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Redazione
Continuare in Europa League
25 feb 2015
25 feb 2015
Le partite d'andata lasciano generalmente ben sperare, cosa dovranno fare Fiorentina, Torino, Napoli, Roma e Inter nel ritorno?
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Redazione
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I primi 25 minuti di Tottenham-Fiorentina sono stati spaventosi per i viola, e lo sarebbero stati per qualunque altra squadra italiana: ritmi vertiginosi, pressing asfissiante appena fuori l’area di rigore, intensità altissima. Eppure, nel leggere le formazioni, si poteva immaginare un Tottenham meno concentrato: ben 6 titolari in panchina rispetto alle ultime due partite giocate dagli

. In attacco c’era Soldado, attaccante di cui non riescono a liberarsi e che ha sbagliato tutto nei suoi 18 mesi londinesi, e non Harry Kane; in difesa il terzino sinistro era Davies, e non Rose che è un attaccante aggiunto; per non parlare di Lamela e Dembélé in panchina. Dopo i primi 10 minuti, con il centravanti spagnolo autore di uno splendido passaggio filtrante e poi di un ottimo gol, sembrava invece che fosse un turnover necessario: il calcio di Pochettino si gioca ad una velocità talmente elevata, con uno sforzo fisico così significativo, da richiedere una grande alternanza dei giocatori.

 

Il Tottenham ha continuato a dominare il campo e il gioco almeno per trenta minuti: Andros Townsend sembrava di un altro pianeta sulla fascia destra, con Pasqual regolarmente saltato. Pizarro e Borja Valero provavano a fare uscire il pallone dalla difesa ma erano circondati dalle cavallette bianche: non era colpa loro, era semplicemente un altro calcio, con i ritmi troppo alti per le nostre abitudini. Lo schieramento scelto da Montella, un 3-5-1-1 con Salah quasi seconda punta, lasciava colpevolmente spazio sulle fasce, soprattutto quella sinistra, e costringeva Joaquín troppo basso. Per fortuna e per merito (Tatarusanu vale Neto, se non di più), la Fiorentina ha superato quasi indenne la tormenta: il gol dell’1-0 realizzato su calcio d’angolo esprime in modo del tutto parziale la supremazia della squadra di casa. Montella è stato rapido ed abile a capire come aiutare la sua squadra in difficoltà: alla mezzora c’è stato il passaggio al 4-3-3 (che ovviamente era un 4-5-1 in fase difensiva), con Savić terzino destro, Joaquín sulla fascia sinistra e Salah sulla destra secondo il principio delle ali a piedi invertiti. Da quel momento, i viola sono tornati sul serio in partita, e il gol del pareggio nasce proprio da una magia dell’ala spagnola nella nuova posizione: sul seguente calcio di punizione, Basanta è bravo perché rapidissimo nel coordinarsi e calciare verso la porta. Eppure, serve ancora il portiere romeno, aiutato poi dalla traversa, per portare la Fiorentina a un sofferto 1-1 a fine primo tempo.

 

Nel secondo tempo è stata una partita diversa, che ha fatto capire come la Fiorentina può affrontare il ritorno: alzare il baricentro, rimanere sempre compatti sulla zona della palla, cercare di ripartire rapidamente sulle fasce, specialmente con Joaquín, il migliore in campo dei viola. Molto utile anche Salah: non ha dato grande ampiezza sulla fascia, ma ha sempre trovato la posizione giusta tra le linee avversarie di difesa e centrocampo, per finire addirittura da punta centrale con Ilicic a sostegno. C’erano le premesse per un naufragio di Pizarro in questa partita, invece il cileno ha capito tutto: sui tempi da dare alla squadra e soprattutto sulla capacità di trovare velocemente linee di passaggio oltre il pressing avversario. In questo è stato molto aiutato dai due difensori centrali argentini, Gonzalo Rodriguez e Basanta, che hanno rischiato spesso ma hanno un’ottima capacità di giocare il pallone.

