La nona edizione della coppa del mondo di rugby femminile, partita sabato 8 ottobre in Nuova Zelanda con il primo turno dei tre gironi di qualificazione, è un momento di passaggio cruciale per un movimento che sta compiendo una transizione quasi obbligata verso il professionismo.
Il divario esistente oggi fra l’Inghilterra e il resto del mondo è già infatti molto ampio e aggiungere ulteriore distanza rischierebbe di minare la competitività di un settore rugbistico che sta crescendo in maniera esponenziale per quanto riguarda atlete tesserate, numero di club, appassionati, copertura mediatica e sponsorizzazioni. L’accelerazione inglese, testimoniata anche dalla vittoria schiacciasassi, 84 a 19, contro le Fiji nel primo match di Coppa del Mondo, ha in un certo senso obbligato gran parte delle federazioni a lavorare sul fronte dei contratti. Questo significa che quasi tutte le squadre Nazionali, comprese le riluttanti Irlanda, Scozia, Galles e Italia, hanno deciso di inquadrare le loro atlete di interesse internazionale nell’ambito di accordi strutturati.
Si tratta ancora di un lavoro tutto in divenire, ma che costituisce la base per compiere un salto definitivo verso una diffusione sempre più capillare del rugby femminile. La BBC, il servizio radiotelevisivo pubblico britannico, già dalla scorsa stagione ha scelto di trasmettere sulla sua piattaforma streaming, BBCiPlayer, le partite del campionato nazionale di rugby femminile, con risultati da oltre 600.000 spettatori ad evento. Anche la scelta di non sovrapporre i Sei Nazioni maschile e femminile, con le donne che giocano in una finestra a parte, è un’indicazione chiara di come si voglia spingere l’acceleratore al massimo sul fronte degli sponsor e della copertura live delle partite. L’obiettivo, insomma, è quello di avvicinarsi al modello Inghilterra, che secondo le statistiche rilasciate la scorsa primavera da RFU, la federazione rugbistica inglese, può contare oggi su quarantamila giocatrici, distribuite fra quattrocento club su tutto il territorio. Anche da questo nasce il dominio assoluto delle “Red Roses“, che sono arrivate alla Coppa del Mondo con un ruolino di 25 vittorie consecutive: l’ultima sconfitta ufficiale, risalente al 2019, è un 18-17 contro la Francia. Avere l’opportunità di allenarsi a tempo pieno, di recuperare dopo le partite, di poter contare su strutture tecniche e logistiche di primo livello, fa inevitabilmente la differenza e il gap con le “Black Ferns“, la Nuova Zelanda femminile, per anni la squadra più talentuosa del pianeta, è stato oggi colmato dalle inglesi grazie al lavoro sul campo.
Un professionismo più equilibrato fra tutte le nazionali top tier, con un numero sempre più alto di test match, permetterà di assistere a un Mondiale molto competitivo fra tre anni, mentre per l’edizione 2021 (posticipata al 2022), che si chiuderà il 12 novembre con la finale di Auckland, tutti i favori del pronostico sono per la squadra inglese. Resta, comunque, l’interesse per una competizione nella quale si andranno a misurare i miglioramenti di squadre che continuano a stupire per la loro progressione costante, come ad esempio quella italiana, qualificatasi con un pass diretto fra le tante difficoltà organizzative legate al Covid-19 e oggi quinta nel Ranking mondiale, dietro a Inghilterra, Nuova Zelanda, Canada e Francia.
Le azzurre sono partite alla grande, con una vittoria per 22 a 10 contro gli Stati Uniti, squadra ostica e che sulla carta si adatta molto poco alle caratteristiche tecniche delle ragazze italiane. Gli obiettivi per il torneo, così come in generale il futuro dell’Italia femminile del rugby, si fanno adesso molto ambiziosi. Ne ho parlato con Andrea Di Giandomenico, una lunga carriera da mediano d’apertura fra L’Aquila e Reggio Emilia, allenatore della nazionale italiana femminile di rugby dal 2009.
