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Cosa abbiamo imparato
30 giu 2014
30 giu 2014
L'Italia di Prandelli voleva insegnarci una nuova cultura calcistica. Dopo l'eliminazione dal Mondiale, cinque nostri collaboratori ci dicono la loro su cosa, alla fine dei conti, ci ha insegnato.
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Non ho letto nessun retroscena. Non ne ho voluto leggere nessuno. E non sentivo nemmeno il bisogno di un così ricco parterre di commentatori beninformati che non si è fermato nemmeno quando a raccontare il ritorno in aereo hanno contribuito anche quelli che sull'aereo non c'erano. Mi erano già bastati gli atteggiamenti da bulli di quanti hanno sbagliato tempi e modi di parlare allo spogliatoio e dello spogliatoio. La domanda: perché l'Italia è fuori? Perché è giusto, ecco la risposta. Tecnicamente non ha senso che sia tra le prime sedici del mondo una squadra che tira in porta una sola partita su tre. Politicamente non ha senso che vada avanti un movimento che non si regge, sgangherato, fallito. Infatti ho riso molto quando il giorno dopo l'eliminazione i commenti scoprivano che l'eliminazione stessa era il segno del crollo di un sistema sbagliato, che dunque se si fosse passato il turno sarebbe stato ancora un sistema esatto. Toppe, si chiamano. Ma almeno per una volta è meglio vedere il buco, sbagliare tutto, finire male: così ci guardiamo e capiamo.

 

Ha sbagliato Prandelli. Più che altro è stato terminale degli errori di tutti. Ha sbagliato a sentire la pressione, a cedere all'opinione pubblica. Ha avuto un'idea poco prima del Mondiale, con quell'idea ha vinto e doveva continuare, anche giocando ancora con Paletta (per esempio), mostrando di crederci, spiazzando teorie e antipatie. Però Prandelli sapeva che c'era un pezzo d'Italia che aspettava l'errore di Balotelli o che non chiedeva altro che un'espulsione di Chiellini, sentiva che i pezzi sui processi per Mario erano nel cassetto e poi la partigianeria tifosa stava facendo tutto il resto, quindi gli juventini volevano il blocco bianconero e tutti gli altri volevano che questo blocco inciampasse per potersi esercitare nello sport in cui siamo pieni di campioni, quello de «l'avevo detto io». L'ultima formazione è una chiara concessione ai giornali, alle pressioni, alle paure: accerchiato (va detto), Prandelli è diventato pavido e si è fatto dettare le scelte. Prima con la Costa Rica, perché Insigne e Cassano dentro in modo così scriteriato (si mettono quattro attaccanti insieme se sanno cosa fare, non per fare la somma), poi con il 3-5-2 contro l'Uruguay, perché Immobile doveva diventare il nuovo Paolo Rossi, il nuovo Schillaci, perché non riusciamo a sganciarci dall'immagine di qualche Mondiale felice e ogni volta cerchiamo i sosia almeno per ricamarci la storia. Poi Insigne, Immobile e Cassano non hanno aggiunto nulla se non un po' di confusione (soprattutto con Immobile insieme con Balotelli: un inutile schieramento di doppioni, capaci di elidersi invece che aiutarsi) ma tanto il colpevole c'era già.

 

