“…the women around you must be responsible
for their bodies in a way that you never will know.
You have to make your peace with the chaos,
but you cannot lie.
You cannot forget how much they took from us
and how they transfigured our very bodies
into sugar, tobacco, cotton and gold.”
Un anno fa il giornalista del mensile americano The Atlantic Ta-Nehisi Coates pubblicava il libro Between the world and me. Un’opera deflagrante che partiva dalle morti di Michael Brown a Ferguson (Missouri), con relativi scontri tra cittadini afro-americani e polizia, e Eric Garner a New York, ma che risaliva fino all’uccisione di Trayvon Martin, il dodicenne colpito dal poliziotto George Zimmerman perché in possesso di un’arma giocattolo. In realtà il pamphlet d Coates ha origine dall’assassinio di un suo amico ai tempi del college, Prince Carmen Jones, ucciso sempre da un uomo in divisa, a causa di uno scambio di identità.
Un anno dopo la “questione razziale” è materiale più che mai incandescente dall’altra parte dell’Oceano, tra assalti alle forze dell’ordine e repressione di proteste civili, senza dimenticare che a novembre gli Stati Uniti sceglieranno il nuovo presidente e dovranno decidere tra una ex attivista dei diritti umani, ma che da anni è nella stanza dei bottoni, come Hillary Rodham Clinton, e il nuovo anziano tycoon biondo, che molti definiscono fascista e razzista, Donald John Trump.
La calda estate di Ferguson.
Il presidente uscente, il primo inquilino della Casa Bianca (“costruita da schiavi neri”, come sua moglie ha ricordato sul palco della convention democratica di Philadelphia) non caucasico, Barack Hussein Obama, sembra aver clamorosamente fallito i due obiettivi che molti speravano alla sua portata: disarmare gli americani e superare lo scontro tra razze.
La tesi alla base del libro di Coates è molto semplice: la storia della razza nera e dell’America è scritta nella carne, è una storia di corpi. Corpi che ieri venivano segregati, sfruttati e torturati, e che oggi vengono ammazzati in strada, imprigionati, guardati con sospetto. Secondo Coates l’unica via sta nel difendere il proprio corpo nero.
«In America, it is traditional to destroy the black body».
La squadra più forte al mondo
Una ragazza americana di 19 anni, nata a Columbus in Ohio e cresciuta a Houston, sta riscrivendo la storia della ginnastica mondiale: tre volte campionessa del mondo nel concorso individuale (all-around), si è già messa al collo dieci ori iridati. Se dovesse conquistare tre podi ai Giochi olimpici di Rio diventerebbe la ginnasta più medagliata della storia degli Stati Uniti. Paul Ziert, su International gymnast, ha detto di lei: «Se non dovesse vincere cinque delle sei medaglie della ginnastica a Rio sarebbe una sconfitta». Si chiama Simone Biles e ha la pelle nera.
Simone è cresciuta a dieci minuti di distanza dal World Champions Center, dove si è allenata ogni giorno fino al novembre scorso quando ha inaugurato Valhalla (la sua palestra personale), nella casa dei nonni materni Nellie e Ron. Infatti quando aveva due anni venne tolta dalla custodia di sua madre, dipendente da alcol e cocaina, insieme ad altri tre fratelli. Il nonno Ron ne chiese immediatamente la custodia e dal 2003 è definitivamente il genitore adottivo, insieme alla seconda moglie Nellie, di Simone e e la sorella più piccola Adria. Gli altri due fratelli vivono con la sorella di Ron.
Biles ha iniziato con la ginnastica a sei anni, fin da subito ha mostrato una predisposizione naturale alla disciplina e così a 13 anni ha lasciato la scuola e iniziato a studiare a casa, mentre in palestra la seguivano Aimee Boorman e la decana della ginnastica, prima in Romania e poi a stelle e strisce, Martha Karolyi. Oggi commentatori ed ex campioni dello sport sono concordi nel dire che Cina, Russia e qualunque altra squadra nazionale non hanno nessuna possibilità di battere Simone e le sue compagne.
Simone.