Siamo stati inseriti in un girone che tanti considerano alla nostra portata, ma che, oltre al Giappone, ci mette di fronte a due squadre, Stati Uniti e Canada, per noi molto fastidiose, viste le loro caratteristiche fisiche. Gli Stati Uniti, al termine di una partita molto dura e interpretata benissimo sul fronte delle scelte di gioco, sono stati battuti, e andiamo adesso ad affrontare il Canada, che ha battuto le giapponesi per 41 a 5 nel suo incontro d’esordio, con la convinzione di potercela giocare: qual è la condizione tecnica e mentale della nostra squadra e cosa bisogna aspettarsi dal nostro girone di Coppa del Mondo?
Facevi riferimento alle differenti caratteristiche tecniche delle nostre avversarie. La nostra è una Nazionale che a volte ha qualche difficoltà nelle scelte al piede, ma che nelle ultime partite ha dimostrato di aver acquisito maturità nella gestione del possesso: quali saranno le chiavi tecniche della competizione per la nostra squadra?
Nel primo turno tutti i pronostici sono stati rispettati. L’Inghilterra ha rifilato 84 punti alle malcapitate Isole Fiji, la Nuova Zelanda si è imposta in scioltezza contro l’Australia, la Francia ha sconfitto per 40 a 5 un Sudafrica apparso comunque in crescita, il Galles si è imposto di misura sulla Scozia. Dopo aver visto le prime partite, quali sono gli obiettivi della nazionale femminile italiana di rugby in Nuova Zelanda?
Dopo la fase a gironi, su dodici squadre partecipanti ne vanno via appena quattro, non tantissime. L’obiettivo minimo, per noi, è sicuramente quello di arrivare ai quarti. Gestire un girone in maniera positiva può portarci a un quarto di finale contro una squadra alla nostra portata, anche perché, secondo me, tolte una o due squadre, tutti gli incroci possibili che possono capitarci possiamo andare a giocarceli, non sono scontati. Quindi mi viene quasi da dire o tutto o niente: la possibilità di andare fino in fondo, che vuol dire semifinali, ce la giochiamo. Vogliamo dare il massimo, provare a insistere nel nostro percorso di crescita progressiva, anche in rapporto alla storia di questa squadra. Io sono qui da quattordici stagioni, ho fatto tredici Sei Nazioni, questo sarà il mio secondo Mondiale, quindi mi permetto di poter raccontare una storia lunga, dove ho visto crescere un grande gruppo di atlete che ha creduto e lavorato nello sviluppo di un’idea di gioco, che ha raggiunto risultati straordinari per un movimento come il nostro, pur non vincendo nulla. Allora è corretto, per la storia di questa squadra, puntare al massimo risultato possibile, è giusto per le ragazze, per la federazione e per tutto il lavoro fatto dai club: ci meritiamo il massimo, quale sarà questo massimo lo vedremo nelle prossime settimane.
Utilizzi molto, giustamente, parole come “lavoro”, “percorso”, “crescita”, perché è evidente che quanto fatto con la Nazionale femminile di rugby in Italia in questi anni sia davvero importante. Ci sono ancora margini per continuare in questa progressione e quanto ha pesato, per un movimento come quello italiano, l’incertezza dei due anni di pandemia?
Il 2022 è stato difficile per noi sul fronte delle prestazioni, abbiamo fatto un Sei Nazioni poco brillante rispetto a quelle che sono le nostre potenzialità. Gli ultimi due anni in generale, per il nostro gruppo, sono stati duri: rinvii, cancellazioni, ora si gioca, ora non si gioca, carica energia, togli energia, eppure, nonostante questo, ci siamo qualificate direttamente al Mondiale, un risultato sportivo notevole. Ma dal punto di vista mentale è stato usurante, soprattutto bisogna considerare che durante la pandemia le nostre atlete non hanno avuto un grande supporto da parte dei club, come invece, ad esempio, i loro colleghi maschi di Benetton e Zebre, o come l’Accademia Nazionale della FIR. Parliamo di ragazze che hanno continuato a lavorare, a doversi occupare della gestione familiare e poi chiamate a fornire prestazioni internazionali per garantire la partecipazione dell’Italia al Mondiale. Se solo adesso stiamo tornando a esprimerci ai nostri livelli, quindi, è anche perché gli ultimi due anni sono stati davvero logoranti e non solo a livello fisico.