Prandelli sbaglia perché gli manca il carattere, ma dobbiamo anche essere in grado di dire che dietro lui c'era il vuoto. Di giocatori (certo, ora spunterà l'elenco con Giuseppe Rossi, Destro, Ranocchia...) perché è sembrata una Nazionale tanto posticcia, con molto centrocampo un po' d'attacco e poca difesa, da non essere schierabile (se non con i rischi della prima partita, ed ecco perché andavano corsi fino in fondo). Ma anche di dirigenti, perché il pallone italiano non ha gente credibile al suo governo, ha uomini deboli e incapaci. Senza un progetto, nessuno può essere allenatore fino in fondo: deve inventare, deve tamponare. E non può commettere errori altrimenti non ha chi lo protegge. Il Codice Etico ne è una prova: l'idea in sé è una solenne stronzata, e se è vero che non c'è alcun giocatore che non è arrivato in Brasile per aver infranto le regole di metagalanteria create non si capisce perché, è vero anche che questo nel lungo pre-mondiale ha generato confusione di cui non si avvertiva il bisogno.
Forse per questo Prandelli non doveva dimettersi (ma gli va dato atto di aver preso una decisione difficile): perché erano i dirigenti federali a doverlo fare e per fortuna lo hanno fatto. Ho orrore della parola che sto per dire (più che altro per l'abusato utilizzo), ma il calcio italiano del post Abete ha bisogno di un rottamatore: uno che rompa schemi, che tolga privilegi, che sia capace di programmare. Che si prenda quattro anni per arrivare fino a un altro Mondiale evitando nuove figuracce (ché questa è già la seconda volta che non superiamo il girone) e compiendo delle scelte: dando ai giovani la possibilità di crescere, lanciando magari i talenti che le società ignorano, sperimentando, non avendo la preoccupazione di dover stare in equilibrio tra i potenti. Soprattutto ormai scegliendo se tenersi i vecchi o ridurre i nuovi ingressi, visto che i clan si sono formati in Brasile. Quattro anni, un allenatore spendibile e una nuova immagine del pallone che sia anche una risposta alla retorica cretina (di cui questi giorni sono pieni) dei “miliardari” che non vincono. Perché i giocatori dell'Inghilterra (ne dico una a caso) non pare vivano di stenti. E invece l'approccio è diverso, dunque anche le conclusioni, le critiche, l'accettazione della sconfitta. Ecco, forse tutto dipende dall'approccio.

 



Da quando sono stato invitato a partecipare a questa espiazione di gruppo sto riflettendo su quale debba essere la mia posizione (

). Su alcune questioni cambio idea ogni due ore (

), su altre credo di aver sedimentato un parere al netto delle correnti d’opinione (

). Mi succede spesso di cambiare opinione su quello che credo di aver visto succedere in campo, suppongo che sia dovuto in parte al fatto che non sono bravo a leggere tatticamente le partite, e in parte al fatto che non sono un talebano, e se sento uno che dice una cosa più intelligente di quella che pensavo riesco a farla mia. Succede soprattutto quando la Roma gioca in casa e

la partita prima dal vivo e poi a casa in tv, dove a volte cambio completamente opinione sulla prestazione di un singolo giocatore. Anni fa me ne dispiacevo, poi ho iniziato a confrontare le pagelle dei vari quotidiani e ho accettato serenamente che ognuno vede la sua partita. Nel caso di Italia-Uruguay, a quanto pare, io stesso ho visto più partite, con visioni e pareri a rilascio lento e prolungato che a volte si reggono a vicenda, altre si contraddicono inesorabilmente. La cosa più onesta che posso fare è mettere una dietro l’altra le idee che ho cambiato nelle ultime 48 ore.
Non è vero: la cosa più onesta che posso fare è dire che mi è molto dispiaciuto che l’Italia non abbia passato il girone. È stata una sorpresa. Non me l’aspettavo quest’amarezza, in età adulta (

) non mi è mai capitato di dispiacermi così tanto per la Nazionale. Ma per questo ho una spiegazione che poi è anche il contesto che dà luogo alla mia prima opinione sulla partita, cioè:

 


Ho guardato la partita in una situazione inusuale. Per la prima volta in vita mia ho fatto la cronaca della partita, dal vivo insieme ai miei compari di radio, in un teatro con duecento persone che avevano voglia di vedere l’Italia ma non di sentire Caressa. Fare questa cosa è stato molto divertente, per noi e per chi ci stava a sentire. Dopo tre partite, questa atmosfera piacevole ha generato un tipo di aspettativa supplementare rispetto al “Bella-la-Nazionale-che-ci-unisce-tutti-ogni-4-anni” nei confronti del risultato finale. Volevamo tutti che l’Italia andasse avanti per continuare a fare queste serate. L’ebbrezza da bolgia festante ci ha reso tifosi, e il tifoso, mentre perde la partita che deve vincere, non è obiettivo. Data questa situazione, considerato quello che è successo in campo, a fine partita il giudizio della Curva Teatro è univoco: un nuovo Byron Moreno ha interrotto i nostri sogni. Poco dopo, Prandelli si dimette. Siamo ancora tutti lì, ne cominciamo a parlare, dopo 20 minuti è chiaro a tutti che

