa”, ha lasciato che sul suo conto se ne scrivessero di ogni in ossequio alla celebre massima di Oscar Wilde sul “purché se ne parli”. Il Sun riportò che, durante le contrattazioni con il Borussia Dortmund per la cessione al Manchester United di Mkhitaryan, avesse fatto volare una sedia nel bel mezzo dell’ufficio. Ma gli aneddoti che lo riguardano, da passare in rassegna come i petali di una margherita, raccontano anche di un Raiola più sottile. Tipo la leggenda secondo cui è stato Raiola a consigliare al giovane Håland di cambiarsi la grafia del cognome in Haaland, per renderla più internazionale e semplice da cercare su Google.


 

I ricordi di queste ore lo dipingono come tutto e il contrario di tutto, spesso all'interno della stessa frase. Prendiamo le parole di Pierpaolo Marino, alto dirigente dell'Udinese e di quarant'anni di calcio italiano: «Un antagonista terribile, di una simpatia unica». Se Carmine Raiola da Nocera Inferiore fosse stato una figura retorica, sarebbe stato l'ossimoro. Un uomo ricchissimo che si vestiva malissimo. Un uomo immerso 24 ore al giorno nel mondo dello sport con una forma fisica rivedibile. Un uomo detestato e concupito insieme da frotte di direttori sportivi e presidenti, a conti fatti quasi tutti alleggeriti nel portafoglio dalle sue diavolerie. Per lui bisogna sempre usare due aggettivi a contrasto. Come da biglietto da visita cucitogli addosso dal suo amato Zlatan, sempre nella sua autobiografia: meraviglioso e idiota (in realtà la definizione completa era “meraviglioso ciccione idiota”).


 

Raiola è stato una scheggia impazzita che non ha avuto riguardo per giornalisti, presidenti, allenatori, la UEFA, la FIFA, dacché era approdato prima degli altri a un punto cruciale: la deriva del dibattito calcistico del terzo millennio, quando tutto ciò che succede in campo è solamente una triste appendice di un meraviglioso mercato idiota. E per questo motivo tutti questi signori non avevano alcun diritto di contare più di Mino Raiola.


 

In uno sport e in un mondo post-ideologico in cui ci si misura solo sull'ammontare del conto in banca, Raiola si è essenzialmente trasformato in uomo-salvadanaio. Persino la frase che apre l'estremo saluto social dei suoi familiari è un riferimento non all'uomo, ma al business: «Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre». Nella sensazionale parabola umana di Raiola, l'esistenza e il lavoro si sovrapponevano fino a coincidere. Nulla è mai trapelato sulla sua vita privata; anche il doloroso calvario finale, reso suo malgrado ancora più grottesco dal balletto di indiscrezioni delle ultime 48 ore, è stato vissuto all'insegna della privacy più totale. Tutte cose che sottolineano l'orgoglio con cui Raiola lasciava parlare per sé la sua carriera.


 

Eppure Raiola ha avuto anche, seppure a suo modo, una strana funzione didattica. Nella spietata società dell'immagine è riuscito a imporsi nonostante il pancione, il doppio mento, il look da autolavaggio la domenica mattina. Meglio ancora: ha trasformato questi difetti di fabbricazione nel suo stile. «Pancia prominente, abbigliamento improbabile con maglia a strisce tendenti al mélange, sorrisone da venditore ambulante, parlata con chiaro accento del sud, venato da inflessioni americane», lo descrisse nel 2013 Evelina Christillin che lo vide saltare fuori a una cena con Adriano Galliani in un ristorante milanese. «Insomma, un simpaticissimo incrocio tra Peter Clemenza del Padrino, Mario Merola e il senatore De Gregorio». E «simpaticissimo» è il tipico complimento che ti fa un ricco quando vuole tenerti a bada, blandirti per renderti innocuo; perciò Raiola non ci teneva affatto a essere simpatico, anzi pigiava a fondo sul pedale della cafoneria, della volgarità urticante, purtroppo in questo trascinandosi appresso una corte di nuovi mostri che di Raiola non possedevano nemmeno un decimo del suo talento e della sua passione.


 

Già, il talento di Mister Raiola. Per alcuni commentatori - giornalisti, addetti ai lavori, commentatori vari -  il suo modo di essere e di agire è stato eticamente discutibile. Per altri geniale. Una cosa non esclude l'altra. Ha stravolto un intero settore professionale, individuando con tigna e furbizia autostrade dove gli altri vedevano al massimo intercapedini. Ha posto fine al cliché dell'agente che guarda il suo assistito dall'alto in basso, come l'avvocato di provincia che stordisce di latinismi il suo cliente, per proporre una nuova immagine “alla pari” verso il quale il calciatore provasse istintiva fiducia. Da qui i numerosi, evidentemente sinceri nella loro commozione, saluti sui social dei suoi assistiti. Pogba che gli tributa un collage fotografico che pare raccontare un rapporto da vecchi amici; Haaland che si lascia abbracciare la testa mettendo su una faccia infinitamente infantile e remissiva; Gianluigi Donnarumma che gli assicura che rispetterà la promessa che si sono fatti; Moise Kean che lo ringrazia per averlo tirato fuori dalla strada, per avergli insegnato i principi di una vita. Raiola come un padre guascone ma protettivo, imprevedibile ma anche affidabile, soprattutto per una cosa: era il migliore a far guadagnare soldi ai propri figli. «Un secondo padre», infatti, lo ha chiamato Balotelli nel suo commiato.