Il lavoro quotidiano per un’atleta è fondamentale, ma, come dicevo prima, ci sono degli investimenti che si stanno facendo: nascerà l’anno prossimo un campionato di Eccellenza femminile in Italia per dare maggiore competitività all’interno delle singole partite, ci sono delle riflessioni in atto sulle categorie giovanili, legato anche al traino internazionale, per riuscire a costruire dal basso. E poi ci sono però i numeri con i quali bisogna confrontarsi, in una situazione in cui, in generale, in tutti gli sport calano i praticanti. In un contesto demografico che vede scendere drasticamente il numero di giovani, la sfida è gigantesca. Aumentare il bacino di giocatrici è prioritario, per ora siamo un po’ dietro nazioni come Inghilterra e Francia. Bisogna lavorare sul medio-lungo termine: costruire una cultura, un’educazione al rugby, richiede tempo, pazienza, ma poi permette di raccogliere.
Secondo i dati federali, aggiornati al periodo precedente la pandemia, il rugby femminile in Italia può contare complessivamente su circa novemila giocatrici tesserate, fra giovanili e seniores. In Inghilterra le giocatrici sono quarantamila, in Francia venticinquemila. Già il solo fatto di riuscire a competere ad alti livelli, nonostante questo divario, è straordinario, ma come possiamo incrementare il numero di giocatrici in Italia? Guardando ai club, alle atlete convocate, si nota poi, come per la squadra maschile peraltro, che il rugby sia uno sport in Italia praticamente confinato ad alcune zone specifiche del Centro-Nord, mentre è praticamente inesistente al Sud: in che modo si può invertire, se si può invertire, questa tendenza?
Foto di Brett Phibbs/IPA
Il professionismo, in questo senso, può dare una mano o rischia piuttosto, come visto in parte nel rugby maschile, di snaturare un po’ l’anima tecnica di questo sport, senza peraltro riuscire a produrre una reale omogeneità, in termini di crescita, fra i vari movimenti e le varie nazioni?
Il rugby femminile ha avuto un’accelerazione incredibile negli ultimi cinque anni, è il settore rugbistico che porta più incremento, un area strategica, inesplorata e quindi piena di opportunità. La mia paura, un rischio percepito, è che questa accelerazione lascerà qualcuno indietro. All’estero, in Inghilterra, in Francia, in Scozia, spesso una giocatrice di interesse nazionale trova impiego nei corpi militari, nella scuola, nei club professionistici. In questi casi diventa chiaro che non è il contratto a fare la differenza, quanto il contesto, la prospettiva. Hai la possibilità di lavorare, di sviluppare, di pensare a una carriera. Per crescere come movimento dobbiamo pensare a come poter restituire alle ragazze quello che hanno fatto e fanno sul campo in termini di possibilità per il loro futuro, sia mentre giocano che una volta che si ritireranno dall’attività agonistica: quando si parla di professionismo per me si parla solo di questo. Il rugby femminile arriverà ad avere gli stessi introiti del rugby maschile grazie a sponsor, diritti tv, investimenti? Me lo auguro, ma ad oggi non lo vedo, non in Italia. All’estero chi ce la sta davvero facendo? L’Inghilterra. Quindi a un certo punto l’Inghilterra giocherà da sola contro se stessa? Oppure, magari, tutte le atlete giocheranno solo in Inghilterra. Già in parte succede: scozzesi, gallesi, statunitensi, canadesi, giocano quasi tutte lì. E allora cosa facciamo? Creiamo una selezione di atlete italiane che competa in quel campionato, come abbiamo fatto nel rugby maschile italiano con le franchigie? Sì, si può fare, ma sono