 


Cassano, ma perché Cassano. L’hai persa lì, metti uno di corsa e fai un contropiede. Giusto. No, serve uno coi piedi buoni che tenga palla per far risalire la squadra. Ma Cerci! L’unico che salta l’uomo l’hai fatto giocare 20 minuti in tutto il Mondiale. Rossi, serviva Rossi, su 23 un rischio te lo puoi prendere, per la terza sarebbe stato in forma. Con Rossi oggi uno lo facevi. Ma se uno ha qualche speranza di poter mettere dentro Rossi ai Mondiali non se lo porta? Non è così scemo dai. No scemo no, però forse pavido? Incoerente. Squadra senza identità. Thiago Motta? Thiago Motta. Intanto mentre disprezzo Prandelli e il codice etico e il suo renzismo sbandierato mi dirigo verso l’ospedale San Giovanni, dove Ale deve partorire, deve nascere Viola. Ale finiva il tempo il 14 giugno, e io prendevo in giro Ugo perché si sarebbe perso Italia-Inghilterra. È andata che siamo già usciti dai Mondiali e Viola ancora sta lì dentro. Ugo non ha visto il secondo tempo: dice che stava guardano la partita in corridoio con un altro quasipapà e a fine primo tempo quello se n’è andato e s’è portato via il tablet. Ma che modo è. È tornato dopo mezzora che era papà. Ugo, che sta lì da ore e ci starà ancora chissà quanto, l’ha odiato doppiamente. Mentre fumiamo nel piazzale deserto dell’ospedale leggiamo le dichiarazioni di Buffon e De Rossi, le commentiamo, e presto ci rendiamo conto che inequivocabilmente

 


È sopravvalutato. L’abbiamo sopravvalutato. Anzi, l’hanno sopravvalutato e ci siamo cascati tutti perché abbiamo bisogno di ascoltare ogni giorno una storia, e lui è la più grande macchina da storie del calcio italiano. Storie di automobili e multe e fidanzate e figlie e nuove fidanzate e future mogli e incendi e litigi e diamanti e capricci. Parliamo sempre di lui. Poi va in campo e bisogna continuare a raccontare storie: se segna contro l’Inghilterra è il più forte, se si mangia il gol con la Costa Rica deve sparire, se sparisce contro l’Uruguay non doveva neanche essere convocato. Non è un campione, ormai non lo sarà, non come Ronaldo o Ibra, quel treno è passato, e non sapremo mai con certezza se aveva il biglietto e l’ha buttato o se quel biglietto glielo abbiamo messo in tasca noi a forza ma era solo un pezzo di carta senza destinazione. Però poteva bastare anche meno di Ronaldo o Ibra, poteva bastare sbattersi di più, creare meno problemi, fare gruppo, allenarsi meglio, essere più serio. Ma tutto questo per tutti noi sarebbe

un problema se non fosse nero?
Sto facendo pensieri razzisti? Ad Ale si saranno almeno rotte le acque? Mando un messaggio a Ugo, non mi risponde. Forse è un buon segno. Guardo in tv le prime pagine di domani, è tutta una metafora del Paese, tutta una caccia all’untore che non sarebbe esistita se lo 0-0 avesse retto per altri 10 minuti. Mi immagino titoli e occhielli se il pallone dalla spalla di Godín avesse preso una traiettoria meno fortunata.

 Ripenso a Balotelli. Non lo sopporto. Vado a letto con il timore di essere un po’ razzista ma senza sapere bene il perché, il che mi spaventa ancora di più, quindi, supportato dalle prime pagine, per prendere sonno mi convinco che

 


