In un sondaggio che ha coinvolto 170 atleti di MMA in forma anonima, The Athletic ha chiesto il livello di soddisfazione dei fighter per l’operato dei manager che li assistono. La maggior parte dei combattenti intervistati (44,1%) ha dichiarato di pensare che questi professionisti non rappresentino adeguatamente i loro interessi (contro il 40,6% che ha risposto affermativamente e il 15,3% che non sa/preferisce non rispondere).
In media un fighter cede dal 5 al 25% della propria borsa per un incontro al proprio manager, cifra che arriva al 20% del totale quando si tratta di contratti di sponsorizzazione procurati dai manager stessi. Ma al di là del lato economico, la sensazione diffusa di insoddisfazione nei confronti della categoria sembra nascere da diverse motivazioni. I rapporti tra questi ultimi e il promoter di riferimento ad esempio: secondo un competitor di UFC raggiunto da The Athletic, spesso i manager temono di imporsi con i promoter stessi perché hanno paura di future ripercussioni sugli altri atleti che gestiscono.
In generale è difficile per gli atleti avere chiare le caratteristiche che deve avere “un buon manager” e quindi fidarsi di una persona esterna. Un manager di MMA necessita di competenze a trecentosessanta gradi: intuito, diplomazia, abilità nelle contrattazioni, conoscenza delle leggi in materia fiscale, capacità di relazionarsi con gli atleti, e svariate altre. Invece spesso i manager che operano nelle MMA possiedono una sola di queste peculiarità: c’è chi è specializzato nello scouting, chi invece ha fiuto per rilanciare i veterani o chi sa bene come costruire un contendente al titolo. Molti fanno promesse che non sono in grado di mantenere. Altri sono bravissimi a portare gli atleti in UFC, altri ancora a strappare le borse migliori una volta nell’organizzazione. Tanti invece hanno esperienza nella negoziazione di contratti di sponsorizzazione ma non sanno contrattare per gli incontri. Insomma, è difficile trovare un manager competente in ogni aspetto del suo lavoro che è molto complesso. Un fighter UFC ha dichiarato a The Athletic: “Ci sono diversi manager che sono bravi a fare cose differenti, non ne esiste uno capace di gestire tutto. Il migliore? Dipende dalla fase della carriera in cui ti trovi e i risultati che stai cercando di raggiungere”.
Anche il fatto che non sia prevista nessuna certificazione per dichiararsi manager di MMA ha finito per creare confusione, oltre che dare spazio e campo di azione a ciarlatani e soggetti improvvisati, soprattutto in passato, conosciuti come dirty manager. Brian Butler, fondatore e CEO di un management che rappresenta più di 200 atleti di MMA e che opera da 13 anni, ammette, come riporta The Athletic che “Ci sono tanti manager in questo business che hanno contribuito a diffondere una pessima reputazione del nostro lavoro”. Diversi professionisti del settore preferiscono favorire la quantità rispetto alla qualità: rappresentare tanti atleti, ma fare davvero gli interessi di pochi, oppure sacrificarne qualcuno per migliorare i rapporti con la promotion e ottenere così chance maggiormente vantaggiose per le punte di diamante del roster.
I fighter desiderano manager che abbiano davvero a cuore i loro interessi, che siano onesti e sinceri, in grado di onorare le promesse fatte, e che soprattutto lavorino abbastanza da giustificare le percentuali incassate dalle borse per gli incontri o dagli accordi di sponsorizzazione. Dan Lambert, fondatore dell’American Top Team, ha confessato a The Athletic: «Sento un sacco di combattenti che dicono: “Tutto ciò che il mio manager fa è telefonare alla promotion per dire che sì, accetta quel match, per poi chiamarmi e riferire che combatterò in una certa data. E per questo si prende il 10% della mia borsa”».
Considerando l’altro lato della medaglia, occorre ricordare che il rapporto atleta-manager non è semplice. I fighter sono persone particolari con cui avere a che fare, con i loro caratteri, personalità, pretese e necessità, a volte sopra le righe, difficili da gestire. Viceversa cercano una buona reputazione, intenzioni chiare e trasparenti, competenze e risultati nei manager che scelgono. Diversi addetti ai lavori definiscono la relazione tra un manager e il loro assistito come un vero e proprio matrimonio, in cui vi sono impegni reciproci, una comunità di intenti e un rapporto che dovrebbe superare momenti critici e di divisione per un legame destinato a durare una carriera intera.
Abbiamo sottoposto la questione ad Alex Dandi, CEO, Founder e Owner di Italian Top Fighters Management, oltre che ex consulente di UFC, telecronista per DAZN e promoter di Italian Cage Fighting, che organizza incontri di MMA nel nostro Paese.
Da addetto ai lavori pensi che le fonti citate in questo articolo fotografino una situazione realistica inerente al lavoro dei manager e del loro rapporto con gli atleti?
Credi che una regolamentazione del settore (dal rilascio di patentini fino a un organo di controllo) possa migliorarlo?
Mi viene in mente lo strano modo in cui sono stati trattati i nostri connazionali Danilo Belluardo e Carlo Pedersoli Jr in UFC.
Inoltre UFC ha un budget entro cui deve mantenersi, per cui se firma un atleta in più rispetto alla cifra prevista, deve tagliarne un altro. Da contratto UFC deve proporre a ogni fighter tre incontri all’anno, che l’atleta può valutare se accettare o meno, altrimenti come penale deve comunque pagare la borsa dei match che non gli ha sottoposto. I fighter che in UFC si lamentano di guadagnare poco evidentemente hanno rifiutato diversi avversari, magari perché infortunati, oppure per ignoranza, perché non conoscono questa regola.
Interessante. Ma cosa pensi sia accaduto con i due atleti italiani?
Anche perché i professionisti che assistono ottanta-cento atleti credo abbiano un altro modello di business, improntato alla quantità più che alla qualità, e meno attento a fare gli interessi del singolo fighter, se non abbastanza remunerativo.
Chiaro, continua.
Questo per dire: perché tagliare subito Belluardo o Pedersoli? Non erano fighter dal contratto economicamente pesante per UFC. Nell’organizzazione erano delusi dalle loro prestazioni (Belluardo ha perso entrambi i match disputati nella promotion, Pedersoli ha vinto il primo ma perso gli altri due, nda)? Ma UFC dà molte occasioni di rifarsi a diversi atleti, guarda anche il mio assistito Alen Amedovski (che ha due sconfitte su due incontri in UFC, nda).
E allora cosa può essere stato?
Abbiamo contattato Jason House, CEO e Founder di Iridium Sports Agency, la società che gestiva gli interessi di Danilo Belluardo quando era in UFC, chiedendogli un commento sulla vicenda. House ha letto il nostro messaggio ma ha preferito non rispondere.
Nel sondaggio di The Athletic emerge come i fighter si lamentino dell’operato dei propri manager. Ma proviamo a cambiare prospettiva: è così semplice per un professionista avere a che fare e rapportarsi con questa tipologia di sportivi?
Quindi i combattenti sono davvero le vittime del sistema?