proiezioni di sviluppo che ricalcano modelli già utilizzati nel rugby maschile. Riflettiamo: qualche errore è stato fatto nel rugby maschile italiano in questo senso? Forse sì, ma sul femminile possiamo intervenire, possiamo evitare di ripetere quanto fatto di sbagliato in passato. Non ho risposte, sono riflessioni, la strada di sviluppo ormai è segnata: tanti investimenti, un mercato sempre più vasto, ma bisogna essere prudenti e pensare prima di tutto al futuro delle giocatrici, perché il movimento non può crescere sulle loro spalle senza ripagarle sul lungo periodo. World Rugby, in un contesto di pandemia, ha preferito cancellare il Mondiale Under 20 maschile, che è fondamentale per lo sviluppo dei giovani giocatori, mentre ha fatto di tutto, riuscendoci, per far giocare quello femminile, nonostante la crisi economica di World Rugby stesso. I messaggi sui settori di investimento sono insomma chiari, noi abbiamo lavorato bene in questi anni, ma la sfida, ora, è di strutturare ancora più in profondità il movimento.
Parlando di futuro del rugby è inevitabile fare un passaggio sulla sicurezza. Il professionismo, infatti, ha contribuito a formare atleti e atlete sempre più performanti, con lo sviluppo di un gioco più spettacolare ma, contemporaneamente, anche impatti via via più devastanti. Gli episodi di concussion sono ormai molto frequenti e c’è la sensazione che, nonostante il tentativo di fare più attenzione alla sicurezza e di essere più duri con le sanzioni per le azioni di gioco pericolose, sia difficile poter effettivamente controllare gli effetti sul medio e lungo periodo dei contatti.
Dal punto di vista tecnico il rugby femminile ha in questo senso ancora molto spazio da sfruttare in termini di creatività, mentre sulla sicurezza vive le medesime problematiche del rugby maschile. C’è grande attenzione ai falli, un utilizzo sempre più costante del TMO e una serie di polemiche, inevitabili, relative allo snaturamento del gioco, che ha perso anche un po’ di fluidità. Adesso addirittura, per evitare le polemiche sul fatto che i portatori d’acqua, a volte, danno delle istruzioni tecniche ai giocatori e alle giocatrici, in teoria producendo un vantaggio, si sono introdotti i water-break, ed è possibile bere solo in quei momenti. Adesso, pensa, per un caso di indicazioni tecniche comunicate da un portatore d’acqua, metti a rischio gli atleti e le atlete, che dovrebbero potersi idratare costantemente in uno sport come il rugby, e inoltre interrompi un flusso di gioco, svantaggiando e avvantaggiando una delle due squadre in campo. Bisogna tornare a vivere il rugby in maniera più sincera, tenendo ben chiaro che, per quanto riguarda gli impatti fisici, siamo ormai a una svolta e bisognerà prendere al più presto delle decisioni definitive. Sia chiaro, io non sono contrario all’utilizzo del TMO o alla grande attenzione nel controllo dei contatti: sono strumenti e approcci fondamentali e andrebbero utilizzati, forse, ancora di più. Dico un’altra cosa, ancora più forte forse in questo senso, e cioè che purtroppo non bastano e non risolvono la questione della sicurezza. Gli scontri, le concussion, non avvengono, per dire, solo in partita, ma anche negli allentamenti e in tante fasi di gioco impossibili da valutare per arbitro e TMO. Allora un certo tipo di approccio diventa principalmente deterrente, quasi un avvertimento orwelliano, un voler “spaventare” i giocatori con il controllo ossessivo delle loro azioni in campo, ma senza produrre risultati effettivi in termini di sicurezza.
Dobbiamo fare molto di più.