Una forza della natura difficile da tenere a bada. «Può volare come una farfalla, ma non sa tenere il corpo in verticale», disse di Simone Martha Karolyi quando la vide per la prima volta alle parallele asimmetriche. In una gara nel 2013 fece errori grossolani al volteggio, al corpo libero e alle parallele tanto da spingere coach Boorman, racconta il New Yorker, a ritirarla dalla competizione. Tre settimane dopo Simone vinceva i Campionati americani e due mesi dopo il suo primo Mondiale.
Sono passati dodici anni dai primi salti alla Bannon Gymnastix e appena quattro da quando era troppo giovane per Londra 2012, ma oggi Biles è la naturale favorita nelle specialità della trave, del corpo libero e nel concorso generale, oltre ad essere in lizza per vincere al volteggio. Per quanto riguarda il concorso a squadre non ci sono dubbi sul fatto che Team Usa non avrà rivali. Con Simone ci saranno le veterane Gabby Douglas (campionessa olimpica in carica nell’all-around) e Aly Raisman, oltre a Madison Kocian (campionessa mondiale alle parallele) e la giovanissima (è del 2000) Lauren Hernandez.
Gli Stati Uniti sono una corazzata nelle mani della Karolyi, dominano ininterrottamente dal 2011 quando le Fierce Four si ripresero il titolo mondiale e non si vede come possano sbagliare il bis a cinque cerchi. Sono anche una squadra multietnica, in uno sport che ancora resta a forte maggioranza bianca, infatti anche Douglas è afro-americana mentre Hernandez proviene da una famiglia portoricana e sarebbe la prima ginnasta ispanica a rappresentare gli Usa dal 1984, quando col costume a stelle e strisce si presentò Tracee Talavera.
Tracee la “messicana”.
Rivoluzione totale
La ginnastica è oggi qualcosa di totalmente differente rispetto a quanto fosse solo dieci anni fa. Infatti nel 2006 la Fig (federazione internazionale della ginnastica) ha introdotto un nuovo sistema di punteggio, che di fatto ha messo una pietra tombale sopra all’icona più grande di questo sport e cioè il 10. Quello che era stato il simbolo per antonomasia della perfezione di un esercizio, ma forse ancor più lo zenit di un intero sport e l’icona più splendente di una specialità olimpica tra le più seguite al mondo al pari soltanto di atletica e nuoto, all’improvviso non esisteva più. Una decisione che fece esplodere la rabbia del padre padrone della ginnastica del dopoguerra, Bela Karolyi: «È la cosa più stupida che potesse accadere a questo sport».
Per chi non ricordasse chi è Bela Karolyi, parliamo del creatore stesso della ginnastica moderna. Colui che “creò” (lui stesso ne ha sempre parlato come una sua creatura) Nadia Comaneci, la quattordicenne rumena che in un giorno di settembre del 1976, a Montreal, fece la rivoluzione alle parallele asimmetriche. Un esercizio perfetto che le valse quella votazione che nessuno aveva mai raggiunto prima: 10. Una prestazione che fece impazzire anche i computer, settati per poter dare al massimo 9.99. Alla fine venne fuori un 1.00 da moltiplicare per dieci. Nadia ottenne altre sei volte quel voto che significa perfezione vincendo tre ori, un argento e un bronzo. Nessuno era mai stata come e lei e nessuno sarà mai come lei: infatti con il regolamento che impedisce a chi ha meno di 16 anni di partecipare alle Olimpiadi, quei suoi 14 anni e 8 mesi faranno per sempre di lei l’atleta più giovane a vincere un oro olimpico.
Nessuno aveva mai visto niente di simile.