Federazione, Lega, Aic, altre associazioni delle quali non ricordo neanche il nome perché è tardi e sono stanco. È un sistema marcio di convenienze che si reggono a vicenda: ma che cosa può partorire di buono tutto questo? Ok, ma anche nel 2006 era così, anzi anche peggio. Sì ma nel 2006 avevi i campioni, ora ne hai due o tre al massimo. Allora forse è questo: siamo semplicemente deboli, una Nazionale mediocre, ma ci siamo raccontati un’altra storia, nella quale eravamo forti, e per reggere questa storia avevamo bisogno della Storia di Balotelli. Se l’arbitro non avesse cacciato Marchisio, se Prandelli fosse stato più lucido, se Balotelli fosse stato più cinico, se avessimo fatto una preparazione migliore e un ritiro più adeguato, probabilmente avremmo passato il turno, e poi altrettanto probabilmente saremmo usciti contro una squadra meno grigia della nostra. Mi addormento cercando di capire a chi darò la colpa domani. Mi sveglio dopo poche ore, guardo il telefono. Whatsapp mi dice che è nata Viola, Twitter che è morto Ciro Esposito. Per un po’ non penso all’arbitro, a Prandelli, a Balotelli, alla squadra mediocre. Poi ricomincio, ma un po’ meno.

 



Martedì ho seguito la partita che ha decretato la fine dei Mondiali per l’Italia in un teatro vicino alla basilica di San Giovanni, a due passi-ma-due-sul-serio dai casottini dal bric à brac di Via Sannio. Avevo una certa manciata di positività (l’ottimismo di chi è consapevole che sei su dieci la sfanga, un ottimismo nondimeno spocchioso perché si ostina a non considerare i rimanenti quattro punti opportunità, se non a dieci minuti dal termine), e in mano un microfono, con la pretesa di raccontare—nel mezzo della telecronaca—storie di vapore che, a contatto col gelo della tensione, si sono invece fatte blocchi granitici di ghiaccio, e di sciogliersi non ne hanno voluto sapere. Quella contro l’Uruguay non è stata una bella partita, non è stata una dimostrazione di coerenza da parte di Prandelli, non ci ho visto (ma non mi aspettavo di riscontrarlo) neppure una pagliuzza di quell’orgoglio, di quel proverbiale senso di rivalsa italico per il quale—a dar retta alla stampa, ai cronisti epici e al cittadino medio—sembreremmo essere famosi.
Non ho avuto troppo modo—non l’ho voluto avere, suppongo—subito dopo la fine della partita di capire cosa stesse succedendo, chi stesse gettando la spugna e chi sputando veleni; avevo un’idea, ma insomma m’importava il giusto. Ho pure imboccato la Cristoforo Colombo nel senso contrario a quello che mi avrebbe dovuto riportare a casa. Sono arrivato passata la mezzanotte.
L’indomani sono andato dal parrucchiere. Il mio parrucchiere non lo so come si chiama. Però la prima volta che ci son stato c’era una mia foto sul giornale che aveva vicino ai divanetti, credo fosse uscito da poco qualche mio libro, mi ha riconosciuto e da allora ogni tanto quando sono sulla sua poltrona mi guarda allo specchio e mi fa “a capocciò, ‘ndo te li metterai tutti sti libri”, e mi stringe con le mani la testa. È una scena che mi imbarazza sempre molto, fortuna che è quasi sempre vuota, la bottega del mio parrucchiere, e al contempo mi inorgoglisce: forse è per questo che non l’ho ancora cambiato.

 

Andare dal parrucchiere il giorno dopo l’eliminazione dell’Italia da un Mondiale, così come entrare in un bar affollato di clienti abituali, meglio se ultrasessantenni, e non è una questione di cliché, è un’occupazione meravigliosamente dada, impregnata dell’entusiasmo di compartecipare i sentimenti che fuoriescono dalla pancia del popolo, e però un entusiasmo idiota, almeno quanto quella che muoveva i gruppi che prenotavano le vacanze al Giglio per scattarsi le foto con il relitto della Concordia adagiato su un fianco.
Per mezz’ora il mio parrucchiere ha ammiccato all’evanescente inconcludenza di Cassano chiamandolo ripetutamente

