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Quando degli operai rubarono la Coppa di Francia
26 apr 2019
26 apr 2019
La storia della coppa nazionale francese del 1979, rubata subito dopo la vittoria del Nantes.
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Foto di STRINGER/AFP/Getty Images
(foto) Foto di STRINGER/AFP/Getty Images
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«Je préfère le bon temps du rock'n'roll». Possiamo immaginare che la mattina del 9 agosto 1979 la radio stia trasmettendo questa hit di Johnny Hallyday mentre si aprono le porte della Jonelière, il centro sportivo dell'FC Nantes. La moderna struttura d'allenamento, terminata appena un anno prima, sprofonda nella sorpresa: la squadra gialloverde ha vinto da meno di due mesi la sua prima Coppa di Francia, ma il trofeo non si trova nella teca in cui era esposto, è stato rubato. I “Canaris” erano saliti alla ribalta nel calcio francese all'inizio degli anni '60, con l'assunzione in panchina del basco José Arribas, che appena arrivato aveva cominciato a costruire non solo un sistema di gioco, ma una nuova idea di club. Il Nantes era diventata la prima squadra francese con un imprinting collettivo, metodi di allenamento moderni, un sistema di formazione delle giovanili integrato alla prima squadra, in breve uno stile. Il piacere di giocare collettivamente Quello francese è un calcio decentrato: a dominare quegli anni sono infatti il Nantes e il St-Étienne, una rivalità lontana dalle metropoli, che influenzerà profondamente il sistema delle accademie diffuse sul territorio. Quello di Arribas è un gioco di posizione ante-litteram, fatto di tocchi veloci, movimenti senza palla, combinazioni corali. Le immagini scarseggiano per i campionati degli anni '60, ma c'è uno spezzone di un vecchio St-Étienne - Nantes, finito 0-3 e che sintetizza abbastanza la modernità di quelle idee tattiche. https://www.youtube.com/watch?v=502Vf-h8gag Chi dirige le riprese della partita è chiaramente non avvezzo a un gioco che ha bisogno di inquadrature ampie. In particolare sul primo gol, dopo una risalita dal basso la palla arriva sulla linea di centrocampo a Muller, che sprinta verso la trequarti. In quel momento vediamo scattare al bordo dello schermo due giocatori liberi, con un dinamismo che stona col bianco e nero. L'immagine però si restringe e quello sforzo esce dalla visuale. Muller comunque ripiega sulla destra, e con una triangolazione manda in porta Blanchet. Il Nantes manterrà nei decenni questa propensione alla costruzione di squadra e al gioco d'attacco, e negli anni '90 i giornalisti francesi inventeranno la locuzione “jeu à la nantaise”, nel tentativo un po' sciovinista di distinguersi dentro una genealogia che va dal calcio totale al moderno gioco di posizione. Arribas è uno di quei profeti del calcio per cui l'eredità supera di gran lunga i risultati: in 16 anni porta a Nantes tre campionati, diversi piazzamenti, e tre finali di coppa di Francia, tutte perse. In un'intervista del 2014 suo figlio lo dirà schiettamente: «Il piacere di giocare collettivamente, questo era papà. Il gioco prima dei risultati, una cosa che oggi non sarebbe possibile. Ed era molto apprezzata questa mentalità, ecco perché è ancora una referenza». Il successore in panchina, Jean Vincent, è più pragmatico, e per cinque anni i gialloverdi sono stabilmente nelle prime due posizioni del campionato. Il gioco non è più così votato all'attacco, si lamentano alcuni tifosi, ma il 16 giugno 1979 arriva anche la quarta finale di coppa e la prima vittoria. Al Parco dei Principi la sfida è con la sorpresa Auxerre, che strappa un 1-1 nei tempi regolamentari. Il protagonista della serata è l'attaccante Éric Pécout, che dopo il gol all’11’ ne segna altri due nei supplementari, firmando il 4 a 1 finale. La Lorena in subbuglio Quella mattina d'agosto però tutto questo è in secondo piano. Il furto non ha precedenti nella storia della Coppa di Francia e sembra cogliere tutti alla sprovvista. Il presentatore del telegiornale serale su Antenne2 arriva a chiedersi se sarà possibile giocare l'edizione 1979/80 del torneo prima di aver ritrovato il maltolto. I sospetti ricadono su qualche tifoso collezionista, perché nient'altro è stato portato via. Il presidente Fonteneau gioca la carta della comprensione: «Non sporgeremo denuncia contro il ladro. Che la coccoli, la accarezzi, ma ce la renda presto». Due giorni dopo, la coppa riappare a Longwy, in Lorena, a più di 650 chilometri dalla Jonelière. Nella piccola città a due passi da Belgio e Lussemburgo è giorno di mercato, il trofeo passa di mano in mano e molti si mettono in posa per una fotografia. Piccolo flashback, la musica è la stessa. «Je préfère le bon temps du rock'n'roll». Canta anche questa strofa Johnny Hallyday la sera del 7 marzo 1979 durante il suo concerto a Metz. Quella notte al termine dello spettacolo trova un centinaio di operai fuori dal suo hotel, vengono proprio da Longwy e lo invitano sul momento in una delle loro fabbriche. La città che abbiamo già nominato due volte è un centro siderurgico investito da pesanti ristrutturazioni, che mettono in pericolo decine di migliaia posti di lavoro. Il settore dell'acciaio francese è in crisi, scioperi e