Scoprirà poi il mondo che quei trionfi e quella perfezione erano costati una sofferenza atroce. Nel libro di Lola Lafon, francese di origine rumena, c’è tutta la storia del corpo di Nadia. Un fisico simbolo della forza del comunismo e poi esempio del benessere capitalista. Usato da entrambi i mondi e adorato da ambo le culture. Un corpo che non deve crescere mai. Per questo viene sottoposto a un regime strettissimo di privazioni alimentari ed esercizio fisico: corsa tre volte al giorno, esercizio e pochissimo cibo. Nadia Comaneci non deve diventare una donna, almeno non fino a Mosca 1980. Arriva alla seconda Olimpiade di nuovo perfetta e devono mettere insieme una giuria corrotta per lasciare qualche successo anche alla Russia padrona di casa. Nadia sa che l’apoteosi finisce lì, sul tappeto di Mosca.
Dietro di lei il regime di Nicolae Ceausescu da far risplendere d’oro e Bela Karolyi, per le ragazze solo Bela. In pratica un orco che sbraita, ordina, pretende e nega la vita fuori dal tappeto. Dietro le quinte di ogni gesto e di ogni parola. Il “padre perfetto” per i giovani comunisti, ma bisogna stare attenti al quaderno dei giudizi: «sensibile era una diagnosi definitiva». Solo che la storia ci mette poco a capovolgersi e Bela scapperà per diventare il tecnico della nazionale americana, per inventare ginnaste robot con le stelle e le strisce. Anche Nadia scapperà dalla Romania per poter diventare una donna di strabordante femminilità. Ceausescu invece finirà al muro.
Tornando al nuovo sistema di punteggio, secondo molti addetti ai lavori, questo non ha più un limite a definire la perfezione. Infatti adesso il voto risulta dalla sommatoria di due voci distinte: una per l’esecuzione (e qui siamo ancora al tetto del 10), e l’altra data alla difficoltà dell’esercizio, che teoricamente è un un numero indefinito. Simone Biles ha un personal best di 15.550 ad esempio. Ma non sono pochi gli appassionati che si dicono scettici, tra questi la stessa Nadia Comaneci. La scelta del cambiamento è stata fatta perché troppo spesso ci si trovava a premiare esercizi ben fatti ma che magari risultavano troppo “facili”, anche alla luce dell’evoluzione degli atleti di oggi.
Uno degli episodi più spiacevoli risale ad Atene 2004 quando il russo Alexei Nemov fu penalizzato da un esercizio nettamente più difficile di quello dei suoi avversari, il pubblico non apprezzò la decisione della giuria.
Simone Biles è la ginnasta che maggiormente sta sfruttando questo nuovo codice aggiungendo difficoltà a tutti i suoi esercizi. Già ai Mondiali del 2013 si presentò con un salto completamente nuovo, ribattezzato come da regola col suo cognome, che prevedeva due volteggi con le gambe tese e una mezza torsione così da atterrare senza vedere il tappeto. Un volteggio che somiglia a quello che ad Atlanta ’96 costò una caviglia a Kerri Strug, ma con un avvitamento completo in aria in più. Un salto che è l’evoluzione dell’Amanar (dall’atleta romena Simona Amanar che lo mostrò al mondo nel 1996) e che raddoppiava la difficoltà dell’esercizio che quarant’anni fa compiva Nadia Comaneci, per intenderci.
Tipo così.
Gli Stati Uniti hanno affidato le chiavi delle Fierce Five (questo il soprannome dato alla squadra che dominò a Londra 2012) a due stelle nere. Il paragone tra Simone e Gabby Douglas appare molto più fondato da un punto di vista del costume che della competizione in sé, infatti il quoziente di difficoltà a cui si sottoporrà Biles non è paragonabile a quello che può sostenere la campionessa uscente del concorso individuale. Ma insieme rappresentano una risposta a quanti mettono in discussione le capacità fisiche e in generale di avere successo della popolazione afro-americana.
Questione razziale
Proprio l’affermazione planetaria di Simone è servita a scuotere uno sport tra i più conservatori del panorama olimpico, se è vero che ancora nel 2013 la nostra Carlotta Ferlito incappò in una gaffe su Facebook piuttosto infelice, che testimoniava di come le atlete di colore potessero essere percepite come la nuova moda esotica, capace di abbagliare le giurie: «Ho detto a Vanessa [Ferrari] che la prossima volta dovremmo dipingerci di nero così potremmo vincere anche noi».