 

Il Tottenham non ha retto il ritmo iniziale per tutti i 90 minuti, perché non aveva i giocatori adatti: dopo soli 8 minuti Soldado era già stanco e chiedeva calma ad un suo compagno che voleva battere una rimessa laterale in velocità, niente a che vedere con Kane primo attaccante e difensore; Paulinho a centrocampo ha garantito meno corsa e lucidità di Mason; Chadli non è sembrato particolarmente in vena. Pochettino ha provato a rimediare al peccato di

iniziale, inserendo prima Kane, poi Lamela e infine anche Mason. Non è bastato, perché la Fiorentina ha saputo soffrire, ha guadagnato fiducia ed ha messo anche paura agli

con alcuni contropiede veloci, sempre avviati da un Joaquín vecchio stile, aiutato da Marcos Alonso, molto più a suo agio di Pasqual e che ha costretto Walker a rimanere più basso.

 

L’1-1 di White Hart Line garantisce alla Fiorentina un leggero vantaggio che deve essere sfruttato: l’atteggiamento da seguire è quello del secondo tempo, con una compattezza tra le linee che possa rendere difficile ai londinesi il loro gioco iperaggressivo. Il Tottenham gioca bene, molto bene, ma rimane una squadra vulnerabile in fase difensiva, soprattutto se si riesce a saltare la prima linea di pressing; non sa gestire bene le transizioni difensive, perché a volte sia terzino che ala sono entrambi sulla trequarti; accorcia troppo sul pallone, scoprendo molto il lato debole. Tutte cose che Montella conosce bene, e che in parte è riuscito a sfruttare, dopo il tremendo avvio.

 

Non sappiamo che Tottenham troveremo al ritorno, a livello di formazione. In questa occasione, infatti, gli

non giocavano addirittura da 9 giorni, non c’era bisogno di riposo, se non per preparare al meglio la sfida di campionato contro il West Ham. Appena 3 giorni dopo la sfida di ritorno contro i viola, il Tottenham giocherà la finale di League Cup a Wembley contro il Chelsea: le probabili formazioni parlano di un ritorno di Kane e Lamela da titolari, ma molti ruoli nevralgici dovrebbero ancora soffrire il turnover, e la Fiorentina ha tutto per approfittarne.

 


Il pressing asfissiante dei primi 30 minuti: in questo frangente ci sono più giocatori di movimento del Tottenham che della Fiorentina, ma è la metà campo viola: Tatarusanu poi passerà a Pasqual che perderà il pallone, sormontato da maglie bianche.



 
 

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Credo che l’Athletic abbia sottovalutato il Toro nella gara d’andata e pare che nella scala delle priorità di Ernesto

Valverde l’Europa League non sia, in questo momento, ai piani alti. Eppure una partita sottoritmo e chiusa con due tiri in porta è bastata a strappare un 2-2 fuori casa che mette i baschi in chiara posizione di vantaggio per la qualificazione agli ottavi di finale.

 

Sembrerebbe che il massimo a cui può aspirare il Toro sia una splendida eliminazione, di quelle che non lasciano rimpianti: l’Athletic ha margini di miglioramento più ampi, specie se Valverde schiererà qualche titolare in più rispetto alla partita di Torino, e poi si gioca al San Mamés. E qui anche la storia è contro i granata, che hanno sempre perso quando hanno giocato in Spagna (4 precedenti contro Las Palmas, Sporting Gijón, Real Madrid e Villarreal).

 

Più che una questione di esperienza internazionale (l’Athletic è una squadra più giovane e il Toro, in quanto a presenze totali dei propri giocatori nelle competizioni UEFA, non è così lontano dai baschi) credo sia una questione di mentalità: quella dei granata e di Ventura è speculativa, meno adatta al palcoscenico internazionale, come la gara d’andata ha dimostrato.