manifestazioni si susseguono, e i sindacati cercano azioni spettacolari per attirare l'attenzione e sensibilizzare l'opinione pubblica. Ecco allora l'idea della visita notturna per Johnny Hallyday, l'idole des jeunes, una delle star più conosciute di Francia. Qualcuno mesi dopo parlerà di rapimento, ma anche a trent'anni di distanza il cantante ha parole dolci: «Rapito, è un parolone […] Dopo uno spettacolo li ho accompagnati alla fabbrica. Mi hanno fatto visitare le installazioni. Ne serbo un buon ricordo e soprattutto un super legame umano». Di sicuro, la sera del concerto a Metz Johnny non è più quello che portava l'America in Francia nei primi anni '60, quando i suoi concerti finivano invariabilmente con tafferugli e incidenti tra fan e polizia. L'album “Hollywood” è il primo dal sapore di nostalgia per il vecchio rock e con lo sguardo dei decenni successivi sembra già uno sconsolato presagio per gli operai di Longwy. Le azioni mediatiche comunque non si fermano. Il 9 luglio la tappa Rochefort-Metz del Tour de France è bloccata all'altezza di Tellancourt, da quaranta vetture di operai. I corridori sono costretti a fermarsi, c'è chi vocifera di un Hinault inferocito: è in corsa per primeggiare in quella “Grande Boucle” (sì, la vincerà) e non vuole seccature, ma questo in quel momento ha poca importanza. Dopo qualche minuto di trattativa, una delle automobili sindacali è ammessa tra le ammiraglie: lungo il percorso il megafono sul tettuccio spiega la condizione del bacino siderurgico, tra gli applausi dei tifosi stretti ai lati del percorso. La Coppa di Francia, un simbolo Il mese successivo quattro tesserati del sindacato CFDT decidono che anche il calcio può venire in loro soccorso e scelgono come obbiettivo la Coppa di Francia appena vinta dal Nantes. L'idea è azzeccata, nessuna competizione sportiva, a parte appunto il Tour, racchiude lo stesso senso di “francesità". Si tratta del primo trofeo ad aver unificato calcisticamente l'esagono (e le sue colonie): il paese nel 1917 è appena uscito dalla grande guerra e il Comitato Francese Interfederale riesce a concretizzare gli sforzi per avere una competizione nazionale di football association, come veniva chiamato all'epoca. Quella coppa, figlia primogenita della FFF (la Fédération Française de Football diretta discendente del CFI), da allora non mancherà nemmeno un'edizione, e nel suo secolo di vita incorporerà un'anima profonda del calcio francese. Nata per accogliere tutte le squadre del paese quando ancora la parola professionismo faceva storcere molte bocche, la coppa resta sempre aperta anche ai club amatoriali, ad oggi ogni anno partecipano più di 6000 squadre, che competono su tredici turni (più un turno preliminare in due regioni, e la finale). Come un'intuizione egualitaria che deborda le gerarchie parigine, dalla Vandea alla Costa Azzurra passando per qualche “territorio d'oltremare”. Insomma, lo strumento giusto per far parlare di un distretto industriale dimenticato. Nel caldo estivo tutte queste traiettorie finiscono per incontrarsi. L'avventura verrà raccontata da uno dei quattro protagonisti, Joseph Scatigno, 38 anni dopo. La notte del 6 agosto Jean-Claude, Francis, Gilles e Joseph attraversano il paese in macchina, si beccano una multa per eccesso di velocità e si fermano a Rennes per riposare. La mattina dopo decidono di rilassarsi sulle spiagge atlantiche e di pranzare a cozze e patatine. Poi un pomeriggio da turisti nella sala da trofei dell'FC Nantes, per tastare il terreno. Quando sta per fotografare la coppa Jean-Claude chiede alla sorvegliante: «Je peux prendre la coupe?». È un gioco di parole: in francese il verbo “prendre” sta per “scattare una foto” ma anche per “prendere”.

La notte del giorno successivo passano all'azione, eludono la sorveglianza del custode e del suo pastore tedesco, e una volta recuperato il bottino si rimettono subito in macchina. Alle 7 di mattina del 9 agosto, la coppa è già all'altro estremo di Francia, in una sede sindacale. «Pressione? Non avevamo riflettuto. Siamo semplicemente partiti. Bisognava agire perché si parlasse di Longwy». Ed effettivamente quel nome rimbalza ancora una volta su giornali e telegiornali. Le Rèpublicain Lorrain pubblicherà in esclusiva la foto dei quattro eroi con il cappuccio calato che tengono il bottino ben in evidenza. Subito dopo seguiranno le immagini dal mercato del sabato, con la coppa che tutti vogliono toccare e che i bambini corrono a vedere. Appoggiato su una bilancia, accanto a un galletto, il trofeo intitolato a Charles Simon diventa per qualche ora un gioco che coinvolge tutta la comunità. Il divertimento finisce il 13 agosto, quando un bus zeppo di operai riparte alla volta della Jonelière. Ad accoglierli non c'è il presidente Fonteneau, che indispettito da tutta la vicenda lascia l'onere di incontrarli alla tesoriere del club, Camille Plantier. Per farsi perdonare i lorreni hanno portato in dono diciassette piatti in maiolica Emaux de Longwy, un prodotto tipico della loro regione. Mentre rimette la coppa al suo posto, un sindacalista arriverà anche a tentare una giustificazione: «L'abbiamo tenuta con grande cura, non ci abbiamo nemmeno bevuto dentro».

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