Brutta caduta di Carlotta.
Un’uscita probabilmente dettata dal nervosismo della gara appena conclusa, ma purtroppo anche da un senso di impunità di fronte a certe idee. Purtroppo per la nostra atleta, che solitamente denota un certo talento per l’esposizione mediatica, quel giorno davanti a lei finirono anche cinque caucasiche, tre asiatiche e Kyla Ross che detiene discendenze afro-americane, giapponesi, filippine e portoricane. Uno spasso per gli amanti della sindrome da accerchiamento.
L’uscita di Carlotta non ebbe grande seguito sui media italiani, che si limitarono a dare la notizia, ma suscitò scandalo negli Stati Uniti. Dalla pagine ufficiale della Federazione italiana venne una scusa che è la solita toppa peggiore del buco: «Ferlito si riferiva alle nuove tendenza della ginnastica che favorisce tecniche basate sulla potenza, come quelle delle atlete nere, piuttosto che sull’eleganza tipica dell’Europa orientale». Di questa frase se ne è presa la colpa David Ciaralli, portavoce della Federazione.
Seguirono scuse su scuse, prese di distanza e mea culpa ufficiali e su Twitter da parte della Nazionale e della diretta interessata, ma ormai la frittata era fatta: la Federazione statunitense si riteneva offesa da questo comportamento. Nonno Ron Biles disse probabilmente la cosa più lucida: «Di solito non è un grande vantaggio nascere neri, non nel mondo in cui vivo io almeno».
Fa male vedere che a distanza di tre anni, facendo una semplice ricerca su Google ci si imbatta, quando va bene in asettici resoconti di quanto successo, e quando va male in paginate di scudi alzati a difesa della nostra atleta che un giorno disse al mondo che per vincere una medaglia d’oro bisognava essere neri.
Simone vinse con questi esercizi.
Eppure dietro a questa polemica c’è più di una dichiarazione ignorante e frustrata. Esiste una divisione storica tra scuole di pensiero della ginnastica. In Europa ci si continua a lamentare della ricerca dell’atletismo a scapito della fludità dei movimenti. Allo stesso tempo gli americani denunciano un certo passatismo delle giurie europee. In passato, soprattutto tra anni Settanta e Ottanta, fu lo stile sovietico a dominare le scene, con elementi di ballo e una tendenza a prendere rischi in favore dell’originalità. In seguito la scuola ha avuto la meglio grazie ad una solidità atletica maggiore e alla tendenza a massimizzare il punteggio grazie ad esercizi ripetuti allo sfinimento.
Lo stile di Simone Biles non contempla molto la danza classica e lascia poco spazio alla creatività, ma di certo nei suoi esercizi la propensione a prendere rischi c’è. Così come un grande lavoro sul sorriso, elemento imprescindibile nella disciplina. Allo stesso tempo però osservando lo stile alle parallele di Gabrielle Douglas si trovano molti punti in comune con lo stile inarrivabile di Nadia Comaneci. La verità è che pochi sport come la ginnastica hanno nascosto e mostrato al contempo le divisioni politiche del mondo: una volta si trattava della guerra fredda Usa-Urss, oggi è la caldissima questione razziale. Poi per chi vuole di più c’è lo stile sfoggiato da Sophina DeJesus di Ucla agli ultimi campionati universitari.
Gabby in volo su Londra 2012.
Prossima fermata
L’appuntamento è per tutti fissato per martedì 9 agosto (data non casuale negli Usa, visto che ricorrono i due anni dalla morte di Michael Brown) nella gigantesca Rio Olympic Arena, il tempio della ginnastica carioca dove, sotto gli occhi dei 12mila spettatori che può contenere, le Fierce Five cercheranno di rispettare il pronostico a senso unico e mettersi al collo la medaglia d’oro del concorso a squadre. Biles continua a ripetere di non sognare l’Olimpiade: «Tutti gli altri lo fanno per me». Ed è la verità perché è strafavorita alla trave, al corpo libero e nel concorso generale dove la difficoltà dei suoi movimenti è talmente elevata che il sito specializzato Gymternet ha calcolato che potrebbe cadere due volte e arrivare prima comunque. Il quinto oro personale lo potrebbe regalare il volteggio qualora dovesse riuscire a ripetere alla perfezione il suo Amanar geneticamente modificato.