 

Il Toro osa quando non ha più nulla da perdere, quando è costretto a farlo, come dopo il gol di Williams - basco classe ’94 di padre ghanese e mamma liberiana: da tenere d’occhio - contro l’Athletic o dopo il gol di Salah nell’ultima di campionato contro la Fiorentina. Il fatto che in tutte e due le situazioni sia riuscito a ottenere ciò che voleva (ribaltare il risultato contro i baschi, pareggiare con pochissimi minuti a disposizione contro i viola) ci dice due cose: la squadra ha un grande potenziale, inespresso per gran parte delle partite. È un punto fondamentale: il Toro può anche passare in vantaggio al San Mamés, ma è in grado di reggere venti minuti o mezz’ora di pressione infernale dei baschi, sia di quelli in campo che di quelli in tribuna?

 

La risposta, dopo la partita, d’andata sembra essere negativa: all’Athletic sono bastate due punizioni conquistate da Muniain per sfiorare una vittoria immeritata (su una delle due punizioni è arrivato il pareggio, sull’altra una traversa). Pur non toccando le vette della passata stagione, quella che ha riportato i “Leoni” in Champions League, l’Athletic resta una squadra difficilissima da affrontare quando alza i ritmi. Nell’ultima giornata di Liga se n’è accorto il Rayo Vallecano, che ha retto fino all’86’, ma poi ha perso 1-0 dopo alcune fasi in cui ha fatto fatica a uscire dalla propria metà campo. Verosimilmente non sarà quello che vedremo al San Mamés, almeno all’inizio, visto che la prima mossa spetta al Torino e all’Athletic potrebbe andar bene gestire il pallone così come ha fatto nella sfida d’andata.

 

Sarà interessante scoprire come si schiererà Valverde. All’Olimpico aveva scelto un rombo anomalo, che non prevedeva nessun attaccante di ruolo, prima di cambiare e schierarsi a specchio con un 3-5-2 che ha permesso di tamponare le falle emerse, ovvero la difficoltà a creare occasioni da gol per l’intasamento nella zona centrale del campo (singolare la scelta di non allargare il campo contro una squadra come il Toro, praticamente impossibile da superare nel mezzo) e l’incapacità di difendere sulle fasce, lì dove i granata hanno costruito i loro gol.

 

È abitudine del Toro, d’altronde, svuotare il centro del campo in fase offensiva, con le mezzali in sovrapposizione costante ai laterali per arrivare sul fondo e crossare per le punte. Fossi in Ventura proverei a forzare la costruzione del gioco dal lato di Mikel Rico: l’Athletic ha tra le sue caratteristiche quella di pressare molto alto l’impostazione della squadra avversaria, ma all’Olimpico ha mostrato di non essere sempre preciso. In particolare, quando l’azione veniva costruita dal lato di Mikel Rico, la mancata rotazione nelle marcature da parte di Beñat e San José metteva Rico in inferiorità numerica e nelle condizioni di dover scegliere se marcare il mediano (nella circostanza Gazzi) oppure seguire la mezzala di riferimento (El Kaddouri). Il Toro riusciva sempre a liberare un giocatore per un appoggio facile e poteva costruire dal basso con calma, aggirando il pressing dei baschi. Dall’altro lato del campo, invece, la situazione era diversa, perché Mikel Rico (che in quel caso era la mezzala opposta) era sempre puntuale nell’uscire su Gazzi e nell’impedire lo scarico facile al portatore di palla granata.

 

In ogni caso Ventura ha a disposizione un’arma molto efficace in Nikola Maksimović, il miglior difensore della Serie A nell’uscire palla al piede dalla propria area di rigore. Il serbo è il

del campionato per numero di dribbling (33, con una percentuale di successo del 73%) e spesso è lui a risolvere i problemi del Toro quando non riesce a costruire l’azione dal basso (consiglio per gli acquisti a tutte quelle squadre in difficoltà a impostare da dietro, Roma e Milan ad esempio).

 

È il primo passo, obbligato, per credere nell’impresa: se il Toro si fa schiacciare e perde palla facilmente quando prova a impostare è praticamente spacciato.