 



Nella prima immagine sono teneri e complici, nella seconda Raiola mostra sfacciato il dito medio.


 

Ovviamente ha una lista di responsabilità lunga così e, parafrasando Franco Battiato, “il giorno della fine non gli servirà l'inglese”. Ha rubato ai ricchi per dare a sé stesso. Certo, non ha mai puntato la pistola alla tempia di nessuno: il modo in cui Mino Raiola è diventato Mino Raiola, “nel bene e nel male” come da formula onnipresente nei coccodrilli di questi giorni, è un tarlo che rosicchierà la cattiva coscienza di tanti dirigenti sportivi che tuttora riempiono le pagine dei giornali e le prime file dei convegni sulla sostenibilità del calcio. Ha contribuito a gonfiare a dismisura il carrozzone del calciomercato, rendendolo onnipresente e giornalisticamente più rilevante del calcio stesso. Ha coltivato con mercantile furbizia un network impressionante di relazioni con media e giornalisti, anche molto in alto.


 

Nessuno obbligò il Milan tardo gallian-berlusconiano a riempirsi di mezze figure, da Emanuelson a Didac Vilà, da Salamon a un certo Lucas Roggia, tasse da pagare per gli Ibrahimovic e i Balotelli di turno. Certo, nessuno ha costretto il Manchester United a ricomprare Paul Pogba a 105 milioni (di cui 27 intascati direttamente da Raiola) pur avendolo perso a zero quattro anni prima per poi riperderlo a zero sei anni dopo. Nessuno ha obbligato il presidente Al-Khelaifi a ricoprire di soldi Donnarumma pur avendo già in spogliatoio un signor portiere come Keylor Navas, con il risultato di rovinare la stagione all'uno e all'altro e, almeno in parte, allo stesso PSG. E forse per questo, oggi, nelle frasi a mezza bocca di alcuni tra quelli che gli stanno tributando l'ultimo saluto, sembra di scorgere una chilometrica coda di paglia. «Lavorare con lui significava arrivare al limite», ha detto Fabio Paratici, massimo dirigente della più forte squadra italiana del decennio, che in quanto tale ha incrociato il cammino di Raiola spesso e volentieri. Una frase interessante, che fa riflettere. Dal momento che Raiola non era certo l'unico procuratore sulla Terra, era necessario “arrivare al limite”? Non c'era altro modo di aggirare l'ostacolo? O forse – in una specie di strana relazione tossica – il calcio di altissimo livello aveva bisogno di Raiola per essere preso sul serio?


 

Dal momento che non si ricordano particolari conflitti di Raiola con l'Atalanta, il Villarreal o con tutte le altre medio-piccole esempi di gestione virtuosa negli ultimi anni, se ne deduce che Mino era un vizio riservato alle grandissime, uno status symbol, un nemico da ostentare come si sfoggia un Rolex o una bottiglia di whisky torbato da cento euro. Sono stati più che altro gli allenatori a non volerlo vedere nemmeno dipinto, innanzitutto Guardiola, scottato dall'affaire-Ibrahimovic (eppure, ora che ha bisogno di un centravanti, è da Haaland che è andato a bussare). Al momento della fine, bisogna perciò rifiutare l'umana tentazione di giudicarlo secondo i canoni che imponiamo a noi e ai nostri cari. Per Raiola è lecita una sola domanda: che procuratore è stato quello che tutti si sono affrettati a definire “il più grande procuratore di sempre”? È stato un buon procuratore? Ha fatto il bene dei suoi assistiti?


 

Dipende da quale lato si vuole provare a rispondere. Dal punto di vista economico è ovvio, visto che Raiola ha creato - o quanto meno ingigantito - un’economia che prima quasi non esisteva. Ogni trasferimento è stato un grande affare, per sé stesso e per i suoi assistiti. Meno scontato è rispondere dal punto di vista sportivo: i soldi sono stati sempre più importanti della destinazione. Solo due suoi giocatori hanno vinto la Champions League (Balotelli nel 2010 e Maxwell nel 2011): una statistica che non dice tutto, ma che dovrebbe suscitare dubbi sulle capacità di Raiola di trovare i contesti sportivi migliori per i propri clienti. Oggi è fin troppo semplice parlare della cattiva gestione di Donnarumma, uscito dall'estate con un’immagine distrutta e senza un posto da titolare nella squadra - il PSG - che in effetti non aveva bisogno di un portiere. Magari le cose miglioreranno. È impossibile però non pensare alla gestione di un talento fuori scala come Balotelli, un caso in cui è riuscito a estrarre pochissimo da una miniera d'oro, dissipata tra trasferimenti scellerati e comportamenti autolesionisti che Raiola non è stato in grado di impedire.


 

Così ha vita facile la vulgata che da Raiola si andava a bussare soprattutto per fare soldi, per cambiare squadra e mirare a uno stipendio più alto, che le soddisfazioni sportive venivano dopo. Tutto legittimo, per carità: alla favoletta del calciatore che gioca a pallone solo per coronare il sogno di bambino abbiamo smesso di crederci a undici anni. Solo che Raiola godeva particolarmente nello svelare alla gente che Babbo Natale non è mai esistito. Salvo voler credere in un Babbo Natale italiano, italianissimo, ma nato in Olanda e che, al posto della divisa rossa d’ordinanza e la slitta con le renne, si presentava a casa dei suoi calciatori in tuta e auto sportiva.


 

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