In realtà il volteggio si potrebbe rivelare il più insidioso dei momenti di Simone a questa Olimpiade, rischiando di intaccare le certezze della giovane atleta. Quindi l’appuntamento del pomeriggio brasiliano di domenica 14 agosto potrebbe rivelarsi uno snodo fondamentale dell’intera carriera di Simone. Le difficoltà del volteggio stanno tutte nel fatto che non si tratta di un esercizio strutturato, ma di due momenti rapidissimi in cui ci si gioca la medaglia. Ci saranno atlete iscritte soltanto a questa specialità e le insidie per l’americana arriveranno soprattutto da russe e nordcoreane, che l’hanno già battuta ai Mondiali dello scorso anno.
La gara del volteggio vedrà al via la prima atleta indiana della storia della ginnastica ai giochi, Dipa Karmakar, che si è qualificata per Rio grazie ad un esercizio chiamato Produnova. Si tratta di un volteggio pensato alla fine degli anni Settanta che nessuna atleta è riuscita realizzare fino a quando nel 1998 la russa Yelena Produnova ci riuscì in una gara di Coppa Europa. Un salto difficile e molto rischioso, con un coefficiente superiore a quello di Biles e che coach Boorman ha etichettato così: «Se atterri troppo lontano ti rompi una gamba, se atterri troppo vicino, ti rompi il collo».
Dipa è sopravvissuta però.
La questione della mortalità nella ginnastica non è da sottovalutare e le stesse atlete considerano il volteggio Produnova come una vera e propria minaccia alla loro salute che non vale la pena di un po’ di gloria. Uno studio pubblicato nel 2015 riguardante gli sport più pericolosi per gli studenti universitari ha rivelato che i ginnasti sono più a rischio dei giocatori di football. Una delle vittime più illustri fu la russa Elena Mukhina, campionessa mondiale 1978 che a due settimane dai Giochi di Mosca perse l’uso di braccia e gambe dopo essersi rotto l’osso del collo nell’atterraggio dopo aver provato un salto Thomas al corpo libero.
Il movimento, che prende il nome dal ginnasta americano Kurt Thomas che lo inventò e lo mostrò al mondo in una pazzesca performance nel Campionato del mondo del 1978, è oggi vietato nel femminile e consentito ai soli maschi proprio in seguito all’incidente di Mukhina. La stessa Biles ha detto più volte che non si prenderebbe il rischio di un Prudova in una gara ufficiale. E questo non è collegato al semplice fatto che già in queste condizioni è la miglior atleta in circolazione, ma perché è una questione di “comfort” («It’s not about the destination, it’s about the journey. The skills she’s doing are the skills she most confortable with.» [parola di coach Aimee Boorman]).
Un piccolo saggio di cosa potrebbe fare Simone ma non vuole.
A proposito di skills e coach Boorman qualche tempo fa l’allenatrice di Simone ha twittato dei piccoli video tratti dalle sessioni di allenamento che valgono la pena di essere visti. Li trovate tutti qui.
La giovane Biles rappresenta l’orgoglio e la speranza di rivalsa di un popolo che fatica a sentirsi nazione con la razza bianca, perché mai come oggi gli afro-americani si sentono distanti dalla loro bandiera. E questo problema è sentito soprattutto dai teenager come Simone. Infatti nel 1966 il 33% di loro considerava la discriminazione razziale un problema. Cinquant’anni dopo la percentuale è salita al 91%. Questo in un paese in cui i neri rappresentano il 13% della popolazione totale eppure hanno sette volte più probabilità di finire in prigione di un bianco e costituiscono oltre un terzo dei circa 1,6 milioni di detenuti americani.
Tutto questo, oltre ai sogni e alla sacrosanta ambizione personale, poggerà sulle forti spalle di Simone Biles, corpo e sangue d’America.