 
 

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Quello sceso in campo a Trebisonda è stato un Napoli furioso e aggressivo, convinto della propria forza come mai in questa stagione. Gli uomini di Benitez hanno voluto rispondere alla pioggia di critiche seguita alla gara di Palermo. Gli azzurri, in uno stadio caldo e ostile hanno lanciato un messaggio a tutte le pretendenti al trono dell’Europa League. Benitez, ovvero l’uomo che ha già vinto il trofeo sulle panchine di Valencia e Chelsea, vuole la vittoria finale.

 

In avvio di partita, gli azzurri sono rimasti coperti centralmente, chiudendo le linee di passaggio verso i trequartisti del 4-2-3-1 avversario; i tre giocatori turchi dediti all’impostazione sono stati così costretti a inizio azione a girare il gioco sulle fasce, proprio dove i napoletani andavano a concentrarsi per rubare palla e ripartire con verticalizzazioni veloci e precise. Per certi versi, quella del Napoli poteva essere una tattica pericolosa: l’unica arma dei turchi è solitamente la ricerca dell’ariete Óscar Cardozo da ogni posizione del campo. Albiol e Koulibaly sono però sembrati concentrati dal primo all’ultimo minuto e non hanno mai sofferto il centravanti paraguaiano sulle palle alte: al di là delle amnesie dei singoli e del turnover forzoso, loro due restano la miglior coppia a disposizione di Benitez. Notevole la predisposizione al lavoro difensivo di Gabbiadini e Mertens, che hanno sempre pareggiato i numeri in fascia, supportando i terzini.

 

La pressione dei napoletani ha fruttato loro un gol nei primi cinque minuti di partita, sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Il secondo gol merita attenzione particolare, perché fa capire quali siano le chiavi sulle quali Benitez sta fondando il Napoli in questa seconda parte di stagione: de Guzman fa il movimento giusto, incontro alla palla, con Higuain che scatta in profondità; il centrale turco si fa attirare verso il centrocampo dall’olandese e Gabbiadini, che riceve la sponda del compagno, si infila nella breccia che si è creata nella difesa.

 

De Guzman sta trovando un minutaggio consistente perché è un giocatore pensante, intelligente tatticamente: sia schierato dietro la punta che in posizione di esterno sinistro, sa trovare sempre la posizione più pericolosa alle spalle dei centrocampisti avversari e sa muoversi per il campo con i tempi giusti per creare pericoli alle difese. Gabbiadini si è adattato alle richieste di Benitez con sorprendente rapidità: a Bologna e a Genova era un giocatore che partiva largo sulla fascia, riceveva il pallone tra i piedi e poi cercava l’interno del campo; nelle ultime uscite col Napoli, ha mostrato movimenti in perfetta sincronia con Gonzalo Higuain, andando spesso ad occupare la posizione di punta centrale. Per certi versi, Gabbiadini è più efficace di Callejon, il quale resta spesso largo per sorprendere l’ultimo uomo della difesa avversaria (terzino o tornante) alle spalle, lasciando in questo modo il centro dell’attacco sguarnito. I tre concedono una replica quattro minuti dopo, quando Higuain esce dalla difesa per ricevere palla da Gabbiadini, portando con sé il suo marcatore; de Guzman vede il buco ma resta largo, perché in quello spazio va ad infilarsi proprio Gabbiadini, che compie

: controllo orientato e tunnel al portiere in un fazzoletto di campo. Insomma, dopo venti minuti il discorso qualificazione era già chiuso.

 

Nel lotto delle 32 squadre ancora in lizza il Napoli è una delle pretendenti più credibili. A mio parere solo due squadre potrebbero mettere in difficoltà gli azzurri: il Liverpool di Rodgers, che in questo scorcio di 2015 ha ritrovato una continuità di risultati notevole (9 vittorie, 4 pareggi, 1 sola sconfitta contro il Chelsea in League Cup) e la Roma di Garcia, nel caso dovesse ritrovare l’identità smarrita e riuscisse a passare il turno a Rotterdam. Nell’ultimo anno e mezzo, il Napoli ha compiuto vere e proprie imprese con le grandi per poi cadere nella polvere con le piccole; gli azzurri pagano in termini di tenuta mentale soprattutto quando devono proteggere il vantaggio. Per certi versi, il peggior avversario del Napoli è il Napoli stesso.