; ha immancabilmente usato l’aggettivo

al fianco di Balotelli e tirato in causa appartenenza, identità, razza. Ho pensato che con molta probabilità il mio parrucchiere aveva condiviso su Facebook a caldo qualche foto infamante—tipo il morso di Suarez sulla spalla di Chiellini—, scritto uno status lapidario su Prandelli e/o Balotelli; magari era andato anche a commentare la foto del centravanti del Liverpool con i suoi figli appiccicandoci qualche nefandezza immotivata.
Le sconfitte di una squadra di calcio non sono mai, non possono esserlo, le sconfitte di uno Stato; però possono esserlo del suo popolo. La massima di Churchill, quella famosa, non è che ci vada poi più così a pennello: ci si sono ristrette le spalle, o forse ci siamo smagriti, e ora a indossarla diamo l’impressione di star indossando una giacca vecchia, demodé, appariamo sciatti.
In compenso, questo sì, abbiamo imparato a forgiarci universali, e a covare nelle budella, tutto nello stesso posto, un kit di pronto-intervento-dell’odio: lo scarico delle responsabilità, la divisa per il gioco del rimpiattino, i proclami fastosi prima e la delusione rabbiosa-quasi-riottosa dopo. Abbiamo imparato come caricare l’arco e scoccare i dardi, mica si può pretendere pure che impariamo a riconoscere la preda: per questo nel mirino possono finire, indiscriminatamente, il vicino di casa e il collega, il politico e l’amministratore della cosa pubblica, il calciatore e l’allenatore.
Il management della delusione calcistica italiana è una metafora così cristallina e perfettamente calzante, e poi anche scontata e banale, di come ci siamo abituati a gestire il livore

che quasi ti viene da provare vergogna, a riconoscerlo, a ribadirlo.
E comunque, poi, pensavo: anche quando siamo usciti dal girone in Sudafrica, nel 2010, perdendo contro la Slovacchia, ecco, anche quel giorno là era un 24 di Giugno.
Ci siam dimenticati di prendercela

col calendario.

 




Le cose succedono per un milione di ragioni diverse. Un milione. Tutte le cose, non solo quelle che riguardano il calcio: ma anche quelle che riguardano il calcio. Cosa succede nel 2006 se l'arbitro non dà il rigore contro l'Australia? Diventiamo lo stesso campioni del mondo o usciamo rovinosamente agli ottavi permettendo la pubblicazione di centinaia di editoriali cotti e mangiati? Cosa succede se Balotelli fa gol con quel pallonetto contro il Costa Rica? Cosa succede se il colpo di testa di Bryan Ruiz rimbalza pochi centimetri fuori invece che pochi centimetri dentro alla porta dell'Italia? Cosa succede se l'arbitro ammonisce Marchisio ed espelle Suárez? Situazioni di gioco identiche tra loro possono produrre effetti molto diversi e cambiare il corso della storia.
Non so se mi dico queste cose per assolvermi: prima dell'inizio del torneo avrei scommesso sull'arrivo dell'Italia almeno ai Quarti di finale e avrei potuto argomentare a lungo la previsione. Sono consapevole del rischio di quest'approccio: se le cose succedono per un milione di ragioni diverse, inafferrabili e imprevedibili, allora forse sforzarsi di capirle è tempo perso. Invece no. Il punto è coltivare il dubbio più che le certezze. Non era

 che andasse a finire così. Un articolo secondo cui il calcio in Italia è in crisi profonda, e da quindici anni si fa con pochi soldi, con pochi buoni stadi, con pochi grandi giocatori e con poco pubblico, racconta probabilmente la verità. Ma un articolo che il giorno dopo l'eliminazione racconta che l'Italia è uscita al primo turno per questa ragione forse sta giocando sporco, anche inconsapevolmente: siamo abituati a 

 purché confermando quello che pensavamo già e avremmo pensato comunque.

 

