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Marco D'Ottavi
Studiare il coronavirus con World of Warcraft
24 mar 2020
24 mar 2020
Nel 2005 una pandemia scoppiò nel mondo di WoW.
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Marco D'Ottavi
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Design UU
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World of Warcraft fa parte di quella categoria di videogiochi che che può essere giocata solo online, insieme ad altre persone; da qui l’acronimo MMORPG, ovvero Massive(ly) Multiplayer Online Role-Playing Game. Nel caso di WoW queste persone sono davvero tantissime - 12 milioni nell’ottobre del 2010, il suo massimo - e si muovono in un mondo immenso e sfaccettato, ricco di trame e sottotrame, personaggi fantastici e leggende mitologiche, sapientemente gestite dai server di Blizzard Entertainment, la società che lo ha sviluppato. Il 13 settembre 2005, il gioco era attivo da più o meno un anno, doveva essere un giorno felice nel mondo alternativo di World of Warcraft. Blizzard Entertainment aveva appena rilasciato un aggiornamento del suo gioco di punta, e se c’è una cosa che abbiamo capito della società tecnologica è che un mondo aggiornato è un mondo migliore. Con la patch 1.7.0 veniva pubblicato Rise of the Blood God, un'evoluzione tanto attesa dagli utenti che dava la possibilità di prendere parte a quest inedite e affrontare il primo raid per 20 persone, Zul'Gurub.Senza entrare troppo nei dettagli, l’estensione permetteva agli utenti di livello 60 - il massimo in quel momento - di recarsi con i loro alter ego nella parte nord est di Stranglethorn Vale, sconfiggere i Sommi Sacerdoti e confrontarsi con il boss Hakkar, detto lo Scorticatore di Anime, per conquistare la cittadella dei troll. Una delle peculiarità di Hakkar era quella di poter colpire i giocatori che lo attaccavano con un debuff che ne diminuisse i punti vita. Questo incantesimo, chiamato Corrupted Blood, infliggeva un pesante danno iniziale, per poi togliere tra i 200 e i 300 punti vita ogni due secondi fino alla morte, con il personaggio che esplodeva in una nuvola di sangue. Il debuff aveva però anche il potere di agire come un virus e quindi di trasmettersi ad altri giocatori per prossimità. L’effetto doveva durare pochi secondi ed essere limitato all’area dello scontro con il boss, ma qualcosa andò storto.L’incidente del Corrupted BloodA causa di un bug, un errore di programmazione, l’incantesimo del Corrupted Blooddiventò una pandemia. Quando un giocatore chiamava a supporto i propri companion, che fossero gli animali dei cacciatori o i demoni degli stregoni, anche questi venivano colpiti dal debuff di Hakkar, ma a differenza del loro padrone, per loro l’effetto durava anche al di fuori dell’area di scontro. Quando i giocatori ignari facevano ritorno in aree più affollate di World of Warcraft, il virus si trasmetteva rapidamente agli altri giocatori nei dintorni, ma non solo: anche i personaggi non giocanti (noti nei videogame con il nome di NPC) che popolavano luoghi come banche, case d’asta e negozi venivano infettati. Furono proprio i NPC il veicolo maggiore del virus: non avendo punti vita - e non essendo quindi soggetti all’incantesimo - questi personaggi risultavano asintomatici e si limitavano a passarlo ai personaggi gestiti dagli utenti, che iniziavano a star male senza sapere il motivo. I programmatori avevano calibrato la potenza dell’incantesimo Corrupted Bloodper infliggere danni ai personaggi di livello più alto e meglio equipaggiati, per questo una volta uscito dall’istanza di Zul'Gurub divenne impossibile contenere gli effetti del debuff, rendendo l’esperienza di gioco estremamente complicata. I personaggi più deboli, una volta entrati a contatto con il virus, morivano nel giro di pochi secondi, lasciando nel mondo di Warcraft un tappeto di scheletri; chi riusciva a sopravvivere doveva trovare un modo di far fronte all’infezione mentre perdeva costantemente punti vita. Se la morte nei videogiochi è un’esperienza temporanea, in fondo trascurabile, in WoW portava agli utenti una perdita di tempo e di denaro. La malattia non si eliminava nemmeno una volta morto, ma tornava non appena l’anima del personaggio ritornava nel corpo.