 
 

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Pur attraversando la peggiore crisi di gioco dall’arrivo di Rudi Garcia, la Roma contro il Feyenoord ha giocato una buona partita, messa poco in evidenza dall’ennesimo risultato non positivo (un 1-1 che sembra la costante di questo periodo). La brutta partita di domenica contro l’Hellas Verona ha poi contribuito ad archiviare la gara di Europa League e mantenere la narrativa della squadra in crisi.

 

Invece giovedì la Roma è stata assolutamente all’altezza del palcoscenico europeo e ha persino mostrato la riscoperta di vecchi meccanismi che sembravano dimenticati in questo 2015 e che potrebbero essere la chiave per passare il turno a Rotterdam.

 

Consapevole dell’abitudine del Feyenoord ad attaccare con una linea difensiva molto alta, Garcia ha optato per una strategia che andasse a colpire proprio lì la squadra olandese, schierando due attaccanti esterni veloci in grado di attaccare lo spazio dietro i centrali avversari. Totti al centro dell’attacco si abbassava nella consueta posizione tra le linee, col compito di fare da perno a una sequenza di movimenti innescati da Pjanic e terminati da Gervinho o da Verde in profondità. Da notare soprattutto

in rapida successione che fanno arrivare la palla in area, e che con le difese italiane (basti pensare al Parma prima e all’Hellas dopo) non funziona più da tempo, visto che hanno capito che costringere la Roma ad attaccare posizionalmente è il modo migliore per renderla sterile. Situazione che evidentemente il tecnico Rutten ha sottovalutato. Dei due attaccanti esterni Gervinho aveva il compito di attaccare sempre la profondità, mentre Verde ha partecipato di più al gioco, venendo in mezzo e liberando spazio per le discese di Torosidis sulla fascia destra. Il greco, insieme a Pjanic, ha fatto sì che la Roma catalizzasse il 44% del proprio volume di gioco su quella catena. Solo l’imprecisione di Gervinho sotto porta ha evitato alla Roma di finire il primo tempo in vantaggio di più gol.

 

In fase di non possesso Garcia ha chiesto a Pjanic di avanzare quasi in linea con Totti per ostacolare numericamente la costruzione dal basso degli olandesi, portando i due attaccanti esterni sui terzini avversari per quello che si può definire un 4-4-2. La presenza di Totti e Pjanic al centro ha tolto a Kongolo, il centrale con compiti di impostazione, spazio per avanzare e verticalizzare, costringendolo a giocare tanti palloni (quasi 100, una decina in più rispetto al regista Clasie) ma pochi realmente utili.

 

Nonostante le parole di Garcia in settimana abbiano esaltato il

, solo alcuni giocatori si sono spinti in pressione (Nainggolan e De Rossi su tutti) e la squadra non è sembrata avere una strategia comune in fase di recupero del pallone. Il solo schieramento difensivo è bastato a dar fastidio al Feyenoord, limitando la fluidità del possesso olandese, che aveva i soli Kongolo e Clasie come fonti del gioco.