Una settimana fa avrei saputo mettere in fila le ragioni per cui ero convinto che l'Italia non avrebbe deluso. Ora dovrei mettere in fila le ragioni per cui l'Italia ha deluso? Devo scrivere che basta leggere la rosa dell'Italia ai Mondiali del 2002—non quelli del 2006: quelli del 2002—per comprendere quanto questa generazione sia lontana dalle precedenti? Devo scrivere che l'Italia dopo Panucci e Zambrotta non ha più avuto due grandi terzini? Che dopo Cannavaro e Nesta è successo lo stesso per i difensori centrali? Lo pensavo da prima eppure credevo che l'Italia sarebbe andata avanti comunque. La stessa moria degli attaccanti—nel giro di 24 mesi Prandelli ha visto sgonfiarsi o rompersi El Shaarawy, Giovinco (entrambi alla Confederations Cup solo un anno fa), Gilardino, Pazzini, Quagliarella, Rossi, Osvaldo, Di Natale, Borini—è stata ampiamente e tempestivamente raccontata e commentata. Tutti sapevamo tutto. Breaking news: in Brasile all'una fa molto caldo. Sapevamo anche questa. Non sto dicendo che tutto questo non abbia influito: sto dicendo che non ricordo molte persone dire “faremo schifo perché all'una il Brasile fa molto caldo” prima della partita contro il Costa Rica. Non era ovvio. È solo successo.

 

Il caldo ci ha fatto male ma è valso per tutti; la stagione è stata faticosa ma i calciatori italiani hanno giocato meno partite dei tedeschi; i nostri sono forse ricchi e viziati ma Cavani e Suárez da soli guadagnano quanto tutti i titolari dell'Italia messi insieme; Balotelli sarà inaffidabile ma ha giocato comunque molto meglio di Immobile; l'infortunio di Montolivo non è più pesante di quelli di Ribéry o Strootman o Falcao. La differenza è che le altre squadre non si sono sciolte. Invece che lavorare sui dettagli e limitare l'imponderabile, l'Italia ha aperto le finestre durante l'uragano: presa dal panico ha iniziato una reazione a catena di decisioni estemporanee e improvvisate, di strade tentate con fretta e immediatamente abbandonate, di reazioni deboli e riflessi istintivi. Le sette o otto formazioni cambiate nell'arco di sei partite, amichevoli preparatorie comprese; certe sostituzioni la cui logica sarebbe considerata sciatta anche in una partita di FIFA 14; il modulo della partita decisiva cambiato nell'intervallo a causa—o con la scusa—di uno scazzo nello spogliatoio. Invece che combattere il caos l'Italia se n'è fatta impossessare. Sì, certo, valorizzare-i-vivai, educare-allo-sport, costruire-gli-stadi. Facciamolo. Ma in quei trenta giorni, in quel torneo che dura al massimo appena sette partite e può finire soltanto dopo due, la cosa che serve di più è la testa. Fredda. Dell'allenatore. Non c'è stata.

 



Stamattina il

in prima pagina indicava cinque punti per far tornare competitivo il calcio italiano. Penso intendessero questo con il titolo “Rottamiamo il calcio”. Parlo del

perché è il quotidiano che prende il mio bar e mentre bevo il caffè sfoglio quello. Il quinto punto del

è: “Gli assi vadano nelle scuole per coinvolgere i ragazzi”. I quattro punti precedenti riguardavano il numero di squadre in campionato (troppe), gli stadi (vecchi), i giovani (pochi) e gli stranieri (troppi, ovviamente).
Ma quello che interessa a me è questo quinto punto. Se ci pensate un attimo non ha senso: mettiamo che la FIGC organizzasse un tour di campioni in attività o ex-campioni (Nesta, Gattuso, Cannavaro, Del Piero, Del Vecchio o chi volete voi) nelle scuole di ogni regione: in che modo il

dei giovani aiuterebbe il calcio italiano o la Nazionale?
Ci sono esempi di altre Nazioni che hanno dovuto riformare il proprio calcio e non mi pare che nessuno abbia messo tra le prime 5 cose da fare quello di un tour promozionale. Non è il solito discorso dei calciatori che devono educare i giovani, il contesto è quello di una Nazionale che ha fallito un Mondiale e un giornale che dà dei consigli per evitare che succeda di nuovo tra quattro anni. O otto, forse è più verosimile. E un tour nazionale di calciatori non ha senso. Quello che veramente ci sta dicendo il

è che uno dei quotidiani sportivi più importanti d'Italia dopo 4 consigli (e quello sugli stranieri è comunque discutibile) ha finito le idee.