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Come reagirono i giocatoriPer quanto virtuale, l’epidemia di Corrupted Blood mise sottosopra una realtà gestita da esseri umani, con i loro comportamenti umani. Fin dal primo momento fu possibile identificare diversi modi di gestire la crisi da parte degli utenti: alcuni, per esempio, decisero di mettersi in quarantena volontaria, rinunciando ad accedere al gioco per tutto il tempo che avrebbe richiesto risolvere il problema agli sviluppatori; altri iniziarono ad allontanarsi dalle grandi città, come le capitali Stormwind e Orgrimmar, dove il virus era più presente per nascondersi in luoghi meno affollati, portando però con sé la malattia. Altri ancora, con un slancio di altruismo, misero a disposizione le loro abilità curative per garantire agli utenti contagiati ulteriori ore di gioco, organizzando luoghi in cui chi era infetto da Corrupted Blood poteva recuperare punti vita. Così facendo, però, il più delle volte finirono per diventare anche loro dei veicoli del virus. Qualcuno semplicemente provò ad ignorare il problema, continuando a giocare come se nulla fosse.Dopo aver inizialmente sottostimato il problema, Blizzard Entertainment provò a organizzare una quarantena sensata per circoscrivere il problema e nel frattempo sviluppare una patch correttiva. Tuttavia si rivelò un tentativo fallimentare. Una parte degli utenti finì per prendere con poca serietà gli inviti della società a limitare il contagio, ma anzi ne approfittò per portare indiscriminatamente in giro l’epidemia per creare loro dei vantaggi, seminando morte e distruzione e rendendo impossibile qualunque compromesso. Dopo circa una settimana Blizzard Entertainment, con almeno 3 o 4 server contagiati, fu costretta a resettare il mondo di World of Warcraft e riportarlo a prima dell’aggiornamento di Zul'Gurub, eradicando definitivamente l’epidemia dal gioco. Insomma, a questo punto vi sarete resi conto del motivo per cui abbiamo deciso di scrivere di una pandemia virtuale avvenuta ormai quindici anni fa. Pandemia reale vs pandemia virtualeIn quei giorni, tra gli appassionati di WoW c’era anche un epidemiologo di nome Eric Lofgren, che rimase affascinato dal parallelo tra i comportamenti dovuti da un'epidemia in un mondo virtuale e quelli nel mondo reale. Insieme alla collega Nina Fefferman, nel 2007 pubblicarono uno studio su LancetInfectious Disease in cui si discutevano le implicazioni dell'epidemia virtuale di World of Warcraft sulla modellizzazione epidemiologica, ovvero sul modo in cui gli scienziati creano modelli di comportamento in reazione a eventi come una pandemia, usando i dati in possesso di Blizzard Entertainment sul comportamento degli utenti durante l'epidemia del Corrupted Blood. La società e gli epidemiologi ipotizzarono anche l'ideazione di nuove malattie trasmissibili da introdurre nel gioco a fini scientifici, per studiare la percezione degli utenti e il loro comportamento, anche se alla fine non se ne fece nulla. Un altro epidemiologo pubblicò un articolo in cui si mettevano in relazione le similitudini dell’epidemia del Corrupted Blood con quella dell’aviaria e della SARS. Certo, nel caso del Corrupted Blood bisognava considerare alcuni aspetti, come la curiosità di alcuni giocatori, attratti dalle zone in cui stava dilagando la malattia e il fatto che gli infetti fossero segnalati da uno sbuffo rosso sopra la testa. Tuttavia era possibile individuare diversi punti di contatto nella reazione a un virus sconosciuto che si trasmetteva per contatto, principalmente tramite persone asintomatiche.

Piuttosto angosciante nonostante la virtualità, no?