 

Oltre alla poca fluidità, il Feyenoord si è presentato a Roma con poca intensità, mostrando solo a piccole fiammate di voler recuperare velocemente il pallone, come è solito fare, e mantenendo quindi la partita su ritmi gestibili per gli avversari. La squadra di Rutten ha avuto il pallone ma ha mostrato limiti di creatività e di letture, trovando il cambio di passo solo con le eleganti verticalizzazioni dai piedi di Clasie. L’accentuata distanza tra i reparti della Roma, con l’andare della partita, ha facilitato la gestione da parte del Feyenoord, ma di reali pericoli ne sono stati creati pochi. La strategia non andava oltre compiti semplici per ogni componente dell’attacco: l’attaccante Kazim (autore del gol del pareggio) doveva lavorare palloni spalle alla porta, defilandosi e lasciando spazio agli inserimenti dei due esterni Vilhena e Toornstra (il primo più portato al gioco, il secondo un’ala olandese classica). Più intriganti i movimenti del trequartista Immers, che in fase di possesso arretrava per portare superiorità numerica a centrocampo, o si inseriva portando via De Rossi dalla marcatura di Clasie. Il centrocampista della Roma, stretto tra il voler prendere Clasie e l’essere risucchiato dal movimento di Immers, non ha potuto quindi mantenere costante la pressione sugli avversari una volta che il Feyenoord ha superato le prime difficoltà nell’impostare.

 

È difficile pensare che il Feyenoord replichi la poca intensità vista a Roma anche in casa. I ritmi più elevati potrebbe essere difficili da gestire per la Roma, ma va detto che se i giallorossi rimetteranno in pratica la strategia offensiva iniziale possono nuovamente mettere in difficoltà la linea difensiva alta degli olandesi. Attaccando con la doppia verticalizzazione la squadra di Garcia può tranquillamente mandare in porta almeno un paio di volte Gervinho anche a Rotterdam, in una partita dove la Roma sarà obbligata a segnare almeno un gol per passare il turno. Una cosa non impossibile, nonostante il periodo nero faccia pensare il contrario.

 
 

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Giovedì sera, lungo la facciata di ingresso del Celtic Park campeggiava uno striscione su cui era impressa un’enorme stella gialla su sfondo bianco, recitava lo slogan

. Esattamente come nel 1967, per ragioni che non saprei ricondurre alla dimensione spirituale, l’Inter ha subito il ritorno dei

, in questo caso due volte nell’arco di novanta minuti. Come nella più diffusa narrazione della finale di Lisbona, anche giovedì l’Inter ha pagato la stanchezza.

 

Mancini ha schierato gli stessi uomini della fortunata trasferta di Bergamo, ad eccezione di Podolski e Brozović, non arruolabili per l’Europa, e di Handanovič, sostituiti da Kuzmanović, Icardi e Carrizo. Alla fatica fisiologica va sommata una carenza strutturale di

: Campagnaro e Kuzmanović non lo sono più da tempo, Santon dopo un anno di fermo non offre garanzie per i novanta minuti, Palacio, al netto dei due gol, è in evidente fase calante, pur rimanendo insostituibile. In quest’ottica il 3-3 è un ottimo risultato, che bilancia i pregi e i difetti dell’Inter rispetto al Celtic e comunque conserva la certezza di poter contare su una vittoria o su un pareggio (sotto le tre reti) nel ritorno a Milano.

 

Qualche preoccupazione sorge nel momento in cui interroghiamo le immagini e non il tabellino. La partita può essere suddivisa in due fasi, alternatesi ad intervalli di quindici/venti minuti, ovvero: quando i giocatori del Celtic arrivavano sul pallone con mezzo secondo di ritardo, quando invece ci arrivavano con mezzo secondo d’anticipo. Le due squadre si sono passate, come un testimone, il polso della gara. Dopo il felice avvio per l’Inter, i primi due gol del Celtic, succedutisi nel giro di sessanta secondi, hanno suggellato l’ingresso nella seconda fase, quella in cui i due mediani dei

hanno preso le misure sulla circolazione dell’Inter e perfezionato il recupero palla.