 

Personalmente ho scritto più di sessantamila battute sull'Italia in questo Mondiale e mi sono esposto dicendo cose come “Prandelli ha fatto qualcosa di rivoluzionario per il calcio italiano: siamo passati da un calcio di individui eccezionali a uno di sistema”; mi sono fomentato con il “centrocampo a Y”, o “flusso canalizzatore”, che poi mi sembrava un modo divertente per riassumere “un centrocampo con due playmaker sfalsati in verticale con in più due mezzali”. Anzi il conto delle battute dedicate all'Italia di Prandelli dovrebbe partire da

. Quindi pensate quanto posso esserci rimasto male io. Per me è una questione personale. Mi sento tradito perché la sperimentazione tattica è diventata confusione e alla prima difficoltà (sotto 0-1 contro il Costa Rica a fine primo tempo) Prandelli ha improvvisato anziché credere nel lavoro fatto fin lì. E Cassano... oh, Cassano... perché Prandelli ha creduto in lui? Perché?

 

Al tempo stesso ho scritto prima che iniziasse il Mondiale che non sarebbe stato un dramma uscire in un girone come il nostro. Il clima, gli spostamenti, le avversarie. La Costa Rica secondo me è una delle migliori squadre che l'Italia abbia affrontato negli ultimi anni. Con l'Uruguay, anche se non abbiamo creato occasioni, a mio avviso meritavamo noi. E poi non ci sono in giro calciatori italiani così più forti di quelli portati da Prandelli. Il problema è più grande dell'infortunio di Montolivo o di G. Rossi, con tutto il rispetto. O del carattere infantile di Balotelli che lo sta trasformando in un giocatore mediocre. Il problema principale della Nazionale è che

.
Penso ancora adesso che non sia stato un Mondiale così vergognoso. Capita, in tre partite può succedere di tutto. Se fossimo passati, chi lo sa, magari saremmo arrivati ai Quarti, o in Semifinale, e ci saremmo comunque rimasti male. La frattura tra quello che vorremmo essere e quello che siamo veramente, però, non può essere né colpa di Prandelli né dei giocatori in campo.

 

Dato che non voglio far finta di essere migliore del contesto che mi circonda dirò che secondo me il problema principale è quello dei settori giovanili e della formazione di calciatori italiani. La cultura del risultato fin dai Pulcini o quasi, i club che non investono nel loro settore giovanile. Sono un ammiratore del modello francese: togliere la formazione dei giovani ai club e occuparsene in Centri di Formazione Nazionale. Magari è una cazzata, ma tanto sono tutte cazzate quelle che si dicono adesso, non potrebbe essere altrimenti. Il nostro ruolo nel panorama mondiale è di secondo piano, a livello di club stiamo andando incontro a un futuro in cui ci dovremo accontentare di formare giovani calciatori sapendo che verranno acquistati dai grandi club europei. E se il nostro campionato perde di importanza il “progetto Nazionale” dovrebbe diventare la priorità del calcio italiano.
Per quelli come me cresciuti negli anni novanta è impensabile una cosa del genere, tutti i non juventini faticano a tifare i giocatori juventini (tranne Barzagli) e gli juventini avranno qualche problema con, che ne so, De Rossi. Magari ci vogliono altri dieci anni di batoste in Europa prima di cominciare a pensare in maniera diversa. Forse tra qualche anno diventerà affascinante giocare contro Sturridge o Suárez in una Coppa del Mondo e saremo fieri “dei nostri ragazzi”. Magari tra qualche anno vedere Verratti in Champions League sarà bello quanto vedere Belinelli giocare pochi minuti delle Finals Nba. Io mi accontenterei se diventassimo un Paese tipo l'Olanda, anche se rischiamo di somigliare di più alla Svizzera.
Vincere una sola partita negli ultimi due Mondiali servirà ad aprirci gli occhi in maniera definitiva?
Quanti soldi ci sono per cambiare?
Quante idee (vere)?

 

Mi auguro che il discorso pubblico non combaci con quello interno del sistema calcio. Ma in un Paese in cui tutti dicono agli altri come lavorare, in cui non si fa mai una riflessione comune se non per rafforzare la propria posizione e i propri interessi contro quelli degli altri, il rischio è quello di non imparare niente dalle sconfitte. Cosa abbiamo imparato? Forse dovremmo chiedercelo tra qualche anno per poter rispondere davvero.

 

 

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