La scienza non fu l’unica a interessarsi all’incidente del Corrupted Blood. Anche gli studiosi del terrorismo si interessarono all’episodio, ipotizzando come World of Warcraft potesse fornire nuovi e interessanti modi per studiare la formazione e i comportamenti delle cellule terroristiche.Corrupted Blood e coronavirusL’incidente del Corrupted Blood è tornato a far parlare in questi giorni, a quindici anni di distanza. E il motivo, ovviamente, è che la pandemia di WoW, nata da una malattia partita da una regione remota a causa di animali, che si trasmette per contatto e veicolata anche da portatori sani e asintomatici - con tutte le differenze del caso - è sinistramente simile alla pandemia di Covid-19 in corso. Eric Lofgren, che ora lavora alla Washington State University, in una della zone più colpite dal virus negli Stati Uniti, è tornato a parlare del modello proposto nel 2007. «Un virus si sta diffondendo tra le persone, e come le persone reagiscono, si comportano e rispondono alle autorità, o come non lo fanno, sono cose importanti. Sono cose anche molto complicate e caotiche. Non puoi prevedere semplicemente che “sì, tutti si metteranno in quarantena, andrà tutto bene”. No, non tutti lo faranno».Frasi che magari ci sarebbero sembrate assurde qualche settimana fa, ma che oggi fanno parte della nostra quotidianità. Quando Lofgren e Fefferman pubblicarono il loro studio, una delle critiche più diffuse che ricevettero fu che il dolore virtuale non può essere paragonato a quello reale. Se delle persone pensavano di poter infettare gli alter ego di altri giocatori nel mondo di Warcraft, questo non poteva di certo accadere nella realtà. Eppure l’epidemia che ci troviamo a fronteggiare sta in qualche modo smentendo questo assunto: «ignorare intenzionalmente il tuo potenziale nella diffusione del virus è abbastanza vicino a quello che è accaduto in World of Warcraft» sostiene Lofgren, evidenziando come studiare la diffusione di Corrupted Blood lo ha aiutato a capire il lato sociale delle pandemie. Una visione confermata anche dalla dottoressa Fefferman: «[Studiare Corrupted Blood] mi ha portato a riflettere molto sul modo in cui le persone percepiscono le minacce e su come questo possa cambiare il loro comportamento». Gli studi effettuati sulle chat dove gli utenti di World of Warcraft potevano comunicare tra loro, scambiandosi informazioni sulla diffusione di Corrupted Blood e su come affrontarla - secondo l'epidemiologia - possono tornare utili per capire come funziona la comunicazione intorno al Covid-19 ai tempi dei social media. Questa tipologia di giochi - gli MMORPG - sono in qualche modo una riproduzione di una comunità sociale. Possono esserci gli incantesimi, i dragoni e le armature, ma c’è anche l’interesse, il tempo, l’impegno delle persone che muovono tutte queste cose. A muovere i fili sono i rapporti tra gli utenti, gli interessi privati e della comunità, così come nella realtà. Parlando del suo studio Fefferman disse di aver usato i giocatori di World of Warcraft "come criceti", il passaggio intermedio tra la ricerca scientifica e l’uomo. Creare modelli matematici delle reazioni umane è estremamente complicato. Gli umani possono essere irrazionali, emotivi, guidati da istinti difficili da incanalare negli algoritmi. Una pandemia virtuale può aiutare gli studiosi a provare a comprendere meglio il comportamento umano davanti a una minaccia simile? Sul tema persino le risposte degli epidemiologi sono state piuttosto vaghe, e bisognerebbe leggere i loro studi e avere una sufficiente conoscenza dell’argomento per rispondere. Tuttavia non è assurdo pensarlo: la relazione che si crea tra l’utente e il proprio alter ego finisce in qualche modo per “umanizzare” il personaggio, creando un rapporto di identificazione ed empatia da non sottovalutare. Dopo tutto il tempo speso per formarlo, cosa c’è di più simile a noi stessi?

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