 

Il primo gol ha esposto le difficoltà del rombo di Mancini a difendere sugli esterni. Sono servite due triangolazioni scolastiche a sorprendere Kuzmanović, a distrarre Medel che segue il contromovimento di Mackay-Steven e si lascia scivolare alle spalle Johansen, in teoria il suo avversario diretto, e a confondere Santon che sul delizioso tocco del norvegese ha ormai perso Matthews, il terzino, libero di crossare dal fondo. Problemi di comunicazione anche tra Campagnaro e Ranocchia, entrambi sulla punta Griffiths mentre Armstrong (gran bel giocatore) si inserisce e può calciare in corsa. Il problema è riducibile ad un’equazione matematica, il Celtic ha spesso portato sugli esterni quattro uomini, sfruttando l’intesa tra ala e terzino, la presenza del mediano e i movimenti a supporto di Johansen. Contro un avversario dalla scarsa esplosività e l’ancor più scarsa tenuta mentale, ha funzionato molto bene. L’Inter non li teneva.

 


Medel segue Mackay-Steven che scivola alle spalle di Matthews. Dei tre difensori in maglia azzurra nessuno si preoccupa di chiudere la linea di passaggio per Johansen, alle spalle di Santon c'è già uno spazio enorme in cui si infila Matthews. Decisioni sbagliate, scarso tempismo, molta confusione.



 

Il secondo gol nasce addirittura da rimessa laterale, con Medel che si dimentica di Johansen, libero di prolungare a centro area, cui si aggiungono l’errore di lettura di Ranocchia, goffamente a vuoto, e l’infortunio di Campagnaro, che stavolta anticipa Armstrong ma calcia nella propria porta.

 

Il limbo in cui viaggia l’attuale Inter, che poi sta alla base delle tante occasioni da gol concesse, è l’idea di rimanere sempre uguali a sé stessi senza essere ancora abbastanza equilibrati da poterselo permettere. L’unico tentativo di adattare la squadra al contesto di gioco si è registrato con l’ingresso di Dodô e il passaggio alla difesa a cinque, così da ripristinare la parità numerica sui tre attaccanti avversari più i due terzini. L’effetto benefico non dura a lungo, il finale è un imbuto d’ansia tra i crampi di Ranocchia, le due richieste di soccorso di Medel e le continue interruzioni di gioco che riesce difficile attribuire al proverbiale

, e paiono riducibili piuttosto ad insicurezza. L’epilogo è tristemente noto.

 

Due appunti individuali: Icardi ha tirato fuori l’ennesima prestazione stellare. Il gol di Shaqiri sfrutta una pessima respinta di Gordon, ma ancora prima un pallone rubato (sulla fascia!) da Maurito a Matthews. Il tacco con cui libera Palacio al 49.esimo è pura delizia, ma sui 40 metri il

brucia il vantaggio che aveva. Quando si siede in panchina, l’Inter cede definitivamente.

 

Kovačić, entrato al suo posto, quando non legge la partita non si controlla. Vedi l’espulsione contro la Juventus, vedi l’eccesso di impeto con cui per anticipare Mackay-Steven rimette il pallone a centro area, regalando il 3-3 al Celtic. Età alla mano, certamente lo si preferisce aggressivo che desistente, e gli si deve perdonare tutto.

 

Il passaggio agli ottavi non sembra compromesso, ma urgono miglioramenti. L’amarezza del gol di Guidetti al 93.esimo consolida l’impressione che il progetto di Mancini non intenda costruire

dai difetti della squadra (

Simeone), ma

i difetti della squadra.

 

L’approccio aggressivo, al momento del calo fisiologico, espone la tenuta mentale a tratti imbarazzante della fase difensiva: è un palloncino che scoppia, la cui esplosione lascia strascichi. Il rombo di centrocampo con gli interni che non sono gran difensori e i terzini lenti a supportare è destinato a soffrire sempre, eppure ha già migliorato molto la quantità e la qualità delle soluzioni offensive. Mancini non ha investito sull’equilibrio ma sulle idee, l’ha certificato con l’entusiasmante dichiarazione «se Mazzarri fosse rimasto, sicuramente avrebbe avuto 4-5 punti in più» e le prime soddisfazioni iniziano ad arrivare. La gara di ritorno dovrebbe regalarne un’